Raimondo di Sangro
Nel mondo del Principe di San Severo (1710-1761)
Davide Arecco - Ricercatore e docente di Storia della scienza e della tecnica, Università di Genova
Su
Raimondo Maria di Sangro – sulla sua figura storica, le sue molte
opere e la sua leggenda – esiste una vasta letteratura
secondaria, non tutta e non solo specialistica.1 Conosciamo il nobile,2 il linguista,3 il massone,4
l’alchimista. O forse crediamo di conoscerlo, specie
quest’ultimo, visto il costante e reciproco compenetrarsi di mito
e realtà in merito al personaggio e alle sue risultanze. Il
Principe di San Severo è da sempre – si pensi anche a
Benedetto Croce, alle sue Storie e leggende napoletane
– un termine di confronto quasi obbligato per chi guardi al
Settecento meridionale, e in particolare partenopeo, nelle sue
molteplici e controverse sfaccettature. Nell’ultimo decennio sono
apparse – finalmente, pare il caso di dirlo – edizioni
apprezzabili, sul piano critico-filologico, delle opere più
importanti pubblicate in vita dal di Sangro.5 Il
problema maggiore, sino a poco tempo fa, era quello costituito da una
scarsa ed affidabile documentazione, o meglio da una documentazione
scarsamente controllata e sottoposta a severe verifiche, riguardo la
veridicità testuale delle fonti, a loro volta assai elusive.
Proprio come il ritratto del Principe, sul quale qualcosa,
probabilmente, ci sfuggirà sempre. Ad ogni modo, possiamo
affermare, in sede di bilancio, che il San Severo sembra tutto sommato
essere stato riconsegnato alla storia. Ciò che, a mio avviso,
ancora attende di venire restituito alla corretta e rigorosa indagine
storiografica sono gli interessi medici del Nostro, la cui
considerazione e ricostruzione è stata sovente offuscata dalla
preponderante rilevanza attribuita ad altri aspetti. Come dire che il
massone e l’alchimista hanno calamitato – a torto o a
ragione, certo in maniera esclusiva – l’attenzione degli
studiosi. Non si vuole qui – tutt’altro – sminuire il
rilievo che spetta al Principe nella storia della Massoneria e in
quella, strettamente congiunta ad essa nel corso dell’evo
moderno, dell’alchimia. Credo semplicemente – e
cercherò di dimostrarlo – che nel caso del di Sangro
l’inclinazione competente e partecipe per le scienze della vita
abbia finito con il costituire una sorta di terzo anello della catena
conoscitiva. Una triade, quindi, dal Nostro rivissuta religiosamente:
Libera Muratoria, pratiche alchemiche, studi biologici. Nel variopinto
microcosmo delle logge, prima della scomunica, il di Sangro
trovò (innamorandosene) quell’arte spargirica che
rappresentava la ricaduta sul piano pratico dell’ermetismo
rosa-crociano (fondamentale nei sistemi latomistici alto-graduali, come
il suo scozzesismo).
Ora, quanto ci dobbiamo domandare è quale fosse l’arte
alchemica del Principe. Questi non era particolarmente avvinto da
simboli magici e fantasie gnostiche. Semmai l’attraeva della
grande opera la dimensione pratico-empirica, quantitativa e
‘razionale’, illuministica come tanti tratti del suo
personaggio.6 Insomma, detto in altre parole,
l’alchimia coltivata dal di Sangro era una forma, neanche tanto
spregevole o degenere, di iatro-chimica post-seicentesca. Il che
riporta il Nostro alla storia della biologia. In effetti, se gli
storici in generale si sono ormai riappropriati del di Sangro, i
cultori di storia del pensiero scientifico parevano sino a solo pochi
anni fa ancora un po’ titubanti nell’accettarlo. Ricondurre
il Principe di San Severo alla storia della scienza europea e a quella
del Settecento nello specifico: è questa la mia ambizione.
Oltretutto, le relazioni di don Raimondo con molti spiriti magni del
suo tempo sono ineludibili.
Per accettare la medicina dei novatores, il Principe dovette
naturalmente abbandonare quella dei veteres. Rigettò infatti, in
fretta e senza patemi, il galenismo e la storia naturale aristotelica
che aveva appreso presso la scuola gesuitica romana, ove si era fermato
sino all’età di vent’anni e ove aveva potuto
comunque acquisire una preparazione intellettuale di gran lunga
superiore alla media dell’epoca. Cultura che, accanto
all’innata propensione per lo studio e la ricerca, ne fece un
genio del XVIII secolo, non solo nel Regno di Napoli.7
Prima di venir ascritto tra le fila dell’Accademia della Crusca
– e da cruscante scriverà la famosa Lettera apologetica,
la sua confessione spirituale – il di Sangro appartenne alla
Accademia dei Ravvivati (con lo pseudonimo di
«Precipitoso», ad indicare credo la sua inesauribile
curiosità). Nei laboratori segreti della sua dimora e nello
spazio privilegiato di quella società scientifica, spia del
rinnovamento accademico settecentesco, l’ancora giovane Principe
poté approcciare e far sue le più recenti frontiere
dell’anatomia, soprattutto della nascente cero-plastica. Sul
versante dell’investigazione biologica, d’altra parte,
poteva soccorrerlo pure la gran tradizione medico-filosofica del
Mezzogiorno di Italia. Il naturalismo rinascimentale, la sua ripresa in
senso neo-democriteo grazie a Marco Aurelio Severino e meccanicistico
per mano degli Investiganti,8 non erano passati
come acqua fresca e per l’appunto nella nuova iatrochimica del di
Sangro ne possiamo scorgere potenti echi riflessi. La prudenza in
citazioni e rimandi è solo da attribuirsi al timore onnipresente
della censura. Oltre che dalle ire di quest’ultima, il Principe
si dovette guardare dai dubbi e sospetti di stregoneria nutriti nei
suoi confronti dal popolino, per cui il suo nome – anche
solamente il sentirlo pronunciare – avrebbe suscitato per un
lungo tempo (non fa eccezione, temo, l’oggi) immagini legate alla
stregoneria e alla magia nera.
Lo scandalo nacque proprio dagli scritti iatrochimici e biofisici del
Nostro, appena varcata la metà del secolo. Tutto cominciò
con le polemiche suscitate dalle eruditissime Lettere sopra alcune
scoperte chimiche indirizzate al signor cavaliere Giovanni Giraldi
fiorentino,9 edite da Lami sulle «Novelle
letterarie di Firenze» nel 1753 e ristampate poi dal di Sangro,
in Napoli, attorno al 1756, credo per i tipi di Salzano e Castaldo (due
editori-librai del suo giro). Al medesimo ambito si può far
appartenere la celebre descrizione del così detto «lume
eterno», del quale il Principe ragguagliò il pubblico
colto con la sua Dissertation sur un
Lampe antique, trouvée à Munich en l'année 1753.
Ecrite par M.r le Prince de Saint-Sevère, pour servir de fluite
a la prémière partie de ses Lettres à M.r
l'Abbé Nollet, à Paris. La seconda parte di queste
lettere – sempre indirizzate all’abate Nollet, nome di
punta dell’Académie des Sciences di Parigi e tenace rivale
di Franklin sull’elettricità – le quali contenevano
«la relation d’une decouverte qu’il a faite par le
moyen de quelques expériences chimiques; et l'explication
phisique de ses circonstances», vennero edite «à
Naples, chez Joseph Raimondi» nel 1753. Un anno davvero
intensissimo per il Nostro.
I temi affrontati in tutte queste opere non rivelano un ingegno fuori
dal tempo (come peraltro da più parti si è talvolta
invocato), né un anti-scienziato o un negromante, che commercia
con gli spiriti diabolici. Quello che viene fuori da pagine in
realtà molto complesse e ancora da studiare in dettaglio
è la rappresentazione di una scienza certamente mista, che vede
il suo autore passare con disinvoltura persino eccessiva dalle
suggestioni del biomeccanicismo cartesiano – conosciuto pure
grazie al tramite dei materialisti (il La Mettrie del «fratello
massone» Federico II) e philosophes, all’alba della loro
stagione dorata – a quelle solo apparentemente opposte d’un
mai sopito retaggio alchemico. Il Principe fu dunque, prima di ogni
altra cosa, un grande sincretista. Mente eclettica per eccellenza,
devoto seguace (come Newton, Leibniz, a Napoli Paolo Mattia Doria)
d’una prisca sapientia
madre di ogni conoscenza, il di Sangro razionalizzò a suo modo
la pratica iatrica, attento ai risvolti strumentali
dell’osservazione clinica e propenso a rileggere
illuministicamente le regole operazionali con le quali la scienza
accerta i fenomeni della vita.
Trattando di terapeutica e soprattutto dissezioni, sino a contemplare
un’articolata meccanica del corpo umano, il Principe mosse
dall’alchimia tradizionale alla iatrofisica post-galileiana. Solo
la sperimentazione ripetuta può – anche per lui, come per
tanti «moderni» – provare la verità delle
teorie. Se la metafisica scientifica del di Sangro non eliminò
mai del tutto alcune scorie legate ai fantasiosi modelli del passato,
la direzione da lui indicata, non senza audacia e coraggio, è
nuova e volta a percorrere strade poco esplorate. Il Principe non fu,
né volle essere, un mago. Non a caso, egli cercava conferme alle
proprie esperienze invocando l’autorevolezza di un Nollet. Il
percorso compiuto da Raimondo, a mezzo di mille difficoltà, ci
può ricordare quello di Francesco Giuseppe Borri un secolo
prima. Come durante la seconda metà del Seicento col milanese
Borri – alchimista e medico, insistentemente cercato da Newton
– nel Settecento col Principe di San Severo, si rende palese
quello che Salvatore Rotta ha chiamato il «rovescio mistico della
rivoluzione scientifica» di età moderna.10
La iatrochimica del di Sangro, oltre che nei libri succitati, rifulge
anche, in architettura, nella Cappella della sua famiglia. La piccola
chiesa, con i suoi influssi massonici e le sue allegorie, è un
autentico capolavoro del tardo Barocco napoletano, cui parteciparono al
tempo artisti e maestranze di grande notorietà. Era stata
fondata da Alessandro di San Severo nel 1613, pareva sul luogo
d’un antico tempio consacrato a Iside. Don Raimondo, continuando
la strada intrapresa dal suo antenato Alessandro, abbellì la
cappella gentilizia con statue ricche di allegorie dal multiforme
significato – alchemico-chimico in certi casi, muratorio in altri
– impegnandovi ingenti risorse finanziarie, sino a fare della
chiesetta uno dei maggiori tesori artistici di Napoli.11
La Cappella San Severo, si sa, è nota quasi ovunque in ragione
delle tre statue che la adornano, la cui esecuzione materiale rimane un
misterioso enigma. Una ipotesi avanzata dai contemporanei estimatori
del di Sangro è che essa sia il risultato di un procedimento
messo a punto dal Principe per marmorizzare un tessuto. Quanto
all’interpretazione delle allegorie, questa verte
senz’altro sul messaggio illuministico e scientifico, secondo il
quale attraverso la ragione ed il suo uso l’uomo può
disingannarsi e liberarsi dalle false verità, allo scopo di
poter così accogliere le autentiche certezze.
Si è fatto più sopra cenno all’interesse del di
Sangro per gli apparati strumentali e la tecnica in generale. Va
precisato che quella concernente le invenzioni del Principe, presunte o
reali, resta una questione piuttosto controversa, dal momento che
alcune si trovano menzionate soltanto nella Lettera apologetica, stesa
nel 1750. Sorvolando sulla questione – attribuzione o
auto-attribuzione? – quanto mi preme, ai fini del presente
discorso, è richiamare qui l’attenzione sulle note
macchine anatomiche di don Raimondo. Tra l’altro,
l’invenzione di queste ultime è, forse, la sola giunta
sino a noi. Si tratta di due modelli anatomici in grandezza naturale,
costituiti da due scheletri umani (di uomo e di donna) su cui è
incastellato il solo albero sanguigno, dai colori differenziati blu e
rosso; ora, la leggenda vuole che il di Sangro avesse ottenuto tale
metallizzazione del circuito sanguigno iniettando un composto di sua
fabbricazione e, dato che l’unica pompa pneumatica atta a
spingere il liquido sin dentro ai vasi capillari più sottili
rimane il cuore, che i due malcapitati fossero ancora vivi durante
l’esecuzione dell’esperimento. Naturalmente, a
quell’epoca, non si disponeva ancora della siringa ipodermica. Le
due macchine anatomiche, all’inizio nel laboratorio del Principe
e ora situate nella cava sotterranea della Cappella, sarebbero state di
fatto realizzate da un anatomista di Palermo, Giuseppe Salerno, come
risulta da un contratto, oggi conservato nell’Archivio notarile
di Napoli. Partendo dai due scheletri umani il Principe
s’impegnava a fornire al medico siciliano il fil di ferro e la
cera colorata (in base ad un metodo da lui ideato) per ricostruire
l’albero circolatorio e approntare pertanto un valido modello
didattico ai non sempre esperti medici del regno. In origine, la
macchina femminile aveva anche un feto, trafugato però circa
mezzo secolo fa. Che si tratti poi di macchine non è peraltro
certo, in quanto non si è mai potuto appurare la cosa.
Talento veramente enciclopedico, non meno del secolo in cui visse, il
di Sangro si occupò di ogni ramo dello scibile umano.
Costruì macchine idrauliche, capaci di trasportare l’acqua
a qual si voglia altezza, si interessò di pirotecnica (per
realizzare fuochi d’artificio policromatici), lavorò ad un
prototipo di carta ignifuga (un misto di lana e di seta, con la
proprietà di non prendere fuoco), a sistemi per dissalare e
potabilizzare l’acqua di mare, alla fabbricazione di gemme
artificiali (simili alle gemme vere e realizzate in marmo bianco, per
esser poi colorate in base ad un procedimento del tutto nuovo) ed
all’impermeabilizzazione dei tessuti (un mantello similmente
trattato, che il di Sangro avrebbe donato a Carlo di Borbone, grande
appassionato di caccia).12
Tra le inclinazioni del Principe vi fu, come detto, quella per la
farmacopea. Appassionato di fisiologia – e negativamente colpito
dall’ignoranza dei medici a lui coevi su questioni anatomiche, da
cui l’intenzione di mettere a punto apposite macchine – il
di Sangro studiò approfonditamente i remedia ricavati dai
semplici. Per curare un paziente, affetto da un morbo sconosciuto,
invano gli somministrò un estratto di pervinca. A seguito
dell’esame autoptico, a cui il Principe partecipò e del
quale ci ha lasciato traccia, è stato possibile appurare che si
trattava di un tumore allo stomaco, incurabile.13
Ritornando alla matrice iatrochimica – centrale, a mio parere,
per comprendere senza svilirla la «scienza» del Principe
– vanno ricordati innanzitutto i marmi alchemici del di Sangro.
Nelle sue sperimentazioni alchimistiche, il San Severo avrebbe
inventato diverse sostanze chimico-mediche, tra le quali stucchi,
mastici madreperlacei, usati per costruire cornicioni e capitelli,
nonché un tipo di marmo sintetico che, versato allo stato fuso
in apposite canaline, avrebbe formato un «cordone» bianco
marmoreo, ininterrotto, che decorava il pavimento della cappella di
famiglia (e ancora oggi è parzialmente visibile). Alcuni hanno
fantasticato e non poco circa un suo possibile procedimento di
marmorizzazione dei tessuti e la prova materiale sarebbe rintracciabile
nella scultura del Cristo Velato, presente nella Cappella, ove il corpo
sembra ricoperto da un velo di marmo trasparente. A onor del vero, si
deve ricordare che, riguardo a quest’ultima
«invenzione», non abbiamo in realtà alcune prove
certe, mentre l’impressione del velo potrebbe essere dovuta
soltanto all’abilità dello scultore, Giuseppe Sanmartino.
Nulla di occultistico, detto altrimenti. E lo stesso si potrebbe dire,
a maggior ragione, per altre due invenzioni, di cui il Principe
dà notizia. La prima riguarda il così detto carbone
alchemico, una mistura di sostanze originariamente animali e vegetali
atte a bruciare senza produrre residui di cenere. La seconda, meglio
conosciuta ma poco studiata, è testimoniata da diverse missive
inviate dal San Severo ad illustri colleghi (il Nollet ed altri, per lo
più francesi e tedeschi) e concerne il Lume eterno. Esso sarebbe
stato un composto chimico, ottenuto a seguito della triturazione delle
ossa di un teschio, costituito forse da una miscela di fosfato di
calcio e di fosforo ad alta concentrazione. La miscela in questione
– rinvenuta a Monaco di Baviera, verso la metà del secolo,
afferma il di Sangro – avrebbe avuto la capacità di
bruciare molto lentamente e di consumare una quantità realmente
irrisoria di materia combustibile.
E’ superfluo dire che i particolari tecnici di questa e
d’altre invenzioni attribuite al Principe finirono
inevitabilmente con l’alimentare la leggenda nera già in
vita legata al suo nome. Va anche detto che il San Severo non fece
peraltro nulla per screditare tali dicerie o replicare alle ingiurie le
quali circolavano sul suo conto. Anzi, amò ammantare la propria
esistenza di segretezza rinchiuso per giorni e giorni nel suo gabinetto
delle scienze, dove – tra esperimenti e invenzioni –
l’alchimia di partenza cedeva faticosamente il posto ad una nuova
chimica. Le originali e inusuali attività del Principe –
dalla tipografia installata nei sotterranei del suo Palazzo (foriera di
sinistri e inquietanti rumori notturni) alla sua militanza nel Rito
Scozzese – contribuirono di sicuro a creargli attorno una fama
poco lusinghiera. Come è stato giustamente osservato, divenne
presto una figura centrale nell’immaginario magico della cultura
popolare napoletana. Tra le voci circolanti su di lui, quella oscura
circa la metallizzazione dei corpi e l’altra che ottenesse il
sangue dal nulla, come una sorta di creatio ex nihilo tutta e solo profana.14
Stregone, ateo, fautore della magia demonica e adoratore del Diavolo.
Questo – da più parti, principalmente la Chiesa e le rozze
masse – si disse a proposito di don Raimondo. Nulla di più
falso. Il San Severo fu vittima di accuse prive di alcun fondamento,
che gli procurarono comunque una damnatio memoriae immeritata. Il
Principe non fu affatto quel che di lui si diceva, malignamente.15
E non fu un intellettuale alla Paolo Mattia Doria. Oppure un Vico in
chiave alchimistica, Vico che poi era del Doria amicissimo.16 Per nulla «ozioso», il Nostro seppe aprirsi alle scienze – in primis
quelle della vita, accademiconon sempre e non solo nuove – per
arrivare a rileggerne i contenuti secondo parametri assolutamente
personali. Fu un figlio del suo tempo, sul piano tanto politico-sociale
quanto su quello scientifico-accademico.17 Illuminista
a metà, coltivò la scienza chimico-medica (oltre che una
tecnologia storicamente ancora da venire) in una maniera talora
asimmetrica rispetto ai modelli epistemici del Settecento. Un
Settecento al quale peraltro il Principe guardò con interesse e
condivisione d’intenti, desideroso d’appartenervi. Risiede
ritengo qui – e non altrove – il paradosso storico legato
al personaggio e alla sua produzione, complessa e affascinante.18
Il San Severo era letteralmente ossessionato
dall’immortalità e la rete sanguigna solidificata nelle
macchine anatomiche con un arcano di sua invenzione lo proverebbe. Pare
in effetti accertato che egli iniettò, nel 1739, una sua
soluzione alchemica in due corpi già cadaveri, ricoperti da cera
di api colorata (e montata su armature di ferro e di spago).
L’obiettivo doveva essere quello di conservarli per
l’eternità, mummificandoli. Alla prova dei fatti, il
sistema fallì e le carni finirono per deteriorarsi, mentre il
solo apparato cardiocircolatorio restò integro. Rimasero le sue
macchine anatomiche, da lui descritte (nella Breve nota del 1766) come
«due scheletri d’un Maschio, e d'una femmina, ne’
quali si osservano tutte le vene, e tutte le arterie de’ Corpi
umani, fatte per injezione, che per essere tutt’intieri, e per la
diligenza, con cui sono stati lavorati, si possono dire singolari in
Europa». La Cappella è quindi, insieme, officina
scientifica e libro di pietra. Tutta la simbologia del tempio
disangriano si ispira all’antica simbologia di Cesare Ripa, lo
studioso di emblemi che, nel 1603, aveva fissato i canoni simbolici
della Fortuna, Fortezza, Sapienza, Fede, Astronomia e Matematica (sulla
scia di Andrea Alciati).
Un’altra scoperta il Principe descrisse in una lettera –
sottoposta a perizia calligrafica e oggi reputata autentica –
datata 14 novembre 1763 e indirizzata al barone Theodor Tschudy, un
cadetto del reggimento di svizzeri al servizio del Re di Napoli ed un
esponente di spicco della Massoneria tedesca,19 grande
amico del di Sangro. Nell’epistola vi sono passaggi, scritti
mediante un codice a traslitterazione di tipo rosa-crociano, quindi
criptati e decifrati secoli dopo da Clara Miccinelli. Da quanto viene
riportato, sembra che il Principe avesse intravisto fenomeni di
radioattività naturale a metà del secolo diciottesimo.
Egli si accorse infatti che il «raggio attivo» - da lui,
profeticamente, così denominato – proveniente da un ignoto
minerale (la «pechbenda», vale a dire le «sostanze
cristalline, luminescenti al buio color di pece e d’olive, che
ebbi in dono da Sua Maestà [il re] di Prussia, che io purgai da
silicio, rame e varie impurità in crogiolo e in vari cammini
alchemici», si legge). Il minerale si estraeva in Boemia, dalle
cui miniere provenne a metà Ottocento il materiale grezzo dal
quale i coniugi Curie isolarono il radio, e il Principe scoprì
che aveva un effetto mortale sui viventi (da lui testato sulle
farfalle) che si poteva schermare ricorrendo soltanto al piombo –
da lui chiamato, in omaggio alla tradizione rinascimentale, Saturno. Se
è vero che il di Sangro seppe compiere studi di
elettro-magnetismo ante litteram,
i quali lo condussero inconsapevole alle soglie della scoperta di
uranio e polonio, potrebbe darsi che alle radiazioni emanate da questi
ultimi si debba allora attribuire la sua fine. Una morte chimica, che
ricorda tuttavia anche il precedente del Ciampini alla fine del
Seicento. Sulla lapide tombale del Principe, costituita da una grande
lastra di marmo ricoperta da una scritta latina in rilievo (opera sua)
si legge che fu «uomo mirabile, nato a tutto osare, Raimondo di
Sangro, Capo di tutta la sua famiglia, Principe di San Severo, Duca di
Torremaggiore. […] Illustre nelle scienze matematiche e
filosofiche, insuperabile nell’indagare i reconditi misteri della
Natura, esimio e dotto nei Trattati, e nel comando della tattica
militare terrestre e, per questo, molto apprezzato dal suo Re e da
Federico di Prussia […], imitando l’innata pietà a
lui pervenuta per l’ascendenza di Carlo Magno imperatore,
restaurò a sue spese e con la sua saggezza questo tempio, [...]
affinché nessuna età lo dimentichi».
Sulla lapide viaria che, invece, gli è stata intitolata sulla
piazza principale di Torremaggiore, in Puglia, leggiamo «chimico
e matematico». Come un uomo di scienza, non per altro, desiderava
dunque essere ricordato il Principe. Gian Carlo Lacerenza ha provato a
descrivere il messaggio da don Raimondo trasmesso ai posteri,
ossia
trovare
la pietra, nascosta nella luce, sublimando la luce nascosta. Quanto ai
modi per realizzarlo, egli con la sua consueta liberalità ha
voluto benevolmente indicarceli nella sua Cappella gentilizia, per il
disinganno e l’educazione degli animi volti a ottenere il
completo dominio sul proprio destino, esponendone i misteri con
sincerità e zelo; e anche un pizzico di pudicizia, però,
velata.20
Quest’Archimede del Settecento, esperto in alambicchi per la
distillazione, che inseguiva tra squadra e compasso le suggestioni
medievali del templarismo, si mosse in bilico tra fisica e pietas
religiosa, fautore di una iatrochimica illuministica eppure ancora, a
suo modo, devota.21 Una delle rappresentazioni
più (sobriamente) attendibili del Principe ci è venuta da
Carlo Villani, che ha particolarmente insistito – senza, in
seguito, trovare molto ascolto – sulle competenze
scientifico-tecniche del Nostro. Villani, senza timore di esagerare, ha
fatto esplicitamente del San Severo una sorta di «Edison
napoletano del secolo XVIII», sottolineando, oltre
all’intelligenza forte e tenace, la sincera propensione del di
Sangro verso le matematiche, pure e applicate. Le aveva apprese, tra
l’altro, dall’ignaziano Domenico Quartieroni, in assoluto
uno dei maggiori matematici della prima metà del Settecento,
stimatissimo da Newton.22 Analoga considerazione, nel
tramonto del secolo, ebbe per il Principe un altro newtoniano, il
savant illuminista e gran viaggiatore Lalande. La vita di don Raimondo
fu appartata e pressoché solitaria, tutta dedita alle ricerche
predilette. In queste, senza dubbi o riserve, egli fece propria
un’impostazione squisitamente utilitaristica, molto inglese negli
assunti di fondo.23 Né tralasciò le
lingue, giungendo a leggere perfettamente arabo e siriaco,
indispensabili per intendere in modo corretto i secreta naturae degli
antichi popoli orientali. Tutto ciò non gli risparmiò la
messa all’Indice della sua Lettera apologetica, dichiarata
colpevole per il malcelato epicureismo di questo Adepto del Sapere.24 Agli occhi di chi invece studia il Principe, oggigiorno, la Lettera si palesa come il libro dei libri. E l’autobiografia, due secoli dopo Cardano, torna a farsi mito di sé.
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[1] G. AMALFI, La fossa del coccodrillo in Castelnuovo e ancora della leggenda del principe San Severo, Trani, Vecchi, 1896; C. GRAF VON KLINCKOWSTROEM, Raimondo di Sangro, in «Archeion», XIV, 1932, pp. 490-491; C. MICCINELLI, Il Principe di Sansevero, verità e riabilitazione, Napoli, Sen, 1982; C. MICCINELLI, Il tesoro del Principe di San Severo, Genova, Ecig, 1985; A. COLETTI, Il Principe di San Severo, Novara, De Agostini, 1988; L. SANSONE VAGNI, Raimondo Di Sangro Principe di San Severo. Le origini, la tradizione templare, la vita, il periodo storico e il cammino iniziatico nel Tempio della pietà, prefazione di G. GALASSO, Foggia, Bastogi, 1992; L. SANSONE VAGNI, Una dimora filosofale in Pozzuoli del nobile puteolano Gian Battista Vecchione, Foggia, Bastogi, 1994; L. SANSONE VAGNI, I principi di San Severo ed i Cappuccini, in «Studi e ricerche francescane», XIII, 4, 1994, pp. 247-262; G. CAPECELATRO, Un sole nel labirinto. Storia e leggenda di Raimondo de Sangro, Principe di Sansevero, Milano, Il Saggiatore, 2000; E. CATELLO, Giuseppe San Martino (1720-1793), Milano, Electa, 2004; L. LISTA, Raimondo di Sangro, il Principe dei veli di pietra, Foggia, Bastogi, 2005; L. SANSONE VAGNI, Le vere origini del complotto contro i Templari di Francia. Dalla leggenda alla storia, Genova, Ecig, 2005.
[2] M. FIORE, I De' Sangro feudatari in Capitanata, II, Torremaggiore, Comune di Torremaggiore, 1971.
[3] R.M. DI SANGRO, Supplica umiliata alla Santità di Benedetto XIV, pontefice ottimo e massimo, in difesa e rischiaramento sul proposito de’ Quipu peruani, a cura di L. SPRUIT, Napoli, Alos, 2006.
[4] C. MICCINELLI, «E Dio creò l’uomo e la massoneria», Genova, Ecig, 1985, pp. 52-70, 123-124.
[5] Si tratta di R. DI SANGRO, Il lume eterno, a cura di G.C. LACERENZA, Foggia, Bastogi, 1999; R. DI SANGRO, Lettera apologetica, a cura di L. SPRUIT, Napoli-Uppsala, Alos-Universitetstryckeriet, 2002-2003. In precedenza, di quest’ultima era disponibile soltanto una versione anastatica (Napoli, Luca Torre, 1984).
[6] Quelli stessi che lo portarono a citare Toland nella Lettera apologetica (Napoli, Morelli, 1751) e nell’estratto preparatorio Parole maestre (Napoli, s.t., 1750). Il rinvio al grande irlandese tradiva, inoltre, un debito ancora tutto da esaminare con il deismo della Massoneria anglo-olandese primo-settecentesca. D’altra parte, al pari di molti radicali e freethinkers, il Principe fu anch’egli irregolare e controcorrente, spregiudicato e anticonformista, brunianamente anti-dogmatico. Raimondo era del resto figlio d’Antonio, duca di Torremaggiore e Grande di Spagna, libertino impenitente e intimo dell’Imperatore alla corte di Vienna, negli anni di Eugenio di Savoia e della sua cerchia aristocratica, la quale comprendeva tra gli altri Giannone e appunto Toland. Intrisi del legato deistico furono i libri, di chiaro influsso libero-muratorio, che il di Sangro, editore oltre che scrittore, fece uscire dalla sua tipografia – insieme a trattati e a traduzioni da nessun altro stampati nella nostra penisola – impiantata nei sotterranei del Palazzo dove viveva a Napoli, in piazza San Domenico Maggiore. Quei libri, suoi e di altri autori, incontrarono (e numerose volte) la censura dall’autorità cattolica oppure furono pubblicati anonimamente. Di area massonica il Principe fece stampare I viaggi di Ciro, da Les voyages de Cirus, dello scozzese Andrew Michael Ramsay (iscritto alla stessa loggia di Montesquieu), Il riccio rapito del poeta inglese Alexander Pope – pure lui massone, oltre che superbo classicista, conservatore raffinato e fervente ammiratore di Newton – con cui invitava la nobiltà napoletana a lasciarsi prendere dal fervore dei Lumi nord-europei; altra traduzione che uscì dalla stamperia del Principe fu quella del celeberrimo Conte di Gabalis, ovvero ragionamenti sulle Scienze Segrete, dell'abate francese Montfaucon de Villars, che, per il suo contenuto esoterico, portò al di Sangro una nuova accusa di miscredenza, da parte dei gesuiti. Alla cultura dell’occulto rinviava, peraltro, anche il contenuto della Lettera apologetica, dedicata al criterio di traduzione dei «quipu», vale a dire le cordicelle colorate, annodate a differenti altezze, che erano usate dalle popolazioni dell’America latina – gli Incas, stanziati nel Perù ‘riscoperto’ dal Muratori – al fine di scambiarsi messaggi segreti. Dalla tipografia del di Sangro videro la luce, infine, due opere da ricordare, un Vocabolario dell'arte militare di Terra (la cui redazione si protrasse per più di otto anni, fermandosi alla lettera «O») ed un Manuale di esercizi militari per la fanteria che ottenne il plauso del re di Prussia Federico II detto il Grande, interessatissimo alla scienza delle fortificazioni e vero punto di riferimento per i milieux della Massoneria continentale e dell’Illuminismo germanico. In proposito, va rammentato che il Principe scrisse e pubblicò, altresì, una dotta dissertazione sulla Pratica piu agevole, e più utile di esercizj militari per l'infanteria, apparsa prima a Napoli per i tipi di Giovanni di Simone (1747) e poi a Roma, presso gli eredi di Barbiellini e Pasquino (1760). Il di Sangro non volle esimersi, anche nel campo dell’editoria, dal compiere esperimenti tecnico-scientifici di una certa qualità, tanto che narrò egli stesso di essere riuscito a stampare varie pagine a più colori, in «una sola passata». Quanto al discorso sulla Massoneria e ai non sempre distesi legami che il Principe ebbe con essa, il tema è strettamente collegato a quello riguardante la Cappella gentilizia di Santa Maria della Pietà, la cui definitiva risistemazione – dopo oltre un secolo di oblio, dato che i lavori di restauro erano stati sospesi nel 1642 – tenne occupato il di Sangro (anche onerosamente) a partire dal 1744. In quello stesso anno, egli si iscrisse alla Libera Muratoria e divenne un «fratello massone». La sua loggia assunse il nome Rosa d’ordine Magno, derivante dall’anagramma dello stesso nome del Principe e dai richiami alla stirpe carolingia, di cui la sua famiglia da sempre vantava la sua discendenza. Nel breve volgere di pochi anni, di Sangro diventò «gran maestro» dell’ordine. In quel periodo – sotto la spinta di re Carlo III, sovrano ‘illuminista’ – si ebbero le grandi scoperte archeologiche a Ercolano, a Pompei e Paestum. Il Principe le vide in chiave massonica, alla stregua di una riscoperta degli antichi valori morali ed iniziatici propri dell’ideologia a cui la sua «Fratellanza» faceva riferimento. La reazione gesuitica non si fece attendere. Prima frate Guglielmo Pepe, poi il Santo Uffizio di Roma ed infine Benedetto XIV si scagliarono contro l’Istituto, alla fine sciolto. A Napoli, gli ultimi nemici del di Sangro e della sua Massoneria furono il Ministro della Real Casa Bernardo Tanucci (il quale odiava ingiustamente il Principe, per le sue simpatie filo-prussiane) ed il giovane sovrano Ferdinando IV (ignorante e bigotto). Nel 1764, l’anno della terribile carestia che decimò la popolazione del Regno, di Sangro conobbe l’arresto ed il carcere (proprio lui che, nelle vesti di colonnello del Reggimento di Capitanata, si era distinto valorosamente, in difesa della sua patria, nella battaglia di Velletri contro gli austriaci del 1744).
[7] Appassionato di araldica e geografia (disciplina che lo vide eccellere), il giovanissimo di Sangro studiò, oltre a greco, latino ed ebraico, anche retorica, filosofia naturale, logica, fisica, aritmetica e geometria. Portato per le lingue straniere, mantenne a proprie spese un sacerdote che gli impartì lezioni di tedesco. Nemmeno l’ingegneria militare e le costruzioni mancarono di stimolarlo. Nel 1730, compiuti cioè i vent’anni, Raimondo rientrò a Napoli, la sede stanziale del suo casato, avendo acquisito l’anno prima, morto il nonno paterno, il titolo di VII Principe di San Severo.
[8] Mi sia consentito, al riguardo, rimandare al mio Prima degli Investiganti napoletani. Marco Aurelio Severino tra naturalismo e cartesianesimo, in «Anthropos & Iatria», IV, 2007, pp. 86-90.
[9] M.A. MORELLI TIMPANARO, Il cavalier Giovanni Giraldi (Firenze, 1712-1753) e la sua famiglia, Firenze, Olschki, 2001.
[10] Sul Borri
si veda S. ROTTA, Francesco Giuseppe Borri, in «Dizionario
biografico degli italiani», XIII, 1971, pp. 4-13. Al mondo di
Borri rinvia anche la stampa voluta dal Principe del Conte di Gabalis.
Tra l’altro, Montfaucon, in occasione del suo viaggio italiano,
conobbe – oltre che l’astronomo Giovanni Giustino Ciampini,
l’animatore della Accademia fisico-matematica, patrocinata a Roma
dall’ex-regina Cristina di Svezia – proprio Borri (B.
MONTFAUCON DE VILLARS, Diarium Italicum, Lutetiae, 1702, p. 97; A.
VALÉRY, Correspondence inédite de Mabillon et Montfaucon
avec l’Italie, III, Paris, 1947, pp. 84 e segg.). Per il di
Sangro, quindi, fare uscire dalla propria tipografia sotterranea lo
scritto di Montfaucon era come riattingere all’universo di
conoscenze medico-alchemiche di Borri stesso.
[17] V. FERRONE, I profeti dell’Illuminismo. Le metamorfosi della ragione nel tardo Settecento italiano, Roma – Bari, Laterza, 2000, pp. 217-283, 415-422. E sempre V. FERRONE, La società giusta ed equa. Repubblicanesimo e diritti dell’uomo in Gaetano Filangieri, Roma – Bari, Laterza, 2003, p. 83, ha fatto giustamente notare come la Libera Muratoria del Principe fosse ancora pre-biacobina e quindi improntata a un’aristocrazia del sangue.
[18] Anche il Settecento, peraltro, non smise da parte sua di ‘cercare’ il Principe. Nel 1790, di fronte al tribunale romano dell’Inquisizione, il conte Cagliostro, già membro della confraternita dei Rosa-croce, affermò che tutte le sue conoscenze alchemiche gli furono insegnate a Napoli, da «un principe molto amante della chimica». Quale sia il nome di questo principe, non ci è dato sapere, dato che i verbali del processo sono tenuti nel più stretto riserbo da parte della Camera Apostolica. Comunque sia, i giudici non vollero credere al Balsamo e lo condannarono alla prigione perpetua, nella rocca di San Leo. A quanto pare, pertanto, il Principe Raimondo Maria di Sangro potrebbe essere stato il diretto maestro di Cagliostro (P. CORTESI, Cagliostro, Roma, Newton & Compton, 2004).
[19] Nell’opuscoletto di H.T. TSCHUDY, Il catechismo ermetico-massonico della stella fiammeggiante, a cura di E. ALVI, Roma, Atanòr, 1984, troviamo anche moltissimi riferimenti pitagorici. L’arte regia, fin dai tempi di Massimo di Tiro, esponente del neo-platonismo, indicava del resto tanto l’alchimia quanto la Libera Muratoria.
[20] G.C. LACERENZA, Introduzione a R.M. DE SANGRO, Il lume eterno, cit., p. 17.
[21] Memorie sul San Severo si custodiscono nell’Archivio Segreto Vaticano, Napoli, CCXXXIV, 98. Molti altri documenti manoscritti, tra cui il testamento olografo, sono conservati nell’Archivio Notarile di Napoli. Tra i vari libri a stampa apparsi nelle immediate prossimità temporali della morte del di Sangro sono da menzionare, per la indubbia utilità che rivestono tutt’oggi, l’anonimo Chronicon siculum, che Rosario Gregorio, vero gigante dei Lumi di Sicilia, pubblicò a Palermo nel 1782 nella Bibliotheca scriptorum qui res in Sicilia gestas sub Aragonum imperio retulere. Di rilievo anche gli Avvenimenti memorabili accaduti in Napoli, negli anni 1746 e 1747, con tutto ciò che accadde fino all’anno 1783, Napoli, 1783, p. 4, nonché G.P. ORIGLIA, Istoria dello studio di Napoli, II, Napoli, nella stamperia di Giovanni di Simone, 1753-1754. Fondamentale anche il recentissimo repertorio, assemblato a cura di F.P. DE CEGLIA, Scienziati di Puglia (secoli V a.C. – XXI d.C.), I, Bari, Adda, 2007, ad vocem. Nel lemma che l’abate Volo consacrò invece al San Severo, un ritratto purgato e quasi statuario, nel tomo I della Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli compilata dall’accademico di Marsiglia e Lione Domenico Martuscelli, si segnalano di più le scoperte e opere idrostatiche, di grande utilità allo Stato. Nulla di cabbalistico nel Principe, pertanto. Semmai, un uomo modesto ed affabile, aperto e liberale, un lettore delle Sacre Scitture, che si applicò rigidamente sopra i teologi (Bellardino e Petau su tutti). Ma di Sangro fu pure ammiratore nascosto di Sesto Empirico e Bayle, apprezzati dietro la scusa di metterne in guardia (come Vallisneri con Malebranche). E nelle opere edite e negli abbozzi incompiuti, il Principe comprovava le teorie con l’esperienza, alla quale veniva da lui circoscritto l’orizzonte del conoscere. A ragione, il Volo ha fatto del di Sangro un fervente baconiano, al quale guardarono e con simpatia i maggiori intelletti oltremontani, sorpresi tanto dai suoi lumi quanto dal suo ingegno. Utili notizie sul Principe ci vengono dalle Vicende della cultura delle due Sicilie di Pietro Signorelli. Dispensabili, al contrario, le ricostruzioni di Campanile, D’Onofrio e Colonna di Stigliano.
[22] Nel 1713 – tramite Francesco Bianchini, in quell’anno a Londra – Newton aveva fatto di Quartieroni uno dei cinque destinatari del Commercium epistolicum, fresco di stampa. Il grande inglese, sostenuto dalla Royal Society di cui era presidente, stava infatti avviandosi a vincere la sua battaglia con Leibniz in merito alla priorità nell’invenzione del calcolo infinitesimale. Su questi argomenti, mi sono diffuso nel mio Tra filologia, erudizione e storia. Il dialogo scientifico fra Italia e Gran Bretagna negli studi bianchiniani di Salvatore Rotta, in «Giornale critico della filosofia italiana», in corso di stampa.
[23] Ripensiamo, nel caso del Principe, all’interesse assai vivace per la difesa interna dei baluardi nelle cittadelle, per la pittura eloidrica per miniature, per la tessitura dei drappi. Oppure ancora al cannone che fece costruire, in grado di funzionare egregiamente non solo con una minore dose di polvere pirica, ma dotato anche di un peso specifico così minimo da consentirne un agevole trasporto per i soldati. Indimenticabile e stupefacente pure il Tempio della felicità, una grandiosa macchina pirotecnica fatta fabbricare nel 1740 – ricca di cupole, di scalinate e di elefanti – incendiata la quale comparivano simulacri di giardini con fontane zampillanti, svariati fiori ed uccelli d’ogni tipo. Il tempio piacque tantissimo al cavalier Michetti, ingegnere civile del principe di Moscovia e zar di tutte le Russie Pietro III.
[24] C.
VILLANI, Scrittori ed artisti pugliesi, Napoli, Morano, 1920, pp.
201-203. Nel corso del Settecento, d’altra parte, la rinomata
scuola alchemica napoletana – cifra di un ‘altro’
Illuminismo, piuttosto che di un anti-Illuminismo – coinvolse,
assieme al Principe, anche altri studiosi dal provato valore
scientifico. Le loro ricerche riguardarono, sopra ogni altra cosa, la
trasmutazione dei metalli e l’esame delle loro proprietà
fisiche. Il di Sangro, visto in quest’ottica, è solo il
rappresentante più illustre di questi scienziati napoletani,
ostinati nel ricercare ed eleganti nello scrivere, Certo, il San Severo
seppe conseguire risultati superiori, specie nella balistica e nella
resa plastica «a freddo» del ferro. Ma è poco
convincente l’immagine del Principe che celerebbe, sotto la
propria veste di filosofo chimico, la sua vera identità di
iniziato, limitandosi a vestire in termini scientifico-illuministici un
più profondo portato sapienziale. Può risultare infatti
vero pure il contrario, come tornano a rammentarci le grandi conoscenze
del Nostro nel campo della «notomia» e segnatamente il suo
studio del sistema venoso. E’ più probabile che il di
Sangro riflettesse più o meno originalmente paradigmi e stilemi
dell’epoca sua. Tipicamente settecentesco – anzi,
caratteristico dell’ancien régime – è
l’orgoglio da lui mostrato nel vantare la sua discendenza
nobiliare da quei duchi di Borgogna i quali avevo fuso le diverse
stirpi carolingia, longobarda e normanna. Appassionato di iconografia,
come si evince dal Tempio della pietà, il San Severo ebbe care
le arti e protesse tra gli altri scultori e pittori come Queirolo,
Corradini, Celebrano, Persico, Carlo Amalfi e Francesco Maria Russo. Si
devono infatti a loro i bellissimi apparati scultorii che ornano i
sepolcri degli antenati del Principe nella Cappella, perfetta
espressione di una simbologia massonico-templare che assomma elementi
di stampo rosa-crociano con altri dalla sicura provenienza
illuministica. E, in effetti, resta davvero difficile negare la
pregnanza dell’aspetto visivo. L’impronta, nel visitatore
accorto e non solo, rimane indelebile. Meno conosciuti sono i rimandi
all’alessandrinismo e al culto pre-cristiano di Neapolis. Una
tradizione egiziana che può inoltre legittimare contatti col
cagliostrismo del secondo Settecento. Secondo tale tradizione,
l’ex-tempio isiaco sul quale era sorta la Cappella era un
‘luogo di forze’ telluriche, in cui l’apprendista ai
Misteri doveva meditare per poter trascendere l’elemento ctonio e
di conseguenza rinascere in quello uranico: una sorta di palingenesi
celeste. A questo cammino iniziatico le realizzazioni scientifiche del
San Severo – costruzioni geometriche e architettoniche, macchine
meravigliose per la esplicitazione di armonie numeriche –
facevano da sfondo e da cornice. Una sorta di terreno preparatorio,
sacralizzato dalla scienza.
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