Marco Albertazzi - Paris IV Sorbonne - Langue Italienne Articolo riprodotto per gentile concessione dell'autore, che ne detiene i diritti. Riproduzione vietata con qualsiasi mezzo.
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Contenuti – 4. Il limite del mondo – 5. La calamita.
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L’ottavo cielo è la figurazione del cosmo e appartiene alla concezione del mondo come lo stato umano può concepire: O gente ceche et intelletti storpi, como la via diritta ve se oscura, non contemplando li celesti corpi!
Esser non può che sia la mente nuda d’amar amante, dico, più e meno; or voglio che tal detto in te si chiuda.[54] Nella visione del mondo dello Stabili agisce, sui fatti terreni, un bipolarismo secondo cui a coloro che per volontà si elevano sino a «quella donna» si oppongono coloro che restano accecati con gli «intelletti storpi», ovvero deficitari della sfera spirituale. La conseguenza per chi non possiede volontà è la perdita del giusto orientamento («la via diritta vi si oscura»). La sintesi stabiliana (gnomica) del mondo trova nell’espediente della sentenza o dell’exemplum la propria forma letteraria. Se il cammino dell’uomo è verso «quella donna» questo non avviene, per Cecco, contro alcun dogma,
ché nell’eterne intelligenze nude la noia col poder sì si converte, a.lor divina mente non si chiude. Ciascuna move solo, dico contra te, tutte cose manifeste piando certe, si como ni exemplo riguardando.[55]
Cessa, intelletto, colle rote vele, che tua virtù non basta a veder luce di quel che te conviene esser fedele, unde perfetto Idio fa e natura universal che sempre spira e luce, che ‘n atto di potenza trai figura.[56] Esser fedele alla conoscenza superiore vuol dire esser fedele ai principi che governano il mondo. Il mondo, beninteso, che non è la terra ma la concezione che l’uomo ha di ciò che lo circonda[57]. Il pensabile induce Cecco a scrivere che:
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Ultra [non segue più la nostra luce For del la superficie de quel] primo in qual natura per poder conduce [La forma] intelligibil che divide noi dagli animal per l’abito exstremo qual criatura mai non tutto vide.[58]
Il nostro pensiero
non oltrepassa la sfera del Primo Mobile; è insita nella natura del Primo
Mobile la volontà di condurre il pensiero umano fino a questo limite. Oltre
c’è l’Abisso che nessuna creatura può mai vedere, a meno che abbia fiducia
nell’essenza divina (vedi la strofa «Cessa, intelletto, colle rote vele»).
Smetti di pensare, dice Cecco, se questo tuo intelletto non è sorretto dalla
virtù che fa vedere la verità. Il pensiero è sostenuto dalla virtù. Tramite
la virtù tutto procede da Dio in modo naturale:
Sopra ogni cel substanze nude per la virtù ch’è sopra, che ciò spira.[60] La virtù è l’informazione tra il soggetto amante e l’oggetto amato[61]. L’oggetto amato è Dio che, in quanto tale, è incomprensibile agli uomini. Ci si avvicina a lui per fede e non tramite la sola conoscenza, perché la «tua virtù non basta a veder luce/ di quel che te conviene esser fedele». La seguente sestina esplica il tramite che la virtù simboleggia tra Dio e gli esseri viventi.
Intelligenze, stelle, moto e lume ogni natura che.la spera amanta mategnono, e di ciò l’esser sume. Se ciò non fosse, onni animal che vive, ciascuna vegetabile pianta seria la lor virtù di morte prive.[62] L’Empireo, sede di Dio, comprende il mondo, sede degli uomini. Dio influenza gli uomini tramite i pianeti che sono le sedi delle intelligenze separate. La conoscenza che l’uomo ha del cosmo, è mediata dalle intelligenze separate; queste intelligenze rappresentano lo stadio finale del “processo” che dall’intelligenza potenziale, e per azione delle intelligenze agenti, arriva alla separazione dalla condizione materiale[63]. Le intelligenze separate sono sostanze nude, vale a dire creature incorporee, angeli, che “informano” secondo il volere divino, per mezzo dei pianeti in cui risiedono.
L’Acerba, quale rappresentazione della Natura, è permeata di riferimenti al divino. Risulta pertanto interessante concentrare l’attenzione sul vocabolario impiegato dal suo autore; con esso Cecco descrive le varie fasi del processo di trasformazione da esseri “precipitati” ad entità “spirituali”. Tale processo investe l’intero esistente, e quindi ogni creazione è partecipe dell’evento epifanico. Per questo motivo le modalità di un simile evento sono sempre correlate, ne L’Acerba, con la nascita dell’uomo, sia in senso metafisico (per quanto riguarda Adamo) che in senso scientifico (con la descrizione della nascita dell’uomo)[64]. Cecco d’Ascoli non scrive soltanto un poema sulla natura: L’Autore scrive il poema della natura; questo fatto, se non eccezionale, è certo molto significativo per una serie di motivi che cercheremo di esporre più avanti.
5.1.- La trattazione dedicata ne L’Acerba alla calamita ben si presta a stabilire l’ambito entro cui la speculazione di Cecco viene condotta. L’ambito è quello alchemico-magico. Con questo non si vuole “provare” l’esistenza di un Cecco alchimista o mago, ma solo chiarire l’influsso che l’alchimia e la magia, da Cecco stesso menzionate esplicitamente, esercitano all’interno dell’opera[65]. Roger Bacon nel suo trattato De secretis Operibus Artis et Naturae et de Nullitate Magiae[66], scrive: «Quid vero de carminibus et characteribus et huiusmodi aliis sit tenendum, considero per hunc modum. Nam proculdubio [scil. Procul dubio] omnia huiusmodi nunc sunt falsa, aut dubia: et quaedam sunt irrationabilia: quae philosophi adinvenerunt in operibus naturae et artis ut secreta occultarent ab indignis. Sicut si omnino esset ignotum quod magnes traheret ferrum, et aliquis volens hoc opus perficere coram populo, faceret characteres, et carmina proferret, ne perciperetur quod totum opus attractionis esset naturale. Sic igitur quam plurima in libris philosophorum occultantur multis modis: in quibus sapiens debet hanc habere prudentiam, ut carmina et characteres negligat, et opus naturae et artis probet: et sic tam res animatas, quant inanimatas videbit ad invicem concurrere, propter naturae conformitatem, non propter virtutem carminis, vel characteris. Et sic multa secreta naturae et artis existimantur ab indoctis magica.»[67]. Il pensiero espresso nel brano riportato è, per certi versi, analogo a quello presente ne L’Acerba; sulle “cose” che i filosofi «adinvenerunt in operibus naturæ …occultarent ab indignis», così si esprime Cecco
Lo spazio che fra.le stelle vedi, fra ‘l confanno e ‘l pozzo, in luoco sacro, e gran secreto voglio che tu credi, lì sono le caratare segnate. Le lor vertudi qui non ti disacro, qual fur da la Sibilla sigellate.[68] Un’altra evidente similitudine è là dove Bacon stabilisce un parallelo fra l’attrazione naturale del magnete col ferro e dei filosofi con le cose occulte («sic igitur quam … multis modis»). La calamita non è che un “termine spia” di carattere scientifico, molto ricorrente nei trattati di tipo alchemico. È assente, per contro, nella Commedia. Anche indizi di questo genere potrebbero spiegare gli attacchi di Cecco contro Dante, avvenuti per la poca fede (scil. in una scienza di questo tipo) di quest’ultimo: la scienza di Cecco, si ricorderà, ha per fine quello «di vedere Osanna». Lo spazio che intercorre tra gli opposti polari è la via che deve compiere l’anima cosciente per giungere a contemplare il sommo Bene. Sulla terra vi sono forze che impediscono all’uomo di affrontare nella sua integralità (cioè nel triplice stato di corpo-anima-spirito) la risalita:
Tegnon la Terra nel mezzo due poli, di sopra l’uno, e l’altro oposto a lui: di simile virtù natura formò li. Se l’un facesse sua potenza queta, l’altro verso il celo tiraria noi, perché ciascun fa come calamit[r]a.[69]
L’ascensione verso il sommo Bene sfrutta l’energia attrattiva degli elementi combinandola con la sapiente volontà che sospinge l’individuo verso l’ottavo cielo[70]. Il legame degli elementi presenti sulla terra è variabile a seconda del modo in cui questi elementi vengono combinati fra loro: è grazie alla loro giusta combinazione che si rende possibile l’ascesa verso il sommo Bene:
E io a te: dal cel venne la forma che, limitando, fa proporzione. Le quatro qualità questa conforma, sicché nel misto natura resulta[71] sì nel crìare e poi a perfezione[72], sì come in calamita forma oculta[73]. La perfezione è ottenibile in tutto il creato: occorre tuttavia la giusta proporzione tra gli elementi per ottenere la forma pura, la perfezione dell’atto puro, poiché in natura l’essenza è occultata. A riprova di questo Cecco scrive poco più avanti: Passa lo segno per li sensi umani, de fine all’intelletto, con sua forma [pura], Sicché intendemo li effetti lontani.[74] È grazie «all’intelletto, con sua forma [pura]», e cioè agente, che si rende possibile “l’uscita dal mondo” ossia dalla mondanità. La spiegazione di questa uscita è presente nella risposta che Cecco dà al suo allievo che gli chiede perché sono gli occhi, e non le altre parti del corpo, a cogliere questi segni:
Ché l’alma, mota dalla somma luce, dalla più degna parte si rimembra sicché nelli occhi tal modo conduce.[75] Gli occhi, come specchio dell’anima, sono un topos ampiamente sfruttato in tutti i tempi[76]. Con essi, secondo Cecco, l’uomo attira lo spirito grazie alla bellezza sensibile; il paragone con la calamita è immediato:
li occhi umani sono calamite che tirano di nostra umanitade
lo spirito col piacer, come vedete.[77] 5.2.- Vi sono due tipi di calamita[78]: una attira il ferro; l’altra è “di dolore”, respinge il ferro ma attira la carne umana. Il poema, trattando dell’identificazione che l’autore ha con «quella donna», non sembra procedere ad un’analisi di questo secondo tipo di calamita. Il magnetismo emanato dalla calamita è una forza spirituale in grado di riformare l’amore tra donna e marito:
Reforma amore tra donna e marito, dà grazia e bellezza nel parlare.[79]
Grazie all’influsso della calamita il marito si riconcilia con la donna, così da ottenere in forza di questo rapporto, «grazia e bellezza nel parlare»; al vile non è mai dato contemplare la donna e chi arriva a conoscerla non può pensare male. Il perché di questo è palesato dal rapporto impari, ma “completante”, tra il marito e la donna: l’attrazione tra questi due poli è asimmetrica poiché il legame tra i due trasforma l’uomo in marito per influsso della donna, la quale, per contro, non diviene moglie come invece accade ne I Documenti d’Amore, ma rimane a sé stante[80].
5.3.- La calamita, come tutte le altre pietre, rappresenta la materia inanimata che è la più lontana dall’Esser perfetto nell’ottica aristotelica:
Natura muove per l’etterno moto, e quando qualitade, onde risulta esser perfetto che non sta remoto. Io prendo exemplo intra lucente pietra, c’ha per qualità sua forma oculta, che mai del suo suggetto non s’aretra.[81] Tuttavia ogni pietra cela il “significato” che il divino ha impresso nella natura nell’atto della creazione. Il “significato”, per sua essenza, non può che essere occulto; ad esempio, nella sestina appena riportata, la lucente pietra è indicata col nome di asbesto, descritto altrove (nel capitolo XVIII) proprio nella sestina che precede quella della calamita. Sempre nel libro terzo, l’“abastone” viene descritto sia col valore simbolico, sia con quello allegorico:
E se abastone in fuoco s’accende, per questo, color non se li amorta, ma sempre come stella lì risplende; è come in lista ‘l ferro suo colore. Altre virtù in sé, dico, non porta, ma alcun vuol dir che vaglia ad amore.[82] Il ricorso all’etimologia delle parole[83] indica i vari attributi simbolici di ogni pietra. La calamita, a differenza delle altre pietre, possiede la particolarità di far giungere alla perfezione, utilizzando in giuste proporzioni le componenti che esistono nella materia e di cui tutti i corpi sono costituiti. È ovvio il rimando alla doppia natura di questa pietra; da una parte, infatti, essa è costituita da materia, dall’altra possiede la capacità magnetica di attrarre il ferro. Questo porta Cecco (ma si tratta ancora di un topos) a identificare la natura della calamita con quella dell’uomo. Il magnetismo è l’anima, la materia il corpo. Lo studio di una pietra viene riferito allo studio di una particolare forma di creato, rapportabile ad un piano più complesso quale è quello della natura umana. Il risultato di tale studio è l’affinamento da parte dell’uomo delle proprie facoltà, al fine di giungere alla perfezione rappresentata dall’oro[84]. La perfezione «Riforma amore fra donna e marito» esplicitandosi nella grazia e bellezza del parlare. Questa “perfezione” è l’oro, la luce della conoscenza. Eliade scriveva: «Proprio come restò identica l’idea [dall’alchimia babilonese in poi] ... secondo cui i minerali erano embrioni nati anzitempo, dato che i minerali e metalli potevano completare la loro “crescita” grazie alla metallurgia e all’alchimia e raggiungere persino “la perfezione”, lo stadio finale della materia, cioè trasformarsi in Oro»[85]. Lo scopo de L’Acerba è di mostrare la via alchemica della “perfezione”. La moralizzazione non è che la forma più esteriore di questo fine, ma intrinsecamente indispensabile a qualsivoglia finalità, secondo Cecco. Senza un comportamento retto e severo l’uomo si preclude da sé ogni meta, ma proprio grazie a questa condotta l’individuo può aspirare alla salvezza:
Chi sé non vince, come vince altrui, di sé medesimo avendo ‘l suo valore? Di questo opinione sempre fui. Ma chi si vince in questi sette modi ben è fondato nel divino amore. Dicoti quali, se m’intendi et odi.[86] La qualità occulta della calamita, di attrarre o esser attratta dal ferro, diviene l’esempio dell’influsso presente nella duplice polarità di macrocosmo (donna) e microcosmo (marito). In conclusione, per via alchemica alla “perfezione” Cecco intende il percorso interiore che ogni uomo deve compiere per arrivare al sommo Bene. La poesia dell’Ascolano quindi non esprime l’assoluto, ma luce sull’assoluto che è in noi: E ciò ch’è fatto era vita in lui, sì como forma nella mente eterna,
e questa vita è vita miserna.[87]
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NOTE
[54]IV, I, 16-21 (3340-3345).
[55]I, II, 69-74 (141-146). Assai diversa la lezione del Crespi:
Per che, se nelle intelligenzie nude
La voglia in corporale si converte,
A lor divina mente non si schiude.
Ciascuna intende, sol Dio contemplando,
Tutte le cose manifeste e certe,
Sì come nui nello specchio guardando.
[56]I, IV, 1-6 (265-270).
[57] Restoro d’Arezzo ne La Composizione del mondo colle sue cascioni, II, II, 1 (ed. critica a c. di Alberto Morino, Firenze, 1976) spiega: «Questo mondo rascionevolemente lo potemo asimelliare ad una casa o ad uno regno; e se noi volemo asegnare rascione de la composizione del mondo, è mestieri che noi faciamo un altro mondo simile de questo, e.llo quale noi trovamo cerchi e linee e ponti».
[58]I, I, 1-3. Fra parantesi quadre il testo, mancante nel codice Eugubino, è stato integrato con l’edizione del Rosario.
[59]I, I, 7-12.
[60]I, III, 12 (184).
[62]I, IV, 7-12 (271-276).
[63]Spiegava Emidio Vittori: «L’intelletto umano è un intelletto finito, non conosce in atto tutti gli intellegibili, ma ha solo la potenza (o possibilità) di conoscerli; è dunque un intelletto possibile (I, I, 1-6). La possibilità di conoscere del nostro intelletto diventa effettiva per l’azione dell’intelletto agente, il quale fa passare all’atto gli intellegibili, astraendoli dalle condizioni materiali. Cecco aderisce alla tesi tomistica dell’unità di questo intelletto con l’anima umana. Perciò l’intelletto attivo non è uno solo, come vuole Averroè, ma ci sono tanti intelletti attivi, quante sono le anime umane (I, II, 111-112). Il più alto dei gradini intellettuali sono le intelligenze separate. Esse, separate appunto dalla materia, sono sostanze spirituali in atto, scevre o quasi di potenzialità.» (Emidio Vittori, Per un’edizione critica dell’ “Acerba”, in Atti del I Convegno di Studi su Cecco d’Ascoli, Firenze, 1976, p. 93).
[64] A questa procedura si attengono tutti i trattatisti. Lo stesso Dante senti il bisogno di affrontare questo tema in Purgatorio XXV, tra due canti cioè ( XXIV e XXVI) che non sono proprio pertinenti ad una trattazione di questo tipo. Mancano su questo argomento studi di esegesi dantesca che permettano un accostamento con il pensiero dell’Ascolano.
[65]Del resto ci è rimasto un sonetto alchemico di Cecco (Sonetti alchemici di Cecco d’Ascoli e Frate Elia, a c. di M. Mazzoni, Roma, 1956).
[66]Opera Iohannis Dee Londinensis, e pluribus exemplaribus olim, et ad sensum integrum restituta, nunc vero A Quodam Veritatis Amatore, in gratia verae scientiae candidatorum, fora emissae 1622, p. 15-16.
[67][«Ciò che si debba pensare degli incantesimi, delle formule magiche e delle altre cose di questo genere, considero come segue. Tutte queste cose senza dubbio sono false o dubbie, e alcune sono irrazionali; i filosofi le inventarono per nascondere agli indegni i segreti della natura dell’arte. Se fosse del tutto ignoto che il magnete trae il ferro e qualcuno, volendo compiere ciò in presenza del popolo, facesse incantesimi, pronunciasse formule magiche, non si avvertirebbe che l’attrazione è naturale. Allo stesso modo moltissime cose sono occultate nei libri dei filosofi con vari artifici e il saggio deve avere l’accorgimento di trascurare le formule magiche e gli incantesimi e di indagare l’opera della natura e dell’arte e così vedrà che tanto le cose animate che le inanimate si combinano per la conformità della loro natura, non in virtù della formula magica o dell’incantesimo. Così molte cose occulte della natura e dell’arte sono credute magiche dagli ignoranti.»].
[68]IV, IV, 103-108 (3611-3616). Questi ultimi versi di Cecco mostrano una qualche analogia con un poeta della generazione successiva, Giovanni Dondi dell’Orologio, il quale nell’ultima terzina del sonetto Eidem non respondenti (XXVII) scrive:
ch’io forsi te dirò poi cosa tale
che a te parrà vegna da Sibilla,
ben ch’en la zucha mia sia pocho sale.
(Giovanni Dondi dall’Orologio, Rime, a c. di Antonio Daniele, Vicenza, 1990).
[69]I, III, 55-60 (227-232).
[70] È forse possibile intendere l’ottavo cielo di Cecco come l’ottavo clima di ibn ‘Arabi: quest’ultimo descrive la terra del non-dove (Hurqalya) come la zona di massima rarefazione del sensibile, off-limits delle possibilità umane. Corbin, nello spiegare le caratteristiche principali di questo luogo, lo chiama Mundus imaginalis con la medesima accezione con cui Cecco impiega il termine immaginare, e cioè opposto di fantasia (V.di e Cfr Henry Corbin, Corps spirituel et Terre céleste, Paris, 1979; Mundus imaginalis o l’immaginario e l’immaginale, in «Aut aut», n.258, nov.-dic. 1993, pp. 113 ss.
[71]Misto natura: «Qui bisognerebbe avere una doppia virtù; una prima che separasse la terra sulfurea che arde nel misto, ed un’altra che convertisse alla sua natura quella che è già separata; ma il corpo nella sua crassezza non può avere questa virtù.» (Arnaldo da Villanova, Il Libro del perfetto Magistero, Reggio Emilia, 1986, p. 45); il curatore del testo (tale E. M. del C. S E.) pone una specifica proprio sul termine “misto”, osservando che «La terra sulfurea è l’istintività».
[72] «Sappi, o carissimo, che in ogni cosa creata sotto il Cielo vi sono quattro elementi, non per vista, ma per virtù; ed i filosofi, sotto il velame della scienza degli elementi, hanno rivelata questa Scienza (l’Alchimia).» (Idem., p. 37).
[73]IV, IV, 91-96 (3599-3604).
[74]IV, IV, 118-120 (3626-3628).
[75]IV, IV, 154-156 (3662-3664).
[76] È rilevante inoltre la rimembranza che per Cecco l’uomo ha della sua origine, secondo i dettami tradizionali.
[77]III, I, 22-24 (1932-1934).
[78] In realtà tre tipi: la prima, da cui «nasce invidia maggiore», la seconda che nasce “de Etiopia” e la terza “de dolore”. Le prime due sono però assimilabili perché, se diversa è la provenienza, non lo è l’ “effetto”. Si veda quanto abbiamo esposto nella seconda parte del paragrafo sulla “Natura dell’ascensione”.
[79]III, LII, 19-20 (3207-3208).
[80] Riportiamo da I Documenti (a c. di Francesco Egidi, Roma, 1913) il seguente paragrafo:
«[moglier e marito]
Amor che ciai di due facta una cosa, con superna vertu per maritaggio, fa durar dun paragio, la nostra vita in questa gio tuttora, sra grato il fin come nostra dimora.» (vol. III, p. 408).
Il senso del paragrafo è posto poco innanzi nel commento latino (p. 413):
«Amor che ciai etc. ista globula est viri et uxoris et ideo sunt duo in una figura ut vides et quia ipsi sunt in matrimonio et clare lictera potest adaptari me amplius non extendam quia clara et licita est.».
Già Valli commentava: «Finalmente le due serie, la maschile di destra e la femminile di sinistra, si fondono in una figura unica con due teste, che si chiama “Moglier e marito”. E’ l’uomo ricongiunto e fuso con il raggio dell’Intelligenza attiva a lui diretto e quindi felice.» [in nota c’è il rimando al libro III, capitolo I de L’Acerba, dove Cecco scrive: “Dunque io son ella”] (Luigi Valli, Il Linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore, Milano, 1994, p. 301).
[81]III, I, 73-78 (1983-1988).
[82]III, LII, 7-12 (3195-3200).
[83] Asbesto (< tardo lat. asbestus < gr. asbestos, “inestinguibile”); amianto (< lat. amiantus < gr. amìantos, “incorruttibile”).
[84]La perfezione dell’oro simboleggia la ritrovata “età dell’oro” contrapposta a quella attuale, per Cecco, detta “età del piombo”. Questa concezione si ripercuote in profondità nel poema: il titolo Acerba indica “le origini”. Interessante l’interpretazione che del titolo ne hanno dato i moderni critici di “cumulo”, “asprezza” eccetera, attribuendo al testo un sentire che è assolutamente contemporaneo, alieno all’autonomia dell’opera.
[85]Mircea Eliade, Cosmologia e Alchimia babilonesi, Firenze, 1992, p. 67.
[86]II, VIII, 31-36 (1215-1220).
[87] V, II, 13-15 (4865-4867; in quest’edizione il poema si chiude con « E questa vita è luce di nui».
Il presente saggio inedito è pubblicato per gentile concessione dell'autore
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