Metafisica, Lumi e musica: Saint-Martin e il pitagorismo Davide Arecco - Università degli Studi di Genova
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La Massoneria in Francia nel SettecentoLe vicende nella Massoneria francese nella prima metà del XVIII secolo, si sa, sono state fatte oggetto di numerosi quanto notevoli contributi storiografici, a partire soprattutto dagli anni Sessanta del secolo appena trascorso. Si è trattato, per lo più, di studi volti a investigare i rapporti della libera muratoria con la religione cristiana (Mellor) oppure con lo Stato e le istituzioni politiche (Luquet), sino a ridiscutere le complesse sorti del rito scozzese in Francia (Linday). Ricerche contrassegnate quasi tutte dalla ambizione mai totalmente nascosta di confrontare più risultati, i propri e quelli degli altri, con un’attenzione tutta particolare non solo e non tanto per le strutture (per riprendere qui un termine vetusto ma un tempo persino troppo à la page), quanto piuttosto per il clima culturale, per le atmosfere così spesso suggestive, per i tableaux d’ensemble cui rapportare gli inizi della Massoneria francese. Loggia per loggia, si è passato in rassegna lo stato dell’arte negli studi attuali sulle maggiori logge parigine del Settecento, nonché sulle origini della Grande Loggia di Francia, fino alla stagione d’oro nella storia secolare dell’Istituto, vissuta nella seconda metà del secolo XVIII con le «Nove Sorelle» di Lalande e Voltaire, Condorcet e Cabanis. Un particolare interesse hanno finito per suscitare figure quali quelle di Andre-Thomas le Breton, attivo libraio e stampatore dell’Enciclopedia, o degli scozzesi Hamilton e Ramsay, le cui iniziative hanno portato alla creazione di logge e gradi con una connotazione alquanto differente da quella inglese e maggiormente riadattata al gusto francese, più incline alle immagini cavalleresche e mistiche, romanzesche e fantastiche. Se Hamilton ha fornito il tono, il conte de Boulainvilliers, a un tempo astrologo e profeta, ha dato alla Massoneria francese i contenuti e l’ispirazione teorica. Uno spirito indubbiamente curioso quello del conte, arcaico ed audace insieme, sorta di precursore e interprete della nuova sensibilità settecentesca. Lo prova la sua vita, lo dimostrano le sue opere, tutte ugualmente improntate ad una forma di misticismo astrologico originale e profondamente innovativo, poco conosciuto durante la vita dell’autore e diffuso dopo la morte grazie all’iniziativa dei librai e tipografi francesi d’Olanda, a loro volta supportati dall’alta nobiltà di parte hannoveriana e dalla stessa corte d’Inghilterra. (1) Nell’indagine paziente e inesausta volta, se non a ricostruire in maniera compiuta l’intero personale delle logge, almeno a caratterizzare i maggiori tra i gruppi di appartenenza massonica, lo Chevalier ha saputo poi distinguere in modo corretto l’elemento germanico da quello nordico, gli anglo-sassoni, gli italiani e gli slavi (polacchi). Un quadro in cui le due vere e sole dominanti sono il cosmopolitismo e l’aristocrazia illuminata, entrambi paradigmi del Settecento francese ed europeo. (2) Un quesito che a lungo e senza mai risolverlo appieno gli storici si sono posti è quello relativo all’appartenenza o meno di Luigi XV alla Massoneria. Sempre lo Chevallier ha individuato molti cultori di pratiche latomistiche entro l’entourage del sovrano. Quanto alla presunta iniziazione di quest’ultimo, resta ancora impossibile pronunciarsi in via definitiva. Resta comunque un fatto non più sindacabile l’esistenza, nel 1739, di una Loge du Roi, il che peraltro non risolve ancora una volta per tutte il problema relativo al significato esatto del titolo in questione. Lungo la via tracciata dal Bord, si possono ritrovare alle origini della Massoneria francese diversi tipi di logge (logge di tipo giacobita e logge orangiste, logge di rito cristiano se non cattolico e logge di indirizzo deista), come pure rinnovare il quadro già oltremodo vario e composito dei loro rapporti come delle loro rivalità, in una coesistenza non sempre facile o felice. Alcune figure (su tutti spicca il già ricordato Ramsay), un tempo avvolte nell’oscurità, oggi sono se non altro uscite dall’ombra. Ma è altresì vero che alcuni ritratti ancora attendono di essere delineati, la genesi di alcune opere infine illuminata. E’ il caso, credo, degli scritti di Saint-Martin in cui riecheggiano riferimenti agli arcana della numerologia italica e della tradizione ermetica. (3)
Illuminismo e illuminazioneErmetico fu il rosa†crociano Martines Pasqually, fondatore nel 1754 del nuovo rito massonico degli «Eletti Servi del Tempio», fedele alle vedute swedemborghiane circa la creazione dell’uomo, la sua disobbedienza e la sua caduta, la sua punizione e sofferenza. L’iniziazione doveva consentire all’uomo di ripristinare la sua dignità primeva, accostandosi al Creatore attraverso la strada della meditazione, sino a rianimarsi nell’unione con il divino per conoscere finalmente i secreta naturae. Un impianto divinatorio insieme alchemico e cabalistico, che sappiamo caratteristico della tradizione rosa†crociana, (4) modificato e diffuso in Europa dall’amico Saint-Martin una volta che il Pasqually si ritirò a Port-au-Prince. I martinisti settecenteschi ebbero ramificazioni in Russia, in particolare tra i nobili, questi ultimi guidati dal principe Galitzin. La grande forza attrattiva da loro esercitata si spiega in virtù della singolare unione di elementi magici (come il ricorso alla figura del cerchio) e ideali altamente umanitari, che lo storico sa particolarmente vivi nella realtà plurare del secondo Settecento francese, a un tempo utopico e scientista (Condorcet), razionalista e spiritualista (Rousseau). Una compresenza assai significativa e solo apparentemente paradossale di Illuminismo e illuminazione. Per Saint-Martin, la magia di ascendenza rosa†crociana, al pari degli antichi riti iniziatici, era il simbolo vivente del potere umano sul mondo materiale e della fede (più che della fiducia) di poter giungere con il pensiero e l’azione a una condizione di universale fratellanza tra gli uomini. Un fine altamente superiore, in cui qualsiasi forma di fraternitas avrebbe accettato in maniera concorde e di buon grado la dignità di ogni uomo, il suo infinito potere, i suoi diritti e doveri di riunire l’umanità tutta nel cerchio perfetto dello Spirito Santo. (5) Ma, prima di raggiungere una meta così nobile, prima di riunire il genere umano al supremo vincolo universale, i Rosa†croce erano andati incontro ai loro simili non sul terreno dei massimi sistemi di tipo intellettuale, bensì nell’aula misteriosa dell’anima ordinaria (Seligmann). Fortemente influenzato dalla lettura di Paracelso, Andreae l’aveva chiamata, all’inizio del Seicento, il «Palazzo del Re». Saint-Martin dice adesso, nella seconda metà del Settecento, il «Tempio» (massonico) in cui entreranno un giorno gli uomini buoni e giusti, discepoli soltanto della pace e dei valori dello spirito. Le Nozze chimiche che il Seligmann ha definito alla stregua di un «fiore solitario nell’arido Barocco tedesco» si sono trasformate ora in un vincolo di comunione con la città celeste del secolo dei Lumi. Come Lavater illuminista e «illuminato», la figura di Saint-Martin riveste un’importanza assai particolare. Come ha ricordato Rotta, «la sua influenza – l’influenza cioè della sua opera a stampa e del suo fervido apostolato orale – è stata considerevole. In Francia si è esercitata soprattutto su Balzac (Les lys dans la vallée), su Hugo e prima ancora su Joseph de Maistre. In Germania ha contribuito a rimettere in circolazione l’opera di Jacob Böhme, rimasta per oltre un secolo sepolta nell’oblio (Böhme era stato la grande scoperta martiniana degli anni maturi: aveva appreso il tedesco per tradurre tre delle sue opere più importanti)». (6) Sempre Rotta ricordava come, nonostante tutto il peso e l’incisività di un’azione storica assai profonda e stratificata (nel tempo e nello spazio), questo Robinson della spiritualità, come il mistico francese amava definirsi richiamandosi al capolavoro del Defoe, sia stato poco studiato. Ricordato e citato sì, ma sempre poco studiato, anche e soprattutto in relazione all’epoca sua. E’ peraltro vero che nel 1964 Robert Amadou ha scoperto e riportato alla luce il Journal degli ultimi anni di vita di Saint-Martin (1789-1803), fino a quel momento noto in modo incompleto solo attraverso l’opera di Sainte-Beuve. In quella sorta di giornale, intitolato Mon portrait historique et philosophique, è racchiuso il significato più vivo e vero della ricerca martiniana. Con Rotta: «quest’uomo di pace, per vocazione e per natura, fu infatti costretto dalle circostanze a guerreggiare contro tutti: contro i philosophes (tranne Rousseau), contro i preti e contro la maggioranza degli illuminati del suo tempo, colpevoli ai suoi occhi di cedere all’immaginazione e ai fantasmi. Il Dio di Saint-Martin non è, come quello dei giansenisti, un Dieu caché: è costantemente presente nell’uomo, ne occupa il centro, vi dirama le sue radici. Ma per effetto di una catastrofe metafisica accaduta prima della storia, la fonte è ostruita. Bisogna purificare i canali, purgarli dalle immondizie che impediscono all’eau de vie di riprendere la sua circolazione mentale». (7) L’uomo di Saint-Martin è analogo a Dio, configurandosi come una sorta di «microtheòs», con la sola e unica differenza è che Lui è un Dio pensante, un Dio operante, mentre noi restiamo invece un Dio pensato, un Dio parlato, un Dio agito e non agente. E’ quanto si legge nelle suggestive e celebri pagine del trattato su Le nouvel homme, apparso a Parigi nel 1797, alle soglie della stagione romantica che tanto avrebbe dovuto al Nostro, dentro e fuori i confini francesi. Riguardo al misticismo quale era stato presentato e praticato da Swedemborg o dai quietisti Saint-Martin nutre sempre, se non qualche tenue imbarazzo, certo una diffidenza difficile a tacersi, il che si spiega perfettamente ponendo mente al fatto che il misticismo tradizionalmente inteso era una predicazione dell’umana passività, un invito aperto e palese a quella noluntas in seguito fatta propria da Schopenhauer e rigettata da Nietzsche. L’originaria vocazione martiniana si contrappone invece all’involontà, rivelando una differente posizione concettuale. Cristo è per Saint-Martin un eroe della voluntas e l’illuminato non può esimersi dal cooperare con Dio stesso perché l’altro mondo penetri nel nostro, diventandone più vero e più reale. Anzi, l’unico vero e l’unico reale. Un risvolto teorico indubbiamente attivistico e bruniano, un aspetto che finisce per riaccostare sensibilmente il mondo degli Illuminati a quello matematico e fenomenico, newtonianamente disposto e concepito, dei loro avversari philosophes. Il Fabre ci ha peraltro insegnato, e non vi è qui motivo per dubitarne, che il cosiddetto illuminatismo faceva costitutivamente parte dell’eredità dei Lumi. Una formula, forse, ma che conserva pressoché intatta tutta la sua feconda capacità di attirare la giusta attenzione sull’insieme di relazioni, contatti e parentele che marchia a fuoco il secondo Settecento, molto più di quanto non accada nella prima metà del secolo e molto più di quanto ancora oggi non si voglia credere. (8) Se la filosofia settecentesca e l’Illuminismo martiniano costituiscono veramente due realtà separate, è necessario convincersi che queste ultime sono abitate da fratelli con idee diverse, ma con la stessa voglia e capacità di comunicare tra loro. Aperture spiritualistiche che vanno a colorare di una luce e di una sensibilità nuove anche altri temi, cui in questa sede sarebbe forse meno facile pensare. Mi riferisco all’atteggiamento martinista verso la Rivoluzione francese. Affermare che egli la accetta è sempre e comunque poco, se pensiamo che i grandi rivolgimenti politici e costituzionali del 1789 vennero da lui salutati alla stregua di un evento altamente divino e provvidenziale. Veramente troppo corrotte erano e la nobiltà e la Chiesa. E i francesi, malgrado tutte le loro nequizie, restavano per lui il popolo della nuova Legge, ultimi depositari di una tradizione arcana e sapienziale che risaliva a Mosè. Nobile di nascita, Saint-Martin fece suo il principio della sovranità popolare, sia pure alla (fondamentale) condizione che il popolo si lasci ispirare e guidare da chi è eletto da Dio. In altre parole, Vox populi, vox dei. Il contenuto più profondo dell’ideale teocratico del pensatore francese è pertanto intimamente democratico e repubblicano. Se si vuole qui parlare di una mistica rivoluzionaria, come ha fatto il Raymond, non va comunque perso di vista il pensiero unica guida della corretta azione, i valori base della prassi concreta. Legato illuminista, ma, secondo molti (quorum ego) anche categoria perenne dello spirito. (9)
Matematica sacra e palingenesi cosmicaLa vita e l’opera del «Philosophe inconnu», come Saint-Martin amava firmare i propri libri, finisce quindi con l’aprire una finestra su tutto un mondo esoterico e nascosto dell’età della ragione settecentesca. La Massoneria teurgica del profeta francese, riformata secondo i severi insegnamenti rosa†crociani vivi nel XVII secolo, continua a veicolare una forma di conoscenza perduta sulla scia dei grandi maestri rinascimentali, di area tanto germanica (Paracelso, Agrippa) quanto inglese (Dee, Fludd). Nel primo libro di Saint-Martin, l’opera Des erreurs et de la verité, stampata a Lione con la falsa indicazione di Edinburgo nel 1775, alcune di queste dottrine vennero rese pubbliche. Si tratta di una lunga e non facile dissertazione sulla vera natura dell’essere umano, esposta in base a linee argomentative che molto devono ai numeri simbolici e all’idea di un linguaggio primordiale. Un tema, quello della lingua adamitica, che lo storico sa essere caro a tanta parte della cultura europea sei e settecentesca, si pensi alla cosmogonia di Kircher e Leibniz. (10) Saint-Martin, che abbiamo visto essere aristocratico di nascita, incontrò in un primo tempo una carriera piena di successi nei salotti parigini e nella file dell’esercito in tempo di pace. Tutte cose che in seguito abbandonò in favore di una vita solitaria, trascorsa in esilio in Svizzera e nella provincia francese a seguito della Rivoluzione. La sua seconda iniziazione, dopo il primo incontro con Pasqually, avvenne nel 1780 con la scoperta dell’opera di Jakob Böhme, che Saint-Martin si mise immediatamente ed entusiasticamente a tradurre in francese. Le continue esperienze interiori contribuirono ad allontanarlo sempre più dalla maggior parte delle manifestazioni esterne predicate e cercate dalle scienze occulte tradizionali, come vocazioni e alchimia, verso una particolare forma di teosofia cristiana. Egli credeva che l’uomo sia in possesso di un occhio interno, il quale, una volta aperto, può rivelare la verità insita in tutte le cose, da allora in poi niente di meno che un organo di Dio stesso. Ritorna qui una metafora musicale presente nella trattatistica kircheriana. (11) A quel punto concretò il proprio sistema con tutti gli apparati rituali e le convinzioni settarie delle pratiche latomistiche diffuse in Massoneria, facendo suo il cristiano «regno di Dio che vive all’interno dell’uomo». Il linguaggio spirituale di Saint-Martin è quello medievale dei teosofi e dei mistici, dallo pseudo-Dionigi l’Areopagita a Ildegarda di Bingen, da Giovanni Scoto Eriugena a Giacomo di Liegi, da Aureliano a Ugolino di Orvieto, senza naturalmente dimenticare i prediletti e in precedenza menzionati Böhme e Swedemborg. Tutte figure, ha osservato Godwin, di individui «illuminati», costantemente ai limiti dell’ortodossia (quando non al di là), che esplorarono tramite le loro visioni interiori i regni intermedi della divina Immaginazione. (12) Sono forse in pochi a sapere che Saint-Martin era anche un violinista dilettante e un amante di musica e melodramma, sia pure senza avere mai ricevuto una adeguata preparazione tecnica in materia. Un interesse profondamente sentito e partecipato quello per la musica, che lo portò ad un continuo lavoro di studio e riflessione, concretatosi infine non senza tratti originali nella simbolica della corda comune. Un’evidente ripresa del monocordo che Saint-Martin aveva ancora una volta rinvenuto tra le pagine dell’Utriusque cosmi historia di Fludd, un consapevole sacrificio al tema dell’armonia delle sfere celesti che governano l’universo. Mito uranico tra i più vivi e fecondi dell’intera tradizione occidentale, quello della musica delle sfere planetarie è presente in una meditazione pressoché continua e ininterrotta, da Platone e Tolomeo sino al Seicento di Keplero e Werckmeister. Il secolo di Saint-Martin tematizzò l’allegoria della creazione attraverso la riscoperta di un’antica sapienza armonica in cui musica e geometria sono inscindibilmente fuse insieme (Tartini). Nelle pagine del Des erreurs e ancor più in quelle postume del Des nombres, la ricca e fluente scrittura del théosophe d’Amboise rivela un sistema di rimandi e rispondenze interne decisamente eclettico. Vi possiamo ritrovare il retaggio cabalistico desunto da Pasqually, in accordo con il quale ogni cosa ha un nome primordiale, direttamente datole da Adamo, e ogni nome è a sua volta un numero. Il lettore si trova, in altre parole, al cospetto di un’estetica fortemente intrisa di richiami pitagorici, in cui il cultore di musica e l’artista si sforzano di imitare le superiori realtà del mondo intellettuale in quello inevitabilmente imperfetto della materia comune. Se è vero che all’origine dei tempi il Paradiso è stato perduto dall’uomo a causa del peccato, il discepolo moderno di Pitagora e Platone mira a riconquistarlo ricorrendo alla magica unione di suono e figura, penetrandone in chiave meta-fisica le più riposte connessioni. Esemplari di questo ritorno a Pitagora sono le idee del Nostro sul ritmo, visto come una sorta di parametro regolatore dell’intimo equilibrio esistente tra macrocosmo e microcosmo, nucleo centrale della Grande Opera martiniana negli anni maturi. Secondo Saint-Martin, esiste una possibilità di umana perfezione e il ritorno dell’uomo alla sua giusta origine, così enfaticamente proposto in quello stesso arco di anni dagli scritti di Rousseau (philosophe non per nulla apprezzato dal Nostro) si carica hic et nunc di nuove valenze e di nuovi significati, sino a delineare con forza di immagini un’autentica spiritualizzazione di forme musicali, una vera rifondazione armonica dell’aritmetica. O, se si preferisce, una mistica dei numeri, ma una mistica esplicitamente e radicalmente cristiana, a sostegno di una fede che il suo Autore sente e vuole «bella, immortal, benefica, ai trionfi avvezza». (13)
Note:
(1) B. Fay, La Massoneria e la rivoluzione intellettuale del Settecento, Padova 1978, pp. 57 e segg (2) A. Le Bihan, Aux origines de la franc-maçonnerie en France, in Annales, XXII, 1967, pp. 396-411; S. Rotta, Il pensiero politico, I, 1968, pp. 139-140 (3) G. Giarrizzo, Massoneria e Illuminismo nell’Europa del Settecento, Venezia 1994, pp. 127 e segg. (4) C. McIntosh, Storia dei Rosacroce, Casale Monferrato 2001; A. Panaino, I Rosa-Croce e la loro influenza sulla nascita della Massoneria, in Le radici esoteriche della Massoneria, Roma 2001, pp. 161-177; P.A. Rossi, L'utopia rosacrociana nell'età di Bacone e di Cartesio, disponibile su Airesis nella sezione "Il Giardino dei Magi". (5) K. Seligmann, Lo specchio della magia, Firenze 1951, pp. 436, 460 (6) S. Rotta, Il pensiero politico, III, 1968, p. 464. (7) Ibidem, pp. 464-465. (8) J. Fabre, Lumières et Romantisme, Paris 1964, p. 70 (9) M. Raymond, Saint Martin et l’Illuminisme contro l’Illuminismo, in Lettere italiane, XIX, 1967, pp. 55-70 (10) Si veda in proposito il mio Il sogno di Minerva. La scienza fantastica di Athanasius Kircher (1602-1680), Padova 2002, pp. 35 e segg. (11) S. Leoni, Le armonie del mondo, Genova 1988, pp. 207 e segg.; G. Guanti, Estetica musicale, la storia e le fonti, Firenze 1999, pp. 122 e segg. (12) J. Godwin, The Harmony of the Spheres, Rochester 1993, pp. 322 e segg (13) A. Reghini, La tradizione pitagorica massonica, Genova 1988, p. 92
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