Newtoniana
Il sistema cronologico newtoniano: le applicazioni astronomiche e antiquarie
Alessio Miglietta - Storico della cultura
Il principale merito
che si deve attribuire al sistema cronologico newtoniano è senza
dubbio l’applicazione, mai tentata prima, del fenomeno,
già noto a Ipparco, della precessione degli equinozi, nel
tentativo di datare gli eventi storici. Nel terzo libro dei Principia,
Newton affronta il problema dell’“aberrazione delle stelle
fisse”, cioè della precessione, e ne calcola lo
spostamento in 50” 00”’ 12””
all’anno, ovvero circa un grado ogni settantadue anni.[2]
L’intenzione di Newton è di collezionare osservazioni
antiche e confrontarle con quelle di astronomi suoi contemporanei:
avendo a disposizione le posizioni rispetto alle stelle fisse di due
solstizi, relative a due diversi momenti, sarà possibile
calcolarne la distanza in gradi nella sfera celeste e ottenere quindi
la misura del tempo trascorso tra le due osservazioni.
Newton utilizzò le misurazioni delle posizioni
celesti delle stelle fisse relative alla sua epoca effettuate da John
Flamsteed (1646-1719), ottenute con l’ausilio del grande
quadrante murale dell’osservatorio reale di Greenwich. Le
osservazioni risalgono al periodo tra novembre 1689 e gennaio 1690 e
furono pubblicate in edizione definitiva, peraltro senza
l’esplicita autorizzazione dello stesso Flamsteed, nel 1714.[3]
Questione molto più complessa si dimostrò, invece, il
recupero di osservazioni utili a stabilire la posizione di un solstizio
o di un equinozio in epoche antiche. Newton si dovrà affidare
alle vaghe descrizioni degli autori greci e a inevitabili congetture su
alcune testimonianze indirette.
Leggendo Clemente di Alessandria,[4] che come già
segnalato è uno degli autori da lui più apprezzati,
Newton ritrova in un frammento della Titanomachia, di autore
sconosciuto, l’attribuzione al centauro Chirone della
realizzazione delle costellazioni. Nella visione evemeristica del mito
greco, Chirone veniva considerato un personaggio storico realmente
esistito, dedito all'astronomia pratica e all'astrologia,[5] e che
avrebbe delineato le σχήματα
ολύμπου, ovvero “le figure
dell’Olimpo”, qui da Newton interpretate come sinonimo di
“asterismi”, come d’altronde sembra fare anche lo
stesso Clemente di Alessandria. Tramite, poi, Diogene Laerzio[6]
individua Museo come il primo a realizzare (nell’originale
inglese, made) una sfera celeste[7] tra i Greci: Newton utilizza il
verbo to make, traducendo il generico termine latino fecisse, tradotto
a sua volta da Tommaso Aldobrandini (di cui Newton possedeva
l’edizione latina delle Vitae), dall’originale greco
ποιησαι, precedentemente reso da
altri interpreti sia con invenisse (Ambrogio Camaldolese, Carli), che
attribuirebbe a Museo il solo merito di aver rinvenuto la sfera, sia
con scripsisse (Marco Meibomio, Menagio), che invece considererebbe la
sfera un’opera originale dello stesso. Nonostante le incertezze,
Newton prende per certa l'attribuzione e, in questo modo, può
collocare la prima realizzazione della sfera celeste al tempo della
spedizione degli Argonauti (evento che non dubita essere storico),
essendo Museo il maestro di Orfeo, che appunto vi partecipò. A
conferma di ciò, Newton sostiene il fatto che tutte (tranne
due)[8] le costellazioni della sfera, raccontino i miti coevi o
precedenti al viaggio di Giasone e i suoi compagni: essa non poteva,
quindi, che essere stata realizzata al tempo di quella spedizione,
essendo uno strumento per la navigazione in alto mare, tentata per la
prima volta dai Greci con una grande nave Argo. Fino a quel momento
l'unico metodo di navigazione da loro praticato (sostiene Newton
probabilmente tramite la lettura di Plinio)[9] si riduceva alla
navigazione di cabotaggio su piccole imbarcazioni. Al ritorno, gli
Argonauti sarebbero approdati presso l'isola dei Feaci, Corcira, come
indicato dallo Pseudo-Apollodoro,[10] e avrebbero fatto conoscere la
sfera a Nausicaa, figlia del re dei Feaci, che infatti è da quel
popolo considerata l'inventrice della
σφαίρα;[11] ma l'equivoco in cui
Newton cade, in questo caso, denuncia una notevole ingenuità: il
termine greco riportato aveva presso i Greci il più comune
significato di palla da gioco, come si evince, tra gli altri, dal passo
omerico dedicato alla stessa Nausicaa.[12]
Stabilito questo, Newton considera che, all'epoca della
prima sfera (descritta in séguito da Eudosso e da Ipparco)[13] e
quindi della spedizione degli Argonauti, i punti cardinali degli
equinozi e dei solstizi si trovassero "nel mezzo" delle costellazioni
dell'Ariete, del Cancro, dello Scorpione e del Capricorno. Ciò
perché l'antico calendario lunisolare, che considerava
l’anno solare diviso in dodici mesi lunari di ventinove giorni
più un mese intercalare, poteva cominciare ad ogni ciclo in
giorni differenti, ma che al massimo potevano variare di due settimane
prima e due dopo l’equinozio primaverile; per evitare che la
posizione del Sole, al principio del nuovo anno, sconfinasse nelle
costellazioni precedenti o successive, che sono ampie mediamente
30°, i primi realizzatori della sfera posero le costellazioni in
modo che i rispettivi equinozi e solstizi (ovviamente con una certa
approssimazione e tenendo conto che i dodici asterismi delle
costellazioni zodiacali non hanno le medesime configurazioni e la
stessa ampiezza) si trovassero nel loro centro, cosicché il
massimo sfasamento possibile tra la posizione del Sole e l’inizio
del nuovo anno non superasse mai i 15° circa (Immagine 1).
Newton procede poi con l'individuare il punto mediano tra Prima
Arietis[14] e Ultima Caudae Arietis[15] e ne esegue la proiezione
sull'eclittica, presumibilmente per via trigonometrica.[16] Il
risultato ottenuto, riferito alle coordinate del 1689 (anno delle
osservazioni di Flamsteed), è 6° 44' in longitudine
eclitticale, cioè 36° 44' dal punto vernale, posizione in
cui si trovava il Sole solstiziale al tempo della sfera originaria,
secondo le premesse newtoniane già accennate (v. Immagine 2).
L'arco di spostamento dovuto alla precessione equivale a 2645 anni (72
anni per ogni grado) e colloca la spedizione degli Argonauti al 955 a.C.
Con metodo di computo differente, Newton, attraverso la
descrizione delle stelle, sempre derivata da Eudosso, presso le quali
passavano i coluri equinoziali e solstiziali,[17] ottiene le cinque
rispettive posizioni degli astri di riferimento e le proietta
nuovamente sull'eclittica; partendo poi dai cinque risultati calcola la
loro media aritmetica, con la quale ottiene la posizione del punto
equinoziale diversa da quella risultante dal precedente procedimento ma
sovrapponibile: 6° 29’ (vedi Tabella I). Un valore che
corrisponde a 2627 anni e che colloca la spedizione degli Argonauti nel
937 a.C. (data che prenderà per vera e pubblicherà anche
nella sua Short Cronicle),[18] riducendo così di molto il
periodo tradizionalmente accettato.[19]
Immagine 2.
Proiezione grafica del punto mediano tra Prima e Ultima Caudae Arietis
sull'eclittica (in rosso) e sua differenza rispetto al punto mediano
teorico a 15° da Prima Arietis, come avrebbero voluto molti dei
critici di Newton (in blu) (elaborazione grafica su tavola di J.
Flamsteed, Atlas coelestis, Londra, 1753).
Occorre precisare che con punto mediano, Newton non intende, come
alcuni critici coevi pensavano,[20] la posizione teorica basata
sull'intera ampiezza convenzionale della costellazione (quindi a
15° dalla prima stella dell'Ariete, visto che, per convenzione,
ogni costellazione zodiacale è ampia 30°) ma quella
risultante dalla distanza tra le due stelle, Prima Arietis e Ultima
caudae Arietis, poste agli estremi dell’asterismo principale
(cioè a 7° e 36’):[21] una differenza di sette gradi e
mezzo che, in anni, equivale a un intervallo di tempo di circa
cinquecentotrenta.
Tabella I.
Tramite la descrizione del coluro equinoziale di Eudosso e le
misurazioni di Flamsteed, Newton ottiene la longitudine eclitticale
riferita al 1689 del punto d’intersezione tra coluro ed eclittica.
Oltre alla descrizione della sfera originaria, altre osservazioni
antiche vengono da Newton utilizzate al fine d’individuare
ulteriori datazioni storiche, partendo sempre dalle misure
astrometriche dell’astronomo reale John Flamsteed. Tra queste
spicca senz’altro la descrizione di Esiodo della levata eliaca
della stella Arturo,[24] nell’interpretazione newtoniana. In
questo caso il metodo utilizzato non è descritto esplicitamente
nella Chronology, cosicché si deve fare affidamento ad alcune
annotazioni presenti in un manoscritto precedente:
Esiodo ci racconta che sessanta
giorni dopo il solstizio invernale la stella Arturo sorgeva proprio al
tramonto del sole. In quei giorni, e per molto tempo ancora, i solstizi
erano posizionati nel mezzo delle costellazioni del Cancro e del
Capricorno e il loro spostamento non era conosciuto; l’apogeo del
sole si trovava in B 24°. In questi sessanta giorni, più sei
ore da mezzogiorno al tramonto, il sole si dovrebbe essere mosso dal
solstizio invernale a L 0° 10’ e il punto opposto
all’eclittica che sorge allo stesso momento di Arturo, dovrebbe
essere in F 0° 10’. La latitudine di Arturo è 30°
57’ nord e l’elevazione del polo sul monte Helicon, vicino
ad Atene, ove visse Esiodo, è 37° 45’, secondo quanto
asserito da Claudio Tolomeo. Giovanni Battista Riccioli (Almagesto, VI,
XX, prob. VIII) insegna come calcolare l’eccesso di longitudine
di Arturo su quella del suo punto dell’eclittica, a esso opposto.
Dai calcoli da me eseguiti risulta che tale eccesso sia di 11°
14’. Sommando questo valore a F 0° 10’, si ha la
longitudine di Arturo in F 11° 24’. Quando il lembo superiore
del sole è visibile, l’astro è ancora sotto
l’orizzonte di 33’, essendo esso maggiormente elevato
dall’effetto della rifrazione atmosferica; il suo centro è
16’ ancora più basso, in tutto 49’ sotto
l’orizzonte. La parte dell’eclittica che si trova tra
l’orizzonte e il centro del sole, risulta essere di 62’.
Quando Arturo è visibile al suo sorgere, è
anch’esso 33’ sotto l’orizzonte, sempre a causa della
rifrazione; l’arco tra l’orizzonte e la stella parallela
alla latitudine è di 41’ e ¼. Sommando i 62’
e i 41’ e ¼, si ottengono 103’ e ¼, che vanno
poi aggiunti alla longitudine di Arturo sopra indicata, ottenendo il
risultato finale di F 13° 7’ e ¼. La longitudine di
Arturo al tempo della spedizione degli Argonauti era F 13°
24’ 52” [cioè la posizione ricavata sottraendo i
36° 29’ alla posizione osservata da Flamsteed, nel 1689, di G
19° 53’ 52”, ndt], come sopra. La differenza di
17’ 37” è così ridotta da essere praticamente
impercettibile agli antichi astronomi […].[25]
I calcoli di Newton, quindi, dimostrerebbero la precedenza di qualche
decennio della spedizione degli Argonauti rispetto
all’osservazione di Esiodo, entrambe comunque successive alla
morte di Salomone (980 a.C.); ma ciò non chiarisce la
discrepanza di circa cinquant’anni (17’ e 37”
corrispondono a circa vent’anni) tra i risultati riportati in
questo manoscritto e i risultati dichiarati nell’opera edita, che
coinciderebbero con quanto Newton deduce in altri passi dello stesso
Esiodo (cioè che il poeta visse una generazione, cioè
circa trentatré anni, dopo la guerra di Troia, quindi due,
cioè circa sessantasei anni, dopo la spedizione degli
Argonauti).[26] Nonostante la mole considerevole di materiale autografo
newtoniano conservatisi, rimane arduo stabilire con sicurezza se altri
e diversi calcoli siano stati effettuati tra questo manoscritto e la
redazione ultima della Chronology, ma nasce spontaneo il sospetto che
l’oscurità con la quale Newton espone questi risultati[27]
nasconda qualche incertezza. Non appare un caso, in effetti, che questo
argomento non sia citato nella lista, redatta informalmente dallo
stesso Newton, che sintetizza gli elementi originali del suo sistema
cronologico.[28] Anche le osservazioni astronomiche di Ipparco, Talete,
Achille Tazio e Columella completano la sequenza di posizioni
astrometriche che Newton rintraccia nella mole monumentale di fonti da
lui lette e analizzate e che utilizza per datare altrettanti eventi
storici.[29]
Nell'analisi della struttura e della datazione del
monumento funebre di Amenofi, descritto da Ecateo e distrutto poi da
Cambise,[30] Newton unisce astronomia e "archeologia", seppur mediata
da narrazioni tratte da fonti storiche. Pur nella diffidenza nei
confronti dei reperti archeologici e, più in generale
dell'antiquaria,[31] Newton si occupò a più riprese della
struttura architettonica di alcuni monumenti antichi (alcuni dei quali
già scomparsi alla sua epoca e ricostruiti tramite fonti
indirette), convinto di trovare all'interno di essa proporzioni e
configurazioni simboliche in grado di rivelare informazioni nascoste,
in modo più o meno consapevole, da poter quindi decifrare.
Durante il regno di Amenofi, gli Egizi determinarono con
precisione l’equinozio primaverile e collocarono in tale giorno
l’inizio del loro anno: secondo Newton, ciò sarebbe
evidente dal fatto che essi collocarono un cerchio di 365 cubiti di
circonferenza, coperto sul lato superiore con una placca d’oro,
divisa in 365 parti uguali, per rappresentare tutti i giorni
dell’anno; ogni parte aveva incisi il giorno dell’anno e le
levate e i tramonti eliaci delle stelle riferite al giorno
corrispondente. Se ne deduce, quindi, che fu Amenofi, quand'era ancora
in vita, a stabilire l'aggiunta di cinque giorni intercalari all'anno
lunisolare, fissando il suo inizio proprio nell'equinozio di
primavera.[32] Nel tempo, questo tipo di anno s’introdusse in
Caldea e costituì il modello per l’anno di Nabonassar: per
tale anno e per quello degli egizi, l’inizio fu fissato nello
stesso giorno, chiamato Thoth, che nel principio del regno del sovrano
babilonese (747 a.C.) cadeva il 26 febbraio, cioè
trentatré giorni e cinque ore prima dell'equinozio primaverile
(il 29 marzo dell’antico calendario romano).[33] Seguendo
l'equazione del moto solare, il Thot dell’anno si muove in modo
retrogrado di trentatré giorni e cinque ore in centotrentasette
anni,[34] quindi coincise con l’equinozio primaverile
centotrentasette anni prima che l’era di Nabonassar iniziasse,
cioè nell’884 a.C. Ecco così restituita, nella
ricostruzione non proprio rigorosa e aderente al celebre suo motto,
hypoteses non fingo, la data di edificazione del sepolcro di Amenofi e,
quindi, della sua morte. La certezza con cui Newton propone i suoi
risultati si può constatare da una sua stessa dichiarazione,
presente nell'introduzione alla Chronology: egli scrive, infatti, di
aver potuto sbagliare al massimo “di cinque o dieci anni,
talvolta anche di venti, ma non di più”:[35] egli, quindi,
accredita al proprio lavoro un grado di verità comparabile a
quello da egli stesso raggiunto nell’ambito della filosofia
naturale (che, diversamente da quello cronologico, gli assicurò,
giustamente, l'immortalità).
Le incursioni newtoniane nell'ambito della ricostruzione
teorica di edifici antichi, talvolta già scomparsi, come si
è già accennato, sono dovute alla convinzione che le loro
strutture architettoniche fossero portatrici di un messaggio occulto
fortemente simbolico. È il caso degli antichi edifici sacri
denominati, al tempo di Newton, pritanei: essi avrebbero rimandato
all'antica idea eliocentrica della struttura dell’universo (a cui
aderì, com’è noto, Aristarco di Samo che riprese il
sistema del fuoco centrale di Pitagora il quale a sua volta, secondo
Newton, avrebbe ricevuto frammenti della prisca sapientia dallo stesso
Mosè), prima che fosse corrotta dal geocentrismo tolemaico;
l’architettura di tali edifici, infatti, prevedeva un fuoco
centrale intorno al quale vi era uno spazio sacro circolare in cui si
riunivano i membri del consiglio degli anziani (in realtà era la
tholos ad avere struttura circolare, non il pritaneo come si riteneva a
quei tempi)[36]: questa disposizione avrebbe dovuto richiamare la
disposizione dei pianeti intorno al Sole (v. Immagine 3).[37]
In un manoscritto databile intorno ai primi anni novanta
del Seicento, Newton accenna ai ruderi del sito di Stonehenge,
riferendosi alla comune struttura, quella dei pritanei, che avrebbero
avuto i primi edifici religiosi e politici nell’antichità,
in ogni parte del mondo:
In Inghilterra, vicino a Salisbury, vi è un rudere
chiamato Stonehenge che sembra essere un antico pritaneo. Si tratta,
infatti, di un’area circolare con due file di enormi pietre con
passaggi su tutti i lati per consentire alle persone di entrarvi e
uscirvi. Si dice che vi sono alcuni ruderi della stessa forma e
struttura in Danimarca. E’ da ritenersi che i templi di Vesta di
tutte le nazioni, come quelle dei Medi e dei Persiani, erano al
principio nulla più che aree circolari aperte con un fuoco in
mezzo, finché agglomerati e città unite sotto un
consiglio comune ne costruirono altri sontuosamente. In Irlanda uno di
questi fuochi si conservò fino ad anni recenti dai monaci di
Kildare sotto il nome di fuoco di Santa Brigida e il cenobio era
chiamato “la casa del fuoco”. Lo stesso culto era in uso
anche tra i Tartari, come Guglielmo di Rubruck e Giovanni Plancarpinio
ci informano. E gli Indiani ancora mantengono questo fuoco sacro e lo
chiamano Homan. Benjamin Tudensis ha trovato lo stesso culto del fuoco
in alcune isole delle Indie Orientali che egli chiama Chenerag.
Viaggiatori riportano la stessa cosa per la Cina. Bardasane, un Siro
che visse durante il dominio dell’imperatore Marco Antonino,
scrive che “tra i Seri (o abitanti della Cina) il culto delle
immagini era proibito da una legge e in tutta quella grande regione non
vi era un tempio da vedere”. Da ciò io credo di dedurre
che i Cinesi ancora a quei tempi avevano soltanto pritanei aperti senza
edifici, come erano in uso tra i Medi o i Persiani.[38]
Qui è chiara l’influenza del neoplatonico di Cambridge,
maestro di Newton, Henry More; la stessa influenza ravvisabile
nell'intero capitolo dedicato al tempio di Gerusalemme, inserito nella
Chronology. More definisce, infatti, il metodo che prevede
l'interpretazione delle strutture architettoniche degli antichi edifici
sacri, in particolare del tempio di Gerusalemme, come metafore mistiche
e simboli esse stesse, come la ricerca di “[…] uno schema
profetico assai frequente, specialmente nell’Apocalisse, che
parla di affari della chiesa cristiana attraverso l’indicazione
di nomi e con allusioni a quei luoghi, persone, cose riguardanti
l’antichità degli Israeliti e del popolo degli Ebrei che
assumono un significato mistico e spirituale”[39]. Lo stesso More
cita San Paolo, secondo il quale per gli Ebrei “le immagini hanno
qualche potenza in se stesse” (1Cor, X, 19). Con questi
presupposti, Newton tenta quindi di riprodurre, anche graficamente, la
pianta del tempio di Gerusalemme, secondo la descrizione che ne fa
Ezechiele (Ez, XL), utilizzando come base di lavoro la versione della
Bibbia di re Giacomo e comparandola con le altre versioni, compreso il
testo masoretico (v. Immagine 4). L’idea della centralità
del rito e del culto ebraici per la miglior comprensione della
Rivelazione e della letteratura sapienziale, comportò per Newton
la necessità di un'approfondita conoscenza della religione
ebraica, attuabile in maniera proficua solo tramite la padronanza del
linguaggio originale della Bibbia, raggiunta probabilmente già a
metà degli anni settanta del XVII secolo.
Alessio Miglietta
Di Alessio Miglietta in Airesis, nella sezione I labirinti della ragione, sono ospitati i seguenti contributi:
- Alessio Miglietta, Da Zenone a Newton: la fisica stoica e i suoi influssi sulla nuova scienza
- Alessio Miglietta, Il sistema cronologico newtoniano: contesto e princìpi generali
NOTE
[2] I. Newton, Philosophiæ Naturalis Principia Mathematica, Londra, 1687, p. 470 (lib. III, prop. XXXIX, prob. XIX e XX).
[3] Cfr. J. Flamsteed, Historia Celesti Britannica, London, 1725, II e id., Stellarum Inerrantium Catalogus Britannicus, ad Annum Christi Completum, 1689, London, 1725. Nelle precedenti stesure manoscritte della Chronology, Newton si affidò alle misure di Hevelius (Prodromus astronomiae, Danzig, 1690).
[4] Cfr. Clemente di Alessandria, Gli stromati, I, 15 e Oxford, New College Library, Keynes Ms 361(3), f. 194r.
[5] Cfr. N. Conti, Mytologiae sive explicationis fabularum, IV, 12.
[6] Cfr. D. Laerzio, Vite dei filosofi, I, proemio.
[7] La sfera celeste era rappresentata dagli astronomi antichi sia
tramite proiezione su un piano, sia in tre dimensioni da un globo,
solitamente in terracotta o metallo, sul quale tracciavano
costellazioni e coordinate celesti, risultati dalle loro osservazioni
dirette. Cfr. F. Cumont, Zodiacus, tr. it. L. Perilli, Lo Zodiaco, Milano, 2012, pp. 28-35.
[8] Le costellazioni della Chioma di Berenice (dedicata alla regina
Berenice II, sposa di Tolomeo III Evergete ) e di Antinoo (introdotta
da Tolomeo in onore dell’amante dell’imperatore Adriano,
oggi scomparsa) che sarebbero, però, eccezioni confermanti la
regola. Cfr. I. Newton, Chronology of Ancient Kingdoms Amended, London, 1728, p. 85.
[9] Storia naturale, VII, 56.
[10] Biblioteca, I, 9, 25.
[11] Cfr. Suida, in Aυαγαλλις.
[12] Omero, Odissea, VI, vv.
115-116. Un’ottica critica su questo aspetto dell’esegesi
newtoniana, più che nei diversi testi inglesi e francesi
risalenti agli anni immediatamente successivi alla pubblicazione della Short Chronicle e della Chronology, la si trova nello splendido lavoro del giovane Leopardi. Cfr. G. Leopardi, Storia dell’astronomia, cap. 1.
[13] Cfr. Ipparco di Nicea, Commentario su Arato di Soli, Fenomeni, II, 3.
[14] La stella Prima Arietis corrisponde alla lettera γ della
classificazione di Bayer e non α, come viene in genere
erroneamente indicato, v. ad esempio L. Pierce e M. Pierce in I.
Newton, Newton's Revised History of Ancient Kingdoms: A Complete Chronology, Green Forest, 2009, p. 39. Cfr. J. Flamsteed, Historia celesti Britannica, cit., II, pp. 7-10 e 13-15; J. Flamsteed, Stellarum Inerrantium Catalogus Britannicus, ad Annum Christi Completum, 1689, cit., p. 1. V. anche Immagine 2.
[15] Stella priva di catalogazione di Bayer, è chiamata “I
ad τ” Arietis da Flamsteed e corrisponde alla “Ultima
seu Tertia Caudae” del Catalogus stellarum fixarum di Johannes
Hevelius (1690), utilizzato dallo stesso Newton, prima di entrare in
possesso delle misure di Flamsteed. Cfr. J. Flamsteed, Stellarum Inerrantium Catalogus Britannicus, ad Annum Christi Completum, 1689, cit., p. 1; F.E. Manuel, Isaac Newton Historian, cit., pp. 71 e 82 e J. Hevelius, Prodromus astronomiae, Danzig, 1690, p. 156.
[16] Non rimane traccia in alcun manoscritto del procedimento
utilizzato da Newton. Un'ipotesi sul metodo di calcolo è
formulata in J.Z. Buchwald e M. Feingold, Newton and the Origin of Civilization, Princeton, 2012, pp. 459 e ss.
[17] Il cerchio passante per i poli e per gli equinozi, e quello
passante per i primi e per i solstizi, si dicono coluri. Newton si
riferisce al sistema di coordinate celesti dette eclitticali,
cioè al sistema che ha come piano fondamentale
l’eclittica, ovvero la linea immaginaria che attraversa la sfera
celeste e che descrive, interpolandolo, il percorso apparente del sole,
rispetto alle stelle fisse, durante l’anno.
[18] Cfr. I. Newton, Chronology of Ancient Kingdoms Amended, cit., pp. 88 e ss.
[19] Denis Petau, ad esempio, collocava la spedizione nel 1263 a.C. Cfr. D. Petau, Abrégé chronologique de l'histoire universelle sacrée et profane, v. IV, Paris, 1715, p. 29.
[20] Cfr. N. Fréret, Défense
de la chronologie fondée sur les monuments de l’histoire
ancienne, contre le système chronologique de M. Newton, Paris, 1758.
[21] Cfr. I. Newton, Remarks on the
Observations made on a Chronological Index of Sir Isaac Newton,
translated into French by the Observer, and published at Paris,
in Philosophical Transactions of the Royal Society, London, 1725,
XXXIII, 399, pp. 317-318; Cambridge, King’s College, Keynes Ms.
138 e Gerusalemme, Jewish National and University Library, Yahuda MS.
27, ff. 1v e 5r.
[22] Cfr. Ipparco di Nicea, Commentario su Arato di Soli, Fenomeni, I, 2.
[23] Cfr. J. Flamsteed, Stellarum Inerrantium Catalogus Britannicus, ad Annum Christi Completum, 1689, cit., pp. 2, 25, 39, 40.
[24] Cfr. Esiodo, Le opere e i giorni, vv. 564-567 e D. Petau, Variarum dissertationum in Uranologion sive sistema variorum authorum, cit., pp. 90 e ss.
[25] Gerusalemme, National Library of Israel, Ms 25.1a, f. 1r. Cfr.
anche Oxford, New College Library, Keynes Ms 361(3), f. 92r. e J.
Flamsteed, Stellarum Inerrantium Catalogus Britannicus, ad Annum Christi Completum, 1689, cit., p. 50.
[26] Tramite l’identificazione di Anfidamante, citato da Esiodo,
con l’omonimo partecipante alla guerra di Troia e considerando la
cosiddetta quinta età, nella quale l’antico autore
dichiarava di vivere, successiva a questa guerra. Cfr. Esiodo, Opere e
giorni, vv. 648-662 e vv. 174-175; Omero, Iliade, XXIII, v. 87.
[27]Cfr. F.E. Manuel, Newton Historian, cit., p. 65.
[28]Cfr. Oxford, New College Library, Ms. 361(2), f. 154v e 155r.
[29] Per un approfondimento rimando a I. Newton, Scritti storico-religiosi e filosofico-scientifici, a cura di D. Arecco e A. Miglietta, in corso di stampa.
[30] Cfr. D. Siculo, Biblioteca storica, I, 49 ed Ecateo in ibidem, I, 32.
[31] Newton ebbe a dire che gli antiquari non erano altro che
“amanti di bambole di pietra”. Cfr. J. Conduitt, Cambridge,
King’s College, Keynes Ms. 130.07, f. 7v.
[32] Cfr. Strabone, Geografia, XII, 1; D. Siculo, Biblioteca storica, I, 50 e J. Marsham, Canon chronicus aegyptiacus, hebraicus, graecus, cit., p. 235.
[33] Secondo le fonti prevalenti, il giorno di Thot era fissato al
sorgere eliaco di Sirio che all’epoca della sua inaugurazione
coincideva approssimativamente con l’equinozio di primavera.
Newton dice di considerare, per l’individuazione del giorno Thot,
l’anno egizio di trecentosessantacinque giorni e non il ciclo
canicolare. Cfr. Philosophical Transactions of the Royal Society, cit.,
XXXIII, 399, p. 320; Censorino, Sul giorno natale, 12; D. Petau, Opus de doctrina temporum, cit., pp. 649 e ss. e J. Marsham, Canon chronicus aegyptiacus, hebraicus, graecus, cit., p. 295.
[34] Cfr. G.G. Scaligero, De emendatione temporum, Geneva, 1629, pp. 391 e ss.
[35]Cfr. I. Newton, Chronology of Ancient Kingdoms Amended, cit., p. 8.
[36] Cfr. S.G. Miller, The Prytaneion. Its Function and Architectural Form, London, 1978, pp. 25-26.
[37] Cfr. B.J. Teeter Dobbs, Isaac Newton scienziato e alchimista. Il doppio volto del genio,
trad. it. Roma, 2002, pp. 120-132; Gerusalemme, Jewish National and
University Library, Yahuda Ms. Var. 1; Gerusalemme, Jewish National and
University Library, Yahuda Ms. 41, f. 6.
[38] Yahuda Ms. 41, National Library of Israel, Jerusalem, Israel, f. 2v.
[39] H. More, Theological Works, London, 1708, p. 530.
Bibliografia selezionata
ARECCO, DAVIDE
I Fatti e le Idee. Scienza, religione e società nell’Inghilterra moderna, Genova 2007.
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