Per farla finita
Walter Catalano
Metafisica e politica in Julius Evola
di Piero Di Vona
Edizioni di Ar, Padova 2000 - pag. 168 - € 15,50
Razza del Sangue, razza dello Spirito. Julius Evola, l'antisemitismo e il nazionalsocialismo (1930-43)
di Francesco Germinario
Boringhieri, Torino 2001, - pag. 176 - € 15,50
"Per farla finita con la Destra" era il titolo di uno dei più bei libri di Stenio Solinas. Parafrasandolo potremmo trovare in "Per farla finita con Julius Evola" il titolo più adatto per compendiare l'avvio di un definitivo ridimensionamento e di un'auspicabile smitizzazione del pensiero di questo tradizionalista troppo amato in un certo asfittico ambiente di destra radicale e, specularmente, altrettanto odiato in quello non meno asfittico che al primo intenderebbe contrapporsi. I due volumi che prendiamo in considerazione ci paiono rappresentare, per diversi motivi, un notevole passo in questa direzione.
Altre impietose ricognizioni di tal genere potrebbero chiarire una volta per tutte se e quanto il personaggio Evola meriti davvero tanto amore e tanto odio e quale sia stata l'effettiva importanza ed originalità delle sue idee.
Piero Di Vona nel suo ultimo lavoro, risponde solo in parte a queste domande, la sua indagine filosofica, per quanto incisiva e rigorosa, non si spinge fino alla radicalità delle posizioni assunte nei due precedenti libri da lui dedicati a vari aspetti del pensiero dell'altro pontifex maximus del tradizionalismo integrale, René Guénon, che avevano ispirato indignate reazioni da parte del variegato e litigioso sottobosco dell'osservanza guenoniana. Sarebbe stato forse salutare cercare di gettare altrettanto scandalizzato scompiglio nei ranghi più serrati dei fin troppo numerosi veri o pretesi kshatrya evoliani ed evolomani declinati nella loro doppia versione "radicale" e "moderata".
Se la prima di queste versioni, nella quale è inclusa la casa editrice che pubblica il libro di Di Vona, ha sempre coerentemente accettato in blocco le idee evoliane rivendicandone con orgoglio anche gli aspetti meno gradevoli, la seconda, in un'ottica entrista ed istituzionalista, ha preferito invece "aggiustare" il pensiero del proprio beniamino discriminando in esso fra aspetti primari e aspetti secondari e dichiarati disinvoltamente "prescindibili" (ovviamente quelli meno sdoganabili), seguendo il metodo caro agli odiati e invidiati confratelli marxisti che avevano, qualche decennio prima, disinvoltamente emendato - è solo un esempio fra i molti - i Minima Moralia di Adorno, nella versione canonica Einaudi, dei passi meno consoni all'allora inossidabile ortodossia filosovietica[1].
Per i primi come per i secondi, comunque, la persistenza del culto del Barone - più o meno nero a seconda dei casi e delle circostanze - resta forse lo scopo principale e soprattutto necessario, in grado com'è tuttora di garantire la sopravvivenza dei magri profitti di quegli interessati agiografi che, assai efficacemente, Marco Tarchi ha definito qualche anno fa "venditori di immaginette".
Il libro di Di Vona è un primo passo ben orientato verso una riconsiderazione della figura intellettuale di Evola che, sottraendosi all'aneddotica e attraverso una precisa e corretta analisi filosofica, la riconduce alle reali proporzioni: in realtà piuttosto esigue (conclusione che Di Vona si guarda bene dal trarre apertamente, ma che emerge in filigrana dalla sua puntuale disamina). In particolare lo studioso napoletano dimostra l'appartenenza di Evola - in assoluta divergenza da Guénon - all'ambito della Rivoluzione Conservatrice tedesca, di cui costituirebbe una sorta di appendice italiana, sostanzialmente estranea e periferica rispetto al dibattito filosofico dominante nel nostro paese, ma, come questo, "asservito alla cultura e alla filosofia tedesche[2]. Un elemento tipico di questa visione, oltre alla concezione ciclica del tempo e alla centralità della rilettura del pensiero di Nietzsche, sarebbe il concetto di Weltanschauung, ripreso in ambito filosofico soprattutto da Dilthey. Anche l'idea guenoniana di Tradizione viene vista da Evola "alla luce dell'idea germanica di Weltanschauung", passando soprattutto attraverso Bachofen: tutt'altro che "tradizionale", questa sarebbe semplicemente "un'idea tipica della contemporanea cultura tedesca"[3]. Evola insomma, a parere di Di Vona, "ebbe, sì, delle idee metafisiche ma non costruì mai una sua metafisica, paragonabile a quella svolta da Guénon".
Proprio come Weltanschauung Evola interpreta la concezione guenoniana di Tradizione e la applica alle teorie razziali ricavandone la propria versione "spirituale" basata sui tre livelli del corpo, dell'anima e dello spirito. La razza diventa per Evola "un mito nel senso soreliano di idea forza", capace di unificare "le energie creatrici e gli istinti di un'epoca". In altre parole Evola usa la Tradizione per giustificare e legittimare una propria conformistica (e forse anche opportunistica) adesione al razzismo imperante, cercando di nobilitare un mito darwiniano e positivista con sofistiche pretese spirituali[4]. "Il razzismo di Evola non era, dunque, una teoria secondaria e marginale del suo pensiero, un aspetto marginale che poteva anche essere trascurato, o anche espunto - aggiunge Di Vona smentendo certi esegeti contemporanei - senza conseguenze rilevanti per la comprensione generale delle sue idee. Al contrario, esso ne era un'applicazione molto importante al mondo civile, politico e sociale, da cui Evola attendeva un integrale rinnovamento". La possibilità di un'azione rivoluzionario-conservatrice dipendeva essenzialmente dalla misura in cui una Weltanschauung tradizionale, aristocratica e antiproletaria fosse stata in grado di dar forma a nuove élites.
A questo proposito Di Vona ricorda giustamente le riserve di Henry Corbin di fronte all'idea di Tradizione, introdotta da Guénon ed usata da Evola, idea "costruita e non originaria.idea dell'Occidente contemporaneo e nient'affatto l'eredità di una venerabile antichità anteriore alla stessa preistoria". Evola rappezza la sua versione del mito attingendo alla classificazione delle civiltà di Bachofen e combinandola alle teorie guenoniane delle quattro età e della regressione delle caste, edificando "coi materiali molto moderni di quelle dottrine e coi risultati ottenuti da discipline archeologiche, antropologiche ed etnografiche, anch'esse molto moderne" una metafisica generale della storia occidentale che rimanda essenzialmente all'antitesi nord-sud asserita da un altro mito coevo: quello propogandato da Rosenberg[5].
Dalla lettura del testo di Di Vona emerge, in modo implicito ma evidente, l'impressione che l'opera di Evola, una volta disinnescate le sue potenzialità mitiche, si riveli nella sua natura autentica di patchwork, di audace ricompilazione delle idee di altri profilate secondo uno schema talvolta affascinante ma non sempre coerente, con l'innegabile merito di introdurre temi ed autori poco frequentati nella cultura provinciale dell'Italietta pre e post bellica e l'altrettanto innegabile demerito di distorcerli e forzarli a piacimento. Un un po' di Bachofen, un pizzico di Nietzsche, una buona dose di Guénon, qualche briciola di Weininger mescolati nel calderone per generare chimere, manticore o centauri, problematici ibridi che l'interpretazione di Dumézil non potrebbe esaurire: un buddhismo razzista mai esistito, nonostante l'avallo della Pali Text Society, ne La dottrina del risveglio, lo Spengler de Il tramonto dell'Occidente e il Guénon de La crisi del mondo moderno tradotti fantasiosamente e emendati dei passi sgraditi, la tentata divulgazione "sorvegliata" da presentazioni ad hoc di Schmitt e dell'Arbeiter jungeriano (il primo gli rispose negativamente, il secondo non rispose nemmeno), e così via. Il tutto al servizio di forze orientate in ben altra direzione rispetto a quella dichiarata: non lo Stato organico ed un'élite aristocratica ma lo Stato totalitario della plebea Volksgemeinschaft nazionalsocialista. Per usare immagini care a Ernst Junger, ci troviamo in un certo senso di fronte ad un anarca a parole che serve nei fatti il Forestaro e i Mauretani.
A queste spinose questioni ed all'ancor più spinoso tema del razzismo evoliano, già tratteggiato da Di Vona, è dedicato interamente il saggio di Francesco Germinario. L'autore senza far troppo pesare la sua posizione fortemente antitetica alle idee del pensatore oggetto della sua ricerca, individua il percorso evoliano attraverso il razzismo in quattro fasi comprese fra il 1930 - appena conclusa l'esperienza fallimentare de La Torre - e il 1943, alle soglie della caduta del Regime. Oltre che a volumi - più o meno prudenzialmente obliati nel dopoguerra - come Tre aspetti del problema ebraico (1936), Il mito del sangue (1937), Indirizzi per una educazione razziale (1941) e Sintesi di dottrina della razza (1941), Germinario attinge anche all'introduzione evoliana ai Protocolli dei Savi Anziani di Sion (1938) e soprattutto alla sua fin troppo copiosa pubblicistica dispersa sulle più varie testate giornalistiche da Regime Fascista a La Vita Italiana e a La difesa della razza. La traiettoria delineata nel volume evidenzia un progressivo slittamento delle iniziali pretese di creare una ipotetica autonoma via fascista al razzismo e all'antisemitismo verso un sempre più pedissequo allineamento alle posizioni nazionalsocialiste - purchè la Romanità venisse inglobata nella Volksgemeinschaft nordico-aria del Reich. La leggenda del preteso frondismo di Evola nei confronti del regime mussoliniano viene sfatata dalla lettura dei brani riportati, anche senza bisogno dei commenti, per altro assai sobri, di Germinario: all'Evola dadaista, a quello idealista e a quello magico di Ur, succede ora un Evola conformista che corteggia il fascismo cercandosi una nicchia come ideologo della razza. Nonostante gli sforzi, resterà però anche in questo caso confinato in periferia.
Anche il linguaggio e la terminologia evoliana, in quasi tutti gli scritti citati, poco si differenziano dalla retorica stantia del conformismo di regime. Basti un solo esempio per tutti: "L'Italia romana e fascista esige anche un uomo nuovo fascista, romano e ario-romano, che è un uomo nuovo e antico ad un tempo. Questo tipo di razza superiore è esistito e tuttora esiste nel nostro popolo ed è esso che deve prender sempre più il sopravvento e dare il "tono" al nostro carattere, al nostro modo di sentire, alla nostra civiltà" (Stile "mediterraneo" e carattere ario-romano - 1941).
In fin dei conti, in campo razziale Evola non aggiunge molto di nuovo alle idee di Gobineau: le sue fisime spiritualiste non sono che divagazioni sulla teoria classica che vede nel mélange razziale l'origine della crisi della civiltà (la "sparizione della razza bianca"), in contrapposizione al mito di Chamberlain e Rosenberg che favoleggiava un ariano nordico immune dall'imbastardimento delle razze.
Il lavoro di Germinario, corretto ed equilibrato, lascia che il lettore si confronti direttamente, senza eccessive puntualizzazioni, con il materiale in esame, assemblato in modo da commentarsi da solo. Dissentiamo però vivamente dalle sue opinioni su un punto tutt'altro che secondario dell'analisi che ci presenta, scostandosi dai rilievi legati all'epoca di produzione dei testi evoliani esaminati e intervenendo polemicamente su un argomento di stretta e scottante attualità.
L'autore scrive:
Erroneo, dunque, sotto l'aspetto storiografico, sarebbe erigere una barriera concettuale e temporale fra il razzismo classico gerarchizzante e quello differenzialista: se il secondo.cerca di rifuggire dalle gerarchizzazioni, va detto che il primo aveva presentato posizioni differenzialiste - come quella evoliana appunto - che si erano spinte fino a problematizzare il concetto forte di "gerarchia razziale".
Il discorso qui non fila. Il concetto di razzismo - ci pare - esiste soltanto là dove la differenza razziale (che non è una teoria ma un dato di fatto evidente: come un barboncino non è un fox-terrier così un watusso non è un cinese) diventa un criterio usato per operare gerarchizzazioni e discriminazioni in nome di un preteso modello ideale biologico o/e culturale (la razza ariana, il popolo eletto, ecc.). Una cosa è constatare delle differenze, senza le quali non esiste possibilità di relazione e confronto con l'altro, un'altra è creare arbitrarie classificazioni sulla base di pre-giudizi e idee totalizzanti. Per questo motivo il differenzialismo della Nouvelle Droite non è razzismo, mentre Evola - che sulla gerarchia delle differenze ha eretto una pretesa metafisica - è semplicemente un razzista tout court.
Anche per non dare adito a questo genere di equivoci, tutti coloro ai quali stanno a cuore le possibilità di feconde nuove sintesi politico-culturali non conformiste dovrebbero comunque decidersi - magari dopo aver letto e ben ponderato i volumi qui recensiti - a farla finita con Julius Evola. Il che non significa demonizzarlo, ostracizzarlo e rifiutarsi di leggerlo ma semplicemente considerarlo con obbiettiva e imparziale freddezza, sentirlo più estraneo, distaccarsi criticamente dal suo mito santificato o maledetto. Le riflessioni, i testi e i pensatori che possono aiutarci ad affrontare il millennio che ci sovrasta vanno cercate altrove.
Note
[1] Con l'identica disinvoltura con la quale hanno presentato Evola, a seconda delle convenienze, ora come un impavido e gelido aristocrate stoicamente sdegnoso della propria infermità, ora come un candido vecchietto che si commuove ascoltando la Marcia di Radetzsky al concerto viennese di Capodanno, e tentato sbrigativamente di obliare una "prescindibile" ma purtroppo ingombrante parte della sua opera, gli stessi zeloti, con una pittoresca inversione dei termini, avevano negli anni '70, quando si cercava di aggiudicare alla destra un ipotetico predominio sulla letteratura fantastica, arruolato forzatamente tra i "fascisti" lo scrittore orrorifico statunitense H.P. Lovecraft, pubblicando noiosi epistolari degli anni '20 in cui questi furoreggiava contro negri ed ebrei ma dimenticando però di includere anche le lettere del decennio successivo in cui lo stesso scrittore prendeva le distanze dai suoi "errori giovanili", inneggiava al New Deal di Roosvelt e proclamava le sue simpatie per la Spagna Repubblicana e antifranchista, documenti che avrebbero facilmente smentito la troppo facile acquisizione. L'esempio è testimonianza di un metodo molto comodo e assai tipico di perseguire l'utilità strumentale piuttosto che la verità obbiettiva.
[2] Evola, come ulteriormente testimoniato dal testo in esame, resta un isolato ed un marginale non soltanto nel dopoguerra - quando è almeno oggetto di un minuscolo culto carismatico da parte degli "esuli in patria" - ma anche e forse soprattutto durante il Regime dove, nonostante i febbrili tentativi da parte sua - tutt'altro che aristocraticamente sdegnosi, come vorrebbe l'automitologia de Il cammino del cinabro - di inserirsi nel dibattito in corso, le sue teorie razziali dalle pretese "spiritualiste" e le sue posizioni "ghibelline" ma ellitticamente paranaziste - giudicate forse estremiste o semplicemente velleitarie - restano confinate a quella che oggi verrebbe con poca grazia definita una lunatic fringe.
[3] Gli stessi riferimenti culturali - Nietzsche, von Hartmann, Dilthey, Weininger, Simmel, George, Spengler, Keyserling, Klages, ecc. - a quella stessa Lebensphilosophie che Lukàcs, nella prospettiva marxista di La distruzione della ragione, vedeva come "conversione dell'agnosticismo in mistica, dell'idealismo soggettivo nella oggettività del mito", producono frutti disparati ma segnati da curiosi parallelismi. È utile a questo proposito confrontare il caso di Carl Gustav Jung - apparentemente mille miglia lontano da Evola - come emerge dal recente libro dello psicologo Richard Noll Jung, il profeta ariano: Origini di un movimento carismatico, Mondadori 2001. Non tanto di "individui assoluti" o "differenziati", né tantomeno di "equazioni personali" si dovrebbe parlare quanto di semplici prodotti dello Zeitgeist. Anche in Francia, negli stessi tardi anni '30 in cui Evola si affannava ad assecondare il Regime avviato verso la promulgazione delle leggi razziali, possiamo inquadrare nella risacca di identiche derive il "contrattacco" che Bataille avrebbe voluto sferrare sottraendo Nietzsche, il mito e la ritualità ai fascisti e, in compagnia di Caillois, Klossowski, Leiris ed altri, costituendo un essoterico collegio di sociologia sacra e l'esoterica comunità segreta Acéphale. Il "vento invernale" auspicato da Caillois, che avrebbe gelato la società "senile e cadente" salvando solo il "nomade robusto" di una nuova èlite, prelude alla costituzione di un ordine chiuso, sacro "la cui missione sarebbe quella di far sorgere in seno al mondo profano, mondo del servilismo funzionale, il mondo sacro della totalità dell'essere (Klossowski)". Non esiste nessuna possibilità di equivoci, però: quell'ordine non avrebbe potuto condividere alcunchè con quello di Himmler, che secondo Evola perseguiva analoghi obbiettivi: nonostante le accuse di "estetismo prefascista" (Benjamin) o di surfascismo (Breton), in splendido equilibrio fra destra e sinistra, i membri del Collegio e di Acéphale osservavano, fra le varie prescrizioni rituali, che si erano date, il divieto assoluto di stringere la mano ad un antisemita (Cfr. Il collegio di sociologia 1937-1939, a cura di Denis Hollier, Bollati Boringhieri; Georges Bataille, La congiura sacra, Bollati Boringhieri).
[4] Curioso destino quello di Evola: una copiosa parte della sua opera è rappresentata dalla giustificazione dialettica delle proprie incoerenze. Nemico dell'illuminismo e dello scientismo vorrebbe "spiritualizzare" un mito illuminista e positivista come quello della razza che risale non certo a supposte civiltà tradizionali quanto a Darwin e soprattutto a Haeckel; paladino in teoria dello Stato organico fa concretamente il gioco del totalitarismo; monarchico, "ghibellino" e acerrimo avversario del socialismo combatte con la Repubblica socializzatrice; così nel dopoguerra tuona contro la morsa parallela di URSS e USA sull'Europa ma solidarizza con il filoatlantista Junio Valerio Borghese connivente con la CIA... Ci sarebbe forse bisogno, nella pubblicistica futura, di ricerche in campo psicologico più che filosofico. La psicologia del personaggio è sfuggente come i dati biografici accessibili su di lui: l'eccessiva insistenza nei suoi scritti su termini quali "virile e aristocratico" lascerebbe pensare all'atteggiamento tipico del borghese o piccolo borghese più che del vero nobile che non ha certo bisogno di rimarcare il proprio sangue blu ad ogni occasione; così come irrisolti e problematici possono apparire i suoi rapporti con l'elemento femminile, dal saggio giovanile "La donna come cosa" - pubblicato sull'"Ignis" di Arturo Reghini - a certe pagine di Rivolta contro il mondo moderno o della Metafisica del sesso. Di fatto il narcisismo e l'ipertrofia dell'io sembrano sempre traboccare là dove dovrebbero cedere invece al distacco, al superamento, alla rinuncia, coerentemente con lo scopo della philosophia perennis praticata dai veri tradizionalisti (Guènon incluso).
[5] Assai più coerenti appaiono - restando limitati all'ambito dell'esoterismo, della metafisica, della spiritualità - i percorsi di altri tradizionalisti come René Guénon, Titus Burckhardt, FrithjofSchuon, Ananda K. Coomaraswamy, ecc. Nella sua pura essenza di mito - come ha ben individuato Mircea Eliade - il tradizionalismo trova una sua precisa collocazione funzionale nell'ambito della storia delle religioni. La nozione, al di fuori di queste categorie, diviene problematica e rischiosa. Evola, dopo la fase innegabilmente interessante di Ur (alla quale presero parte però anche altre personalità carismatiche come Reghini, Onofri, Parise, Servadio, ecc. e che resta ancora interna alla sfera che gli è propria: la "scienza dell'io"), si compromette con forze che sviano e asservono la sua tensione metafisica mettendola al servizio di ben altri scopi. Nel dopoguerra il Barone resta con proterva coerenza un personaggio definitivamente confinato all'ambito della destra radicale (e quella più retriva, che difende lo Stato pur che sia, quella filoatlantica, militarista e golpista di Borghese e camerati): testi come Orientamenti e Gli uomini e le rovine non offrono, da questo punto di vista, la minima possibilità di equivoci e la descrizione di lui tratteggiata nell'Autobiografia di un picchiatore fascista di Giulio Salierno, pur nella scarsa credibilità complessiva dell'autore del libro, ce ne offre un'immagine - più vicina al patetico che al tragico - della quale si può tranquillamente dire che se non è vera è ben trovata. Chiunque si sia lasciato serenamente alle spalle quei territori o altri limitrofi e sia ormai immune ai "miti incapacitanti" che ne fanno parte, ben poco potrà trovare ancora in gran parte delle pagine di questo Ghibellino in orbace.