Quel perverso piacere del digiuno
Ida Li Vigni - docente di Italiano e Storia (Università di Genova, Liceo artistico Paul Klee di Genova)
Primo destinatario del digiuno degli asceti cristiani era il corpo, orribile sentina di vizi, e come tale da prostrare. Ma se i primi eremiti del deserto, pur vivendo agli estremi limiti delle possibilità fisiche, si mantennero sempre entro i confini della sussistenza, più tardi il digiuno si estremizza e si trasforma in simbolo di diversità e di perfezione spirituale, divenendo così un "perverso piacere". È soprattutto il monachesimo femminile a soggiacere a questo estremismo ascetico, giungendo, nel più assoluto rifiuto del proprio corpo, e soprattutto della propria femminilità, alla totale astinenza, fino a sostituire il cibo terreno con un altro di natura "celeste".
Miniatura rinascimentale di area francese.
... Niente piace più a Dio della magrezza del corpo e più il corpo sarà asciugato dall'asprezza delle mortificazioni, meno sarà soggetto alla corruzione della tomba e, quindi, resusciterà più gloriosamente...[1]
Queste sinistre parole di Tertulliano, campione indiscusso della condanna di qualsivoglia forma di carnalità, risuoneranno per secoli in bocca ai predicatori e ai moralisti, apocalittico anatema contro la natura, rea di trasformare l'uomo da puro contenitore dello spirito ad immonda materia destinata a satollare i vermi:
... Mangiare, per essere mangiati ... I corpi dei ricchi, essendo satolli e ben in carne, sono dei veri banchetti per i vermi, mentre i corpi dei poveri, che non sono che pelle e ossa, offrono ai vermi nient'altro che un magro pasto...[2]
A prescindere dalle scoperte implicazioni sociali di un siffatto proclama che suona da beffarda giustificazione dei devastanti ed indesiderati digiuni delle plebi, l'esaltazione della "vita miserabile" come preparazione alla pienezza spirituale e paradisiaca si presta quale chiave di lettura di quella cultura dell'eccesso che contraddistingue la civitas Dei e che trova la sua più straordinaria manifestazione nelle maratone digiunatorie inaugurate dai padri del deserto e spinte ai limiti della "sublime astinenza" dalle sante del Basso Medioevo e della Rinascenza. In tal modo il linguaggio del cibo, o meglio ancora della riduzione drastica del cibo, diventa la cifra interpretativa non solo delle relazioni economico-sociali all'interno di una comunità, ma altresì dei modelli di distanziamento morale dalle categorie tanto del potens (colui che si serve anche del cibo come "segno" della suo potere terreno) quanto del pauper (colui che denuncia la propria esclusione dal potere attraverso la mancanza di cibo).
Se è vero infatti, come hanno giustamente evidenziato Le Goff e Montanari[3], che l'alimentazione (soprattutto nell'Alto Medioevo) svolge un ruolo di immediata definizione simbolica dei ruoli ideologici svolti dai gruppi dominanti (sicché la scelta del cibo, acqua / vino, pesce / carne, corrisponde ad una precisa partizione fra potere spirituale e potere temporale), è altrettanto vero che la riduzione al grado zero del cibo ed il capovolgimento radicale del regime alimentare teso all'alienazione / rimozione del gusto fanno parte di un più complesso universo simbolico che partecipa tanto alla sfera del sociale quanto a quella dell'individuale patologico.
Ciò non deve destare meraviglia più di tanto, dal momento che la paura / orrore del corpo, così presente ed assillante nella predicazione tebaide e cristiana in generale, non poteva che portare ad un'analoga paura / orrore del cibo, elemento primo di sostentamento di quel corpo che condanna l'uomo alle tentazioni della carne e del terreno, e di conseguenza ad una repulsa psichica di qualsiasi forma alimentare che non fosse quella tutta spirituale dell'ostia, il pane sacro per eccellenza.
Educati ad odiare il corpo, sentina di tutti i vizi e repellente contenitore dei processi digestivi, gli "uomini di Dio" non potevano che sviluppare una feroce avversione al cibo, tanto più che gli stessi Padri della Chiesa (operando un significativo slittamento di senso nella lettura dell'episodio biblico della caduta di Adamo ed Eva) avevano sottolineato con insistenza, anticipando di secoli la "scoperta" freudiana, il perverso legame fra cibo ed Eros, ponendo il peccato di gola e quello di lussuria sullo stesso piano.
Sconfiggere la gola diventa così la prima tappa di quella costante lotta contro il corpo che deve restituire l'uomo alla primigenia purezza, a quella età dell'Eden perduta proprio per un cedimento della gola, tanto più che un corpo ben nutrito, sollecitato da cibi "caldi ed umidi", si abbandona più facilmente ai piaceri erotici, con un surplus di perdizione.
Ma vincere la gola non è facile, poiché almeno cinque sono le tentazioni che essa offre, come ben spiega il parroco nell'ultimo dei Canterbury Tales, parafrasando in chiave laico-borghese Gregorio Magno:
... la prima è quella di mangiare anzitempo; la seconda è di cercare carni e bevande delicate; la terza è quella di mangiare oltremisura; la quarta sta nella ricercatezza nel cuocere e condire le carni; la quinta è quella di mangiare golosamente. Sono queste le cinque dita della mano del Diavolo, con cui egli attira gli uomini al peccato...
Posti di fronte a siffatti ostacoli, persistenti anche dinnanzi ai pur contenuti regimi alimentari escogitati nei conventi a difesa della purezza di monaci e monache, quanti tenevano strenuamente alla salvezza della anima e si vedevano minacciati dal Tentatore finirono con l'abbracciare l'unica gratificante via di salvezza che si apriva loro: il digiuno spinto fino alle soglie della privazione totale, fino all'inaridimento del corpo, ma non della mente cui si aprono imprevisti e tutto sommato graditi gli inferni delle visioni demoniache e i paradisi delle folgorazioni divine.
Il modello dietetico, sbalorditivo ed affascinante se si considerano gli "aggiustamenti" introdotti a compensare gli inevitabili squilibri vitaminici e calorici cui dava luogo (perché, se è giusto punire ed annullare il corpo, è peccato lasciarsi morire di fame), si diffuse dalla Tebaide al mondo occidentale grazie alle Vitae di quei digiunatori sregolati e a loro modo protervi che furono i padri del deserto i quali, rifugiatisi in terre ostili, disseccavano volontariamente il loro corpo spingendosi a sperimentarne le possibilità di sopravvivenza fisica e psicologica.
A loro si deve l'instaurazione di un vegetarianismo radicale che disdegna i conforti dei condimenti, che rifiuta il vino (anche se bevanda sacra per eccellenza) e che spesso contesta il ricorso alla cottura, opponendovi strane pappine ottenute con cereali o legumi lasciati a macerare nell'acqua, quando non si propone la eliminazione totale del cucinare, accontentandosi di pane (offerto da qualche fedele che si spingeva a contemplare quegli strani phantasmata, più simili a demoni del meriggio che ad angeli), sale e poca acqua. Così, se ad un Sant'Antonio abate, stando al suo biografo Atanasio[4], fu sufficiente per raggiungere la tarda età assumere ogni due o addirittura ogni quattro giorni un tozzo di pane, un pizzico di sale ed acqua, per un Ilarione di Gaza furono necessari per varcare la soglia venerabile degli ottant'anni succo d'erbe, qualche fico secco, un po' di farina e, giunto agli estremi del permissivismo imposto dalla necessità biologica, poche gocce d'olio, come attesta la straordinaria "tabella dietetica" trasmessaci dal suo biografo San Girolamo:
... A partire dal ventunesimo fino al ventisettesimo anno, per tre anni di seguito si nutrì di un mezzo sestario (circa mezzo litro) di lenticchie ammollato in acqua fredda, e per altri tre anni di pane scondito, con sale e acqua. Quindi, a partire dal ventisettesimo fino al trentesimo anno, si resse mangiando erbe di campo e radici crude di certi virgulti. Ma dal trentunesimo fino al trentacinquesimo anno ebbe come cibo sei once (circa 160 gr.) di pane d'orzo e della verdura poco cotta, senza olio. E sentendo che i suoi occhi si annebbiavano e tutto il suo corpo era bruciato dalle croste e si contraeva per effetto di una scabbia che lo disseccava come pietra pomice, aggiunse dell'olio al vitto precedente, e fino a sessantatre anni di età procedette su questo livello di astinenza ... Quindi, vedendosi fiaccato nel corpo e credendo vicina la morte, di nuovo da sessantaquattro anni fino agli ottanta si astenne dal pane ... Si faceva una zuppa di farina e di verdura tritata, che pesavano, per cibo e bevanda, sì e no cinque once...[5].
Episodio della vita di San Girolamo, olio su legno del Perugino (1488 ca. - 1523).
Cibi "secchi e freddi", disseccanti, cui ci si affida per scampare alle tentazioni, prima fra tutte quella erotica che si nutre di cibi "caldi", ben conditi con grassi animali e spezie.
Anche se poi, e sta qui l'ambigua contraddizione dietetica degli anacoreti e delle sante, un siffatto regime anti-fisiologico finisce col provocare stati di insonnia e di allucinazioni (ben noti alle plebi, che non se ne gloriavano affatto e che si condannavano al girone infernale dei golosi ogni qualvolta potevano riempirsi in qualche modo la pancia) assai più pericolosi per la salvezza dell'anima di un arrosto e tuttavia seducenti e desiderati. Come non dimenticare le battaglie di Sant'Antonio contro lascivi demoni o quelle del discepolo Ilarione che, a forza di digiuni e veglie, viene "premiato" con allucinazioni visive ed uditive da cui si libererà solo, per chiari limiti di età, negli ultimi anni di vita?
Bistrattato ed angariato, il corpo si vendica, reclama soddisfazioni, suscita sogni, ingenera tentazioni, prima di arrendersi dinnanzi alla paradossale verità di mummie viventi che sfidano il secolo d'età. Fa fede San Romualdo, fondatore dei Camaldolesi, il quale raggiunse - stando alle dichiarazioni del suo biografo Pier Damiani[6] - la rispettabilissima età di centovent'anni grazie ad un'accurata dieta a base di "farinatella" (una pappetta ottenuta con poca farina mescolata ad erbe) e ceci lessi, il tutto condito da estemporanee incursioni olfattivo-gustative in cucina:
... E se alcune volte il piacere della gola lo solleticava col desiderio di qualche cibo più succulento (sic!), subito lo faceva accuratamente preparare, poi se lo accostava alla bocca e al naso, e prendendo solo l'odore diceva: "O gola, gola, quanto dolce, quanto soave ti saprebbe adesso questo cibo; ma guai a te! tu non ne gusterai giammai". E così lo rimandava intatto in cucina...[7].
Ma il corpo registra anche una sua ambigua vittoria: se da un lato gli anacoreti tebaici e i loro emuli dimostrano che si può vivere a lungo senza mangiare, suggerendo impensati trionfi sulla morte e proponendo un economicissimo elisir di lunga vita, dall'altro si ritrovano vittime consenzienti di un perverso piacere che trasforma l'astinenza purificatrice in peccato di orgoglio se non anche di gola.
Che così fosse lo intesero ben presto gli uomini della Chiesa, preoccupati da un lato dal proliferare di falsi digiunatori, che ricorrevano a geniali espedienti quali sacchetti di polvere di carne da sciogliere nell'acqua o candele "...formate con pasta di petti di galline e condita col zucchero e con la cannella...", e dall'altro dall'emergere dei repellenti exploits alimentari inaugurati da Caterina da Siena, inevitabile coronamento di un'alimentazione ribaltata che ha come suo precipuo fine quello di punire ed annullare non tanto la gola, quanto il corpo stesso.
Il digiuno femminile
Con Caterina da Siena e le sue compagne si entra nella sfera di quel delicato campo che è il digiuno al femminile; un campo in cui la sublime astinenza dal cibo sperimentata in Tebaide si trasforma in rovesciamento radicale e senza ritorno del codice alimentare, ormai concentrato quasi esclusivamente su alimenti-simbolo che hanno l'incontestabile merito di nutrire nella loro incorporeità. Qui realmente il digiuno si trasforma in "perverso piacere", poiché da cifra di percorso espiatorio del peccato originale diventa il "segno" di una diversità assoluta che translittera il linguaggio del corpo e del cibo in linguaggio di perfezione spirituale.
A differenza degli eremiti o dei monaci che avevano affidato la loro salvezza a modelli dietetici rigidissimi ed estenuanti che lasciavano però ancora un margine alla sopravvivenza, le sante abbracciarono tout court il regime dell'astinenza, sostituendo alla cucina terrena una cucina visionaria dominata da quella che si potrebbe definire la triade della alimentazione mistica: latte, sangue, pane divini. Invano i direttori spirituali, spaventati dagli ardori mistici e dalle visioni che raccoglievano, le invitarono a seguire gli avvertimenti formulati già nel V secolo da Cassiano, il quale consigliava una moderata astinenza, un'assoluta regolarità dei pasti, una dieta bilanciata, e poi ribaditi da un San Tommaso perfettamente conscio dei pericoli insiti negli eccessi anti-alimentaristici degli anacoreti:
...La macerazione del corpo non è accetta a Dio, se non in quanto è virtù; e per esser tale deve farsi con la dovuta discrezione, in modo da frenare la concupiscenza, evitando di aggravare troppo la natura...[8]
Peter Bruegel, La cucina povera, stampa da disegno (1563).
Decise a sottrarsi ad un destino che voleva relegarle nell'anonimato vuoi della famiglia vuoi del convento, queste donne operarono delle scelte di santità altamente individualistiche e "ribelli" in cui il rifiuto del corpo, sentina di ogni "immondezza" proprio in quanto corpo femminile, si spingeva fino a quella autodistruzione che proprio Ilarione aveva combattuto simbolicamente e pragmaticamente con poche gocce d'olio.
Per comprendere meglio questo atteggiamento, recentemente connotato in termini psicologici con la definizione di "santa anoressia"[9], occorre soffermarsi brevemente sul substrato culturale e sociale cui partecipano queste sante; un substrato che cronologicamente incomincia a manifestarsi con chiarezza esemplare a partire dal Duecento, quando appunto viene ad imporsi un modello di santità femminile di matrice laica, fondato sul rifiuto, più o meno dichiarato, del modello monastico dell'obbedienza alla regola e giocato sulla rivendicazione di una piena libertà individuale di ascesa mistica che meglio rispondeva ai bisogni emotivi e spirituali delle donne laiche.
Tale modello, potenzialmente eversivo in quanto espressione della volontà della donna di porsi come "persona" avente un ruolo positivo nella storia della salvezza, doveva però confrontarsi con un universo culturale che concordemente, sia sul versante clericale che su quello laico, non solo condannava il corporeo, ma vedeva nel corpo femminile lo strumento di dannazione per eccellenza, l'"osceno vaso" tollerabile e tollerato solo in quanto destinato alla procreazione. Figlia di Eva, la donna era giudicata una creatura sciocca, fisicamente e moralmente debole, incostante e dunque inetta ad elevarsi fino alla comprensione delle cose spirituali. A lei, dunque, era negata naturaliter la strada della santità, salvo che ella rinunciasse al suo essere donna (e dunque anche corpo) per riplasmarsi come pura anima silenziosa, soffocata nell'ombra di un chiostro. Paradossalmente, nonostante l'esempio mariano e gli sforzi compiuti dalle correnti popolari, la donna finì con l'accettare e condividere questa visione, di cui radicalizzò proprio l'aspetto più oscuro e negativo: il rifiuto della femminilità, del corporeo.
Convinta che il corpo fosse il "fardello osceno" che le impediva di essere solo "anima", l'involucro che andava distrutto e cancellato proprio perché vincola l'essere ai ruoli biologici e morali tracciati dalla natura e dalla società, la donna sognava per sé un corpo angelico, asessuato, riflesso esteriore di quella purezza interiore e di quella luce divina cui si sentiva partecipe. Da qui il suo rapporto di assoluta indifferenza verso il cibo, il suo rifiuto a nutrirsi, il suo scorporarsi e disseccarsi in attesa di una precoce morte liberatrice.
Un angelo, è evidente, non può nutrirsi che in absentia, in astrazione, anche se il linguaggio umano deve necessariamente ricorrere a metafore alimentari destinate a rimanere sospette, almeno ai nostri occhi di uomini contemporanei. Ecco allora nascere, accanto ad un regime terreno di miracolosi digiuni decennali, accompagnato da forzate alimentazioni che finiscono miserevolmente (e con manifesto sospetto dei padri spirituali) in rigetto espiativo, quando non sono notturne incursioni in phantasmata (dunque demoniache) nelle dispense conventuali, una dietetica "celeste" che concedeva al corporeo, al materico, solo la sottigliezza evanescente dell'Ostia, affidando al verbum (nello specifico, la sopra ricordata triade latte-sangue-pane) il potere soprannaturale di nutrire l'anima affamata.
Peter Bruegel, La cucina ricca, stampa da disegno (1563).
Mortificato sul piano, umilissimo e bollato come negativo, del terreno, il corpo si riprende la sua rivincita suscitando una fame insaziabile di Divino che può placarsi soltanto col cibarsi, metaforico (ma la metafora non corrisponde forse, nell'universo psichico, al segno traslato di un bisogno-piacere altrimenti non realizzabile?), del corpo e del sangue di Cristo.
Non c'è testo mistico in cui la santa, presa da un languore famelico, non sugga dal costato dello Sposo divino il latte-sangue (i due succhi vitali in cui Eros si unisce a Thanatos dando luogo a Bios), non si rinfranchi a contatto del crisma (l'olio consacrato che nutre senza ingenerare processi digestivi), non si sazi con l'ostia. Soprattutto quest'ultima, frammento di pane terreno che per il miracolo della transustanziazione si trasforma in carne divina pur conservando l'apparente sostanza terrena, possiede poteri nutritivi altissimi e straordinari, tanto da sostentare chi si nutre esclusivamente di essa. Così, ad esempio, la beata Angela da Foligno si nutrì ogni giorno, per dodici anni, del corpo di Cristo senza gustare altro cibo, mentre Benvenuta Boiani (1255-1292), caduta vittima di nausee atroci che le consentivano solo di ritenere qualche sorso d'acqua, sopravvisse per cinque anni nutrita, in emblemata, da un angelo che ogni giorno, a mezzogiorno, le recava un misterioso cibo celestiale; di certo quella stessa ostia, dolce come miele, in virtù della quale Santa Cristina:
... s'empiva di soavità l'anima e il corpo ... e dicea che nel ricevere questo divinissimo cibo, sentiva soave gusto, ché il corpo ne pigliava gran forza e l'anima mirabil allegrezza...[10]
Pane celeste, di cui la Chiesa stessa riconosceva ed insegnava le proprietà taumaturgiche (fomentando così, involontariamente, la proliferazione di credenze superstiziose e di impieghi blasfemi della sacra particola), l'ostia costituisce un paradosso alimentare altamente suggestivo: sottile, minuscola, quasi incorporea, essa consente la sublimazione del corporeo, pur conservando la sostanza del sangue e della carne del Salvatore, poiché nutre al di là dei processi organici di corruzione e del mutamento.
In virtù di essa, il corpo (ridotto a scheletro vivente su questa terra) riacquista, dopo la morte, quella freschezza e giovinezza che sono proprie di un corpo "santo", angelicato, come attestano le miracolose riesumazioni post mortem delle sante.
Al pari del sangue, fonte vitale per eccellenza, rigeneratore, nella medicina ufficiale come in quella popolare, delle forze perdute ed elisir di lunga vita, tanto da essere definito
... Medicina infallibile e certissima, ch'ogni incurabil morbo e ogni mortal ferita dell'anima risana...
l'ostia doveva apparire (soprattutto al popolino) come il pane magico che avrebbe sconfitto la fame, le malattie e la morte, la "pillola" portentosa che avrebbe liberato l'uomo dalle brutture del corpo, senza che per questo egli dovesse rinunciare agli impulsi terreni. Una sorta, insomma, di sublimazione delle mense imbandite nel mitico Paese di Cuccagna, di Paradiso della pienezza spirituale che viene a correggere gli abusi infernali e carnascialeschi del "basso materiale corporeo".
Nessuna meraviglia, dunque, se grazie a questo "pane angelico", in virtù del quale si annullava la cucina umana (e dunque, volendo forzare la lettura, anche i canonici ruoli femminili della donna sposa-madre), le mistiche abbiano scoperto uno spazio di inaudita libertà, di provocatoria trasgressione nei confronti della natura-società, destinato a schiudere nuovi e non certo ortodossi orizzonti nel campo del piacere. Profondamente partecipi agli stereotipi interpretativi della Chiesa ed all'immaginario collettivo del popolo cui appartenevano per nascita, queste donne cui la società negava un ruolo "attivo" (e dunque gratificante) seppero trasformare il modello della abstinentia-continentia (i due termini, propri della sfera orale e genitale, sono sempre interscambiabili nella trattatistica morale religiosa) in un universo di delizie sensitive che soltanto lo slittamento di codice interpretativo non rendeva sospetto ed insidioso.
Con loro il rifiuto del corpo, strumento di asservimento e di spersonalizzazione proprio perché costretto nella rete soffocante dei vincoli biologici, diventò momento di affrancamento e di realizzazione individuale, "segno" di un'esistere come "persona" (anche se scissa, perché tutta giocata sul piano intellettivo, sicché "persona" è essere solo anima e non fusione armoniosa di mente e corpo), ed il digiuno si impose come tappa inderogabile verso quella pienezza e sazietà interiore che, unica ed irrinunciabile, costituisce la cifra più sublime dell'essere umano.
Note
[1] Cfr. Tertulliano, De resurretione corporum.
[2] Cfr. Vieira, Sermons, vol. III, pp. 387-389 (predica per la quarta domenica dopo Pasqua), citato in J. Delumeau, Il peccato e la paura, Il Mulino, Bologna 1987.
[3] Cfr. J. Le Goff, La civiltà dell'Occidente medievale, Einaudi, Torino 1982; M. Montanari, Alimentazione e cultura nel Medioevo, Laterza, Bari, 1988.
[4] Cfr. Atanasio, Vita di Antonio, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano 1974.
[5] Cfr. Girolamo, Vita Hilarionis, in Vita di Martino. Vita di Ilarione. In memoria di Paola, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano 1975.
[6] Cfr. San Pier Damiani, Vita di S. Romualdo, Ed. Camaldoli, 1963.
[7] Cfr. San Pier Damiani, Vita di S. Romualdo, ed. cit., p. 119.
[8] Citato da G. Alberti, "Diaeta parca" e salute. Lineamenti psicofisiologici nelle antiche regole religiose, Hoepli, Milano 1955.
[9] Bell, La santa anoressia. Digiuno e misticismo dal Medioevo ad oggi, Laterza, Bari 1987; C. Walker Bynum, Holy Feast and Holy Fast. The religious significance of food to medieval women, University of California Press, 1987.
[10] Citato in P. Camporesi, La casa dell'eternità, Garzanti, Milano 1987, p. 191.