Paolo Aldo Rossi
Editoriale
Per molte persone i due termini,
malattia e malessere, significano, a grandi linee, la medesima
condizione o circostanza: lo star male (o meglio il sentire uno stato
di indisposizione) è ciò che consegue da una affezione o
per dire meglio dire da una patia. Ma è utile e necessario fare
una differenza fra ciò che le persone generalmente sentono (lo
stato di malessere), che è indice di un sintomo doloroso, cui
corrisponde la presenza di un processo patologico (la malattia).
La malattia può essere accompagnata da un malessere oppure no, tant'è vero che diverse malattie potenzialmente gravi sono spesso asintomatiche e, d'altra parte, il sentirsi male non è sempre il risultato di una malattia, come ben sa chi ha a che fare con le malattie immaginarie: "Quell' agente patogeno, - affermava M. Proust - mille volte più virulento di tutti i microbi, l'idea di esser malati".
Dichiarava Claudio Galeno: "Lo scopo dell' arte medica è la salute, il fine è ottenerla", il che è rimasto nel linguaggio comune dove le parole: "care, soin, cura, sorge, solicitud" etc. stanno per avere cura, o meglio a cuore, una data condizione, lo stato di salute, mantenerlo o riconquistarlo. "Non est vivere - affermava infatti Marziale - sed valere vita est". In sostanza, che vita è se vivi male. Si è asserito che la medicina è l'unica professione che lotta incessantemente per distruggere la ragione della propria esistenza: prevenire le malattie ed eliminare il bisogno del medico. Essa tende a d essere un’arte "che viene esercitata mentre sta attendendo di scoprirla" e una scienza che sempre aspetta di essere imparata e coltivata.
A differenza delle diverse "scienze", il cui fine è "istituzionalmente noetico, cognitivo (la conoscenza di ... ), la medicina sembra avere finalità eminentemente pratiche (la cura della salute e della malattia); generalmente, essa viene considerata un'arte fortemente connotata dalla perizia dell'artista (il medico), il quale attinge nozioni dall'emporio del sapere scientifico e abilità pragmatiche dal bagaglio delle tecnologie, raggiungendo i propri obiettivi con una corretta applicazione della scienza. Ortega y Gasset afferma che: "La medicina non è una scienza, ma una professione, è un fatto pratico che alla scienza si rivolge per sfruttare tutti quei risultati che le sembrano utili, ma che lascia cadere tutto il resto. E lascia cadere, in particolare, ciò che è più caratteristico della scienza, l'esercizio del dubbio e l'approccio problematico"; e R. Virchow: "La medicina pratica non è sempre la stessa cosa della medicina scientifica, ma piuttosto, anche nelle mani di uno dei più grandi maestri, una applicazione di essa"
C. J. Bumett dice: "Non riconosco alla medicina che un unica esigenza e non ne formulo che una sola: che guarisca", riprendendo in ciò l'insegnamento empirico di Sydenham, sulle cui orme si costituì la grande scuola medica inglese. Thomas Sydenham oppone infatti, sulla falsariga della classica polemica fra empirici e razionali, all'a-priori dei razionali l'aforisma di Celso: "Ars medica tota in observationibus."
Alla loro concezione della malattia come squilibrio funzionale (scompensi meccanici e chimici, alterazioni dei liquidi e lesioni dei solidi, sconcerto nella composizione delle minute macchine, impedimenti ai moti interni delle particelle ecc.) egli risponde con una nosologia in cui il morbo è studiato nelle sue particolarità ed accidentalità. In altre parole, alla terapeutica della medicina razionale derivata nel senso della consequenzialità logica dalla teoria biologica (nel caso in questione, dalla teoria meccanicistica del vivente) la medicina empirica oppone una terapeutica basata su descrizioni precise (per catalogazione e raggruppamento) dei sintomi, su puntuali cronache del decorso del morbo, a seconda della somministrazione di rimedi specifici, sulla costituzione di quadri clinici sempre meglio definiti All'esperimento viene opposta la semplice esperienza, in quanto la natura va osservata così come si presenta e non costretta entro gli angusti limiti della sperimentazione.
Alla concezione razionalistica della scienza, per cui sapere significa "dedurre entro la teoria", si oppone un uso restrittivamente pragmatico dell'induzione. Alla illusione di poter pervenire, per via speculativa, alla conoscenza del vero modo d'operare della natura si sostituisce la consapevolezza che l'umana conoscenza deve accontentarsi di descrivere ciò che è stato raccolto osservativamente. "L'arte della medicina - dice appunto Sydenham - può essere correttamente appresa solo dalla pratica e dall'esercizio".
P. Skrabanek e J. Mac Cormick affermano che: "In certo qual senso scienza e medicina sono agli antipodi, la scienza cerca una risposta sperimentale a quesiti generali, la medicina cerca una risposta specifica al problema specifico del paziente. Lo scienziato amplia le basi delle conoscenze comuni, il medico accumula esperienza personale. Mentre lo scienziato non fa che cercare problemi nuovi e smette di interessarsene quando sono stati risolti, il medico che ha trovato una soluzione è ben contento di specializzarsi proprio nell'applicazione di quella soluzione". Portata nel cuore della nostra epoca la disputa se la medicina sia un'arte (empirica) oppure una scienza (razionale), comporta ed implica conseguenze sulle quali è imprescindibile una serie di riflessioni.
In primo luogo la medicina, come d'altronde fanno le cosiddette scienze umane, ricorre a metodi e ad impianti epistemologici più simili a quelli della storiografia che a quelli della fisica. Una diretta conseguenza di questo fatto è il rischio del riduzionismo sia esso di contenuti che di metodi. In secondo luogo, se la modellistica teorica di riferimento della scienza medica è quella delle discipline empiriche, il conferimento di senso avviene, invece, sul piano delle teorie etico-filosofiche.
E' fenomeno di questi ultimi anni il fiorire di un interesse sempre più allargato, ma anche sempre più eterogeneo e confuso, per forme di medicina "altra" da quella propria della nostra cultura occidentale, quasi a chiedere "altrove" quello che la nostra cultura sembra non poterci dare. Si è assistito al proliferare di definizioni, che il più delle volte non corrispondono, non solo a precise teorie fisico-biologiche, ma neppure a ben definiti ambiti storico-antropologici. Inoltre oggi si sente maggiormente il bisogno di una medicina poco invasiva (tanto diagnostica che terapeutica), un maggiore rispetto per l'uomo (da parte del medico e delle istituzioni) e una maggiore attenzione all'ambiente e allo stato di salute dell'ambiente stesso. Da un lato vi è una disciplina che ricerca le cause fondamentali della malattia all'interno dell'organismo (approccio fondamentalista) e dall'altro una disciplina che studia la malattia secondo un approccio contestualista; ovvero ricerca all'esterno dell'individuo, nella popolazione, nella società, nell'ambiente esterno, nel contesto, la causa delle patologie.
Tale definizione nasce da un approfondito dibattito culturale e metodologico che non vuole certo rinnegare l'importanza e la necessità della medicina per così dire "accademica", ma che si propone piuttosto di individuare, studiare e verificare un complementare (non alternativo, si badi bene!) interpretativo-terapeutico, globale e non particolaristico, che ponga al centro del suo interesse non l'uomo-organo da curare, ma l'uomo nella sua integrità di mente-corpo. Da qui, pertanto, il bisogno di rivendicare alla medicina quel ruolo di arte capace di ricomporre un'armonia incrinata dal male che le era stato riconosciuto dalla cultura rinascimentale e che è proprio di tutte le culture che alla medicina hanno affiancato una rigorosa indagine filosofica sull'uomo. Se ci si colloca in quest'ottica, da cui purtroppo la medicina occidentale si è allontanata progressivamente, così come si è allontanata dal rapporto "affettivo" col paziente, si recupera una diversa visione del problema "salute". La malattia non ci appare più come una mera affezione interessante una parte del corpo umano, ma come la manifestazione di una condizione disarmonica generale di cui l'affezione è la manifestazione patologica più evidente. Parimenti il paziente sfugge al rischio di essere visto come "organo malato" e si propone al medico nella sua interezza di individuo.
Come ha ben evidenziato Foucault, la storia della medicina occidentale è metaforicamente la storia dello sguardo del medico che si posa sul malato: a seconda di come egli lo guarda, il malato si riduce a "corpo della malattia", organo separato su cui operare, o si impone come essere che soffre e a cui va ridata l'armonia.
E’ questo ultimo lo sguardo di un medico che non esercita "medicina delle malattie", ma pratica una medicina per e dell'uomo...
La malattia può essere accompagnata da un malessere oppure no, tant'è vero che diverse malattie potenzialmente gravi sono spesso asintomatiche e, d'altra parte, il sentirsi male non è sempre il risultato di una malattia, come ben sa chi ha a che fare con le malattie immaginarie: "Quell' agente patogeno, - affermava M. Proust - mille volte più virulento di tutti i microbi, l'idea di esser malati".
Dichiarava Claudio Galeno: "Lo scopo dell' arte medica è la salute, il fine è ottenerla", il che è rimasto nel linguaggio comune dove le parole: "care, soin, cura, sorge, solicitud" etc. stanno per avere cura, o meglio a cuore, una data condizione, lo stato di salute, mantenerlo o riconquistarlo. "Non est vivere - affermava infatti Marziale - sed valere vita est". In sostanza, che vita è se vivi male. Si è asserito che la medicina è l'unica professione che lotta incessantemente per distruggere la ragione della propria esistenza: prevenire le malattie ed eliminare il bisogno del medico. Essa tende a d essere un’arte "che viene esercitata mentre sta attendendo di scoprirla" e una scienza che sempre aspetta di essere imparata e coltivata.
A differenza delle diverse "scienze", il cui fine è "istituzionalmente noetico, cognitivo (la conoscenza di ... ), la medicina sembra avere finalità eminentemente pratiche (la cura della salute e della malattia); generalmente, essa viene considerata un'arte fortemente connotata dalla perizia dell'artista (il medico), il quale attinge nozioni dall'emporio del sapere scientifico e abilità pragmatiche dal bagaglio delle tecnologie, raggiungendo i propri obiettivi con una corretta applicazione della scienza. Ortega y Gasset afferma che: "La medicina non è una scienza, ma una professione, è un fatto pratico che alla scienza si rivolge per sfruttare tutti quei risultati che le sembrano utili, ma che lascia cadere tutto il resto. E lascia cadere, in particolare, ciò che è più caratteristico della scienza, l'esercizio del dubbio e l'approccio problematico"; e R. Virchow: "La medicina pratica non è sempre la stessa cosa della medicina scientifica, ma piuttosto, anche nelle mani di uno dei più grandi maestri, una applicazione di essa"
C. J. Bumett dice: "Non riconosco alla medicina che un unica esigenza e non ne formulo che una sola: che guarisca", riprendendo in ciò l'insegnamento empirico di Sydenham, sulle cui orme si costituì la grande scuola medica inglese. Thomas Sydenham oppone infatti, sulla falsariga della classica polemica fra empirici e razionali, all'a-priori dei razionali l'aforisma di Celso: "Ars medica tota in observationibus."
Alla loro concezione della malattia come squilibrio funzionale (scompensi meccanici e chimici, alterazioni dei liquidi e lesioni dei solidi, sconcerto nella composizione delle minute macchine, impedimenti ai moti interni delle particelle ecc.) egli risponde con una nosologia in cui il morbo è studiato nelle sue particolarità ed accidentalità. In altre parole, alla terapeutica della medicina razionale derivata nel senso della consequenzialità logica dalla teoria biologica (nel caso in questione, dalla teoria meccanicistica del vivente) la medicina empirica oppone una terapeutica basata su descrizioni precise (per catalogazione e raggruppamento) dei sintomi, su puntuali cronache del decorso del morbo, a seconda della somministrazione di rimedi specifici, sulla costituzione di quadri clinici sempre meglio definiti All'esperimento viene opposta la semplice esperienza, in quanto la natura va osservata così come si presenta e non costretta entro gli angusti limiti della sperimentazione.
Alla concezione razionalistica della scienza, per cui sapere significa "dedurre entro la teoria", si oppone un uso restrittivamente pragmatico dell'induzione. Alla illusione di poter pervenire, per via speculativa, alla conoscenza del vero modo d'operare della natura si sostituisce la consapevolezza che l'umana conoscenza deve accontentarsi di descrivere ciò che è stato raccolto osservativamente. "L'arte della medicina - dice appunto Sydenham - può essere correttamente appresa solo dalla pratica e dall'esercizio".
P. Skrabanek e J. Mac Cormick affermano che: "In certo qual senso scienza e medicina sono agli antipodi, la scienza cerca una risposta sperimentale a quesiti generali, la medicina cerca una risposta specifica al problema specifico del paziente. Lo scienziato amplia le basi delle conoscenze comuni, il medico accumula esperienza personale. Mentre lo scienziato non fa che cercare problemi nuovi e smette di interessarsene quando sono stati risolti, il medico che ha trovato una soluzione è ben contento di specializzarsi proprio nell'applicazione di quella soluzione". Portata nel cuore della nostra epoca la disputa se la medicina sia un'arte (empirica) oppure una scienza (razionale), comporta ed implica conseguenze sulle quali è imprescindibile una serie di riflessioni.
In primo luogo la medicina, come d'altronde fanno le cosiddette scienze umane, ricorre a metodi e ad impianti epistemologici più simili a quelli della storiografia che a quelli della fisica. Una diretta conseguenza di questo fatto è il rischio del riduzionismo sia esso di contenuti che di metodi. In secondo luogo, se la modellistica teorica di riferimento della scienza medica è quella delle discipline empiriche, il conferimento di senso avviene, invece, sul piano delle teorie etico-filosofiche.
E' fenomeno di questi ultimi anni il fiorire di un interesse sempre più allargato, ma anche sempre più eterogeneo e confuso, per forme di medicina "altra" da quella propria della nostra cultura occidentale, quasi a chiedere "altrove" quello che la nostra cultura sembra non poterci dare. Si è assistito al proliferare di definizioni, che il più delle volte non corrispondono, non solo a precise teorie fisico-biologiche, ma neppure a ben definiti ambiti storico-antropologici. Inoltre oggi si sente maggiormente il bisogno di una medicina poco invasiva (tanto diagnostica che terapeutica), un maggiore rispetto per l'uomo (da parte del medico e delle istituzioni) e una maggiore attenzione all'ambiente e allo stato di salute dell'ambiente stesso. Da un lato vi è una disciplina che ricerca le cause fondamentali della malattia all'interno dell'organismo (approccio fondamentalista) e dall'altro una disciplina che studia la malattia secondo un approccio contestualista; ovvero ricerca all'esterno dell'individuo, nella popolazione, nella società, nell'ambiente esterno, nel contesto, la causa delle patologie.
Tale definizione nasce da un approfondito dibattito culturale e metodologico che non vuole certo rinnegare l'importanza e la necessità della medicina per così dire "accademica", ma che si propone piuttosto di individuare, studiare e verificare un complementare (non alternativo, si badi bene!) interpretativo-terapeutico, globale e non particolaristico, che ponga al centro del suo interesse non l'uomo-organo da curare, ma l'uomo nella sua integrità di mente-corpo. Da qui, pertanto, il bisogno di rivendicare alla medicina quel ruolo di arte capace di ricomporre un'armonia incrinata dal male che le era stato riconosciuto dalla cultura rinascimentale e che è proprio di tutte le culture che alla medicina hanno affiancato una rigorosa indagine filosofica sull'uomo. Se ci si colloca in quest'ottica, da cui purtroppo la medicina occidentale si è allontanata progressivamente, così come si è allontanata dal rapporto "affettivo" col paziente, si recupera una diversa visione del problema "salute". La malattia non ci appare più come una mera affezione interessante una parte del corpo umano, ma come la manifestazione di una condizione disarmonica generale di cui l'affezione è la manifestazione patologica più evidente. Parimenti il paziente sfugge al rischio di essere visto come "organo malato" e si propone al medico nella sua interezza di individuo.
Come ha ben evidenziato Foucault, la storia della medicina occidentale è metaforicamente la storia dello sguardo del medico che si posa sul malato: a seconda di come egli lo guarda, il malato si riduce a "corpo della malattia", organo separato su cui operare, o si impone come essere che soffre e a cui va ridata l'armonia.
E’ questo ultimo lo sguardo di un medico che non esercita "medicina delle malattie", ma pratica una medicina per e dell'uomo...
Paolo Aldo Rossi, direttore scientifico di Anthropos & Iatria