Massimo Marra - saggista
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Il sogno della trasmutazione del piombo in oro attraverso la pietra filosofale, la guarigione da tutte le malattie per mezzo dell’elisir di lunga vita, non furono sempre le metafore simboliche del raggiungimento della realizzazione spirituale promessa dall’alchimia, ma costituirono spesso terreno fertile per le attività di speculatori, ciarlatani ed imbroglioni. Le vittime di questi raggiri, al contrario di quanto si pensa abitualmente, non erano solo villani incolti o sempliciotti, ma talvolta anche principi, potenti e persone di cultura. I truffatori, dal canto loro, erano spesso personaggi dotati di fantasia, cultura ed abilità fuori dal comune. (*)
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Non era certamente uno sprovveduto il principe Federico Cesi. A diciotto anni, con un pugno di compagni (lo Stelluti, l’Ecchio ed il Del Filiis) fonda l’Accademia dei Lincei, progetto di incredibile ricchezza culturale che lo accompagnerà, pur tra tragedie personali e difficoltà di ogni sorta, per tutta la vita. In corrispondenza ed amicizia con le maggiori menti del tempo (Della Porta, Campanella, Galilei, Imperato, Stigliola, Colonna, Schreck e molti altri) sotto l’ala del Cesi si svilupperà una delle più interessanti avventure intellettuali della storia occidentale. Che il principe fosse assai diffidente per le misteriose abilità alchimistiche di una sempre nutrita schiera di presunti maestri dell’Arte ed imbroglioni di ogni risma, non vi è il minimo dubbio. Del resto, che egli fosse in grado di difendersi dall’abilità di cialtroni di ogni risma, lo si può dedurre anche solo a partire dai suoi intensi contatti con intellettuali come quelli citati (e, particolarmente, con il gruppo dei napoletani, Della Porta, Imperato e Stigliola, tutti studiosi di alchimia). Né, d’altro canto, nei lincei romani mancava un non trascurabile interesse per la misteriosa scienza delle trasmutazioni. Da Napoli, Fabio Colonna, in una lettera del 1628, non si esimeva dal mettere in guardia l’amico linceo Stelluti intorno ad una esperienza di trasmutazione avvenuta in presenza di Giovanni Faber, ed in cui, più che miracoli alchemici, egli sospettava che vi avesse parte gioco de mano. E della sensibilità del Faber per gli studi alchemici abbiamo una testimonianza datata oltre tre anni prima (22 Marzo 1625) in una lettera di invito del naturalista romano al Principe Cesi: “…se domani doppo pranzo torna commodo a V.Ecc.za potremo andare a vedere il fumo philosophico che hanno messo su questi giovani; dove fu hieri sera anche Mgr. Ciampoli nostro con molti altri gentilhuomini, et io già diverse volte vi ho condotto il fiore d’alchimisti di Roma…”. Ma già tredici anni prima (in una missiva datata 16 Dicembre 1612) il Della Porta si peritava di informare il Cesi intorno a studi analoghi: “…Sto occupato né magiori affari che fusse mai. Qui in Napoli si lavora in più luoghi il lapis, e già in poco tempo s’è arrivato a far una sopra cinque in pochi giorni, et io ne sono quasi consapevole del tutto; so, questo può colmarmi di felicità per esser gionto a tanta altezza di secreti che spero non vi giongerà alcuno….” Pur essendo dunque ben presente tra i Lincei l’interesse per la pietra filosofale, il Cesi, tuttavia, se si mostrava assai interessato ed aperto intorno all’alchimia spagirica e distillatoria, per quanto riguardava la trasmutazione metallica doveva essere molto attento nel filtrare informazioni e dimostrazioni provenienti da fonti a lui non ben conosciute. Di tale diffidenza, abbiamo testimonianza in una lettera del Winther, medico del principe, che, ospite nel palazzo di Acquasparta, il 27 Aprile 1624 scriveva al Faber: “….Circa la Chymica, intendo dal vecchio che il Sig. Principe non vuol sentir cosa de metalli o transmutationi, ma solamente d’acque ordinarie, che in Germania sanno fare ancora le donnicciuole vecchiarelle; onde non so cosa che potrei veder di particolare…”. Forse, il Cesi, in merito alle presunte trasmutazioni di cui si sentiva da più parti, aveva, come molti suoi contemporanei, in mente ancora viva la storia dell’avventuriero cipriota Marco Bragadin. Marco Mamugnà (era questo il vero nome del Bragadin) era arrivato a Venezia con la sua famiglia in una data imprecisata tra il 1545 ed il 1551, dopo la caduta di Cipro nelle mani dei turchi. Assunse il cognome Bragadin in onore dell’eroe della repubblica Veneziana che aveva vittoriosamente guidato la città contro gli odiati invasori turchi. Giovane, lo incontriamo al seguito di un Girolamo Scotto, abile prestigiatore e chiromante, non scevro da interessi alchemici, da cui il Bragadin, probabilmente, apprende non poco. Nel 1574, lascia Venezia ed approda a Firenze, dove incontra i favori di Bianca Capello, discendente di una ricca ed autorevole famiglia. Bianca Capello, che sarà più tardi moglie di Francesco I De Medici, introduce il nostro avventuriero alla corte papale di Roma, mentre il Bragadin indossa l’abito cappuccino. Grazie alla Capello, il nostro alchimista conosce il cardinale Giulio Santori che lo presenta al papa Gregorio XII. Alla corte papale, dunque pare il Bragadin abbia iniziato la sua attività di alchimista truffaldino, e sono proprio i due summenzionati prelati ad essere vittime del suo ingegno. Fuggito dal convento, intorno al 1585 abbandona l’Italia, e viaggia per Francia, Inghilterra e Fiandre, in una rocambolesca sequenza di truffe alchemiche che coinvolgeranno ricchi e potenti ingenui, e che gli frutteranno ingenti somme di denaro. Ritornato in Italia nel 1588, si stabilisce sul lago d’Iseo, ma viene ben presto raggiunto dagli emissari dell’Inquisizione che vogliono catturarlo come ex-cappuccino fuggitivo. Salvatosi con una fuga notturna dalla finestra inizia un peregrinazione in vari centri Italiani, circondato da una piccola corte che lo segue ovunque. Inizia la serie di dimostrazioni pubbliche (in genere davanti a ristrette cerchie di testimoni) con cui la sua fama si accresce progressivamente fino a giungere alle orecchie dell’attento governo veneziano. Nel novembre 1589, ufficialmente invitato dal governo della città, il Bragadin arriva a Venezia e si stabilisce nel bellissimo palazzo Dandolo messo a disposizione dal Consiglio della Città. Lo splendore e l’ostentazione di ori e danaro colpiscono la fantasia popolare, mentre la sua fama di alchimista in possesso del segreto della trasmutazione e della medicina universale, attraversa l’Europa.
Il bravo Mamugnà, garantisce i suoi servigi alla Serenissima, e, dimostrando buona volontà deposita la formula del suo oro, insieme ai campioni della sua polvere di proiezione, nella zecca veneziana. La zecca analizza i campioni d’oro provenienti dalle sue pubbliche trasmutazioni, e l’esito delle ripetute analisi è positivo. Quando il Governo veneziano chiede di stringere i tempi, però, il Bragadin temporeggia, e, a un certo punto, pressato dai debitori e osteggiato da una pubblica opinione che nota la progressiva diminuzione del fasto e della magnificenza fino ad allora ostentati, il Bragadin si dà alla fuga, prima a Codevigo, presso i Cornaro, suoi amici e sostenitori, poi a Padova, e di lì, dopo aver congedato il suo seguito, a Bassano ed Innsbruck, fino alla Baviera, dove il suo arrivo era stato evidentemente preparato dall’agente veneziano del duca Guglielmo V di Baviera. Qui, accolto con tutti gli onori, riprende il già sperimentato copione veneziano, ricominciando la fastosa ostentazione e le ingenti spese in costose attrezzature ed apparecchi alchemici. La sua corte si ricompone, e viene anche raggiunto dalla sua amante Laura Canova. Il tutto, naturalmente, a spese del duca Guglielmo. Già a Venezia egli aveva tentato, attraverso le sue amicizie, di ottenere la dispensa dai voti per sposare la Canova, ora, forte della sua nuova posizione, riprende le trattative anche dalla Baviera. Ma le voci delle sue rocambolesche avventure non tardano ad arrivare all’orecchio del duca Guglielmo, e, sicuramente, ad insidiare la sua posizione non dovettero mancare i nemici sia tra la nobiltà che tra il clero zelante e ben informato. In tal modo, nel 1591, il Bragadin viene arrestato con l’accusa di truffa, nell’indifferenza totale del Duca Guglielmo, probabilmente in virtù di sapienti macchinazioni dei gesuiti. Il furbo alchimista truffatore rende una completa ed assoluta confessione, ed evita in questo modo la tortura: non sa’ nulla di come si possa fabbricare l’oro, tutte le sue dimostrazioni sono truffe e giochi di mano di cui è pronto ad assumersi tutta la responsabilità. Ma l’astuta mossa del pentimento e della confessione non lo salva dalla condanna, per intercessione del duca commutata dalla forca ad una più pietosa decapitazione, eseguita pubblicamente a Monaco il 26 aprile 1591, davanti ad una grande folla di curiosi. La stella dell’abile truffatore si inabissava così nell’ignominia della morte per decapitazione, ma la scia e la eco delle sue gesta rimasero a lungo nella memoria popolare e nell’immaginario dei contemporanei. Che fosse per la memoria delle truffe del Bragadin, o per una più articolata e motivata personale sfiducia nelle macchinazioni di soffiatori ed imbroglioni, comunque, il colto principe Cesi, interessato fortemente all’alchimia spagirica, era, come abbiamo visto nella lettera del Winther, assai diffidente verso gli adepti dell’alchimia trasmutatoria. Particolare valore assume, a questo punto, l’interessamento, testimoniato da alcune lettere del suo carteggio, per le dubbie macchinazioni di un misterioso alchimista di stanza a Pozzuoli, vicino Napoli, città in cui il Cesi aveva alcuni tra i suoi più stimati lincei. Si tratta di un misterioso prete, Giovanni Giacomo di Costanzo, del cui carteggio con il Principe Cesi ci rimangono poche lettere autografe, essendosi del tutto smarrite le risposte del Cesi. Del prete non sappiamo nulla. La sua unica traccia storica è appunto costituita dal carteggio con il Cesi. Carteggio, che, sicuramente, non doveva essere ignorato da altri lincei, che funsero anzi talvolta da intermediari e messaggeri per le lettere del principe (1). Il primo contatto di cui abbiamo notizia risale al 14 settembre 1625, data in cui è redatta la prima delle lettere dallo stile linguistico arruffato ed approssimativo del Di Costanzo. “…Fra i miei penitenti – ci racconta il Di Costanzo (2) – n’ho avuti un greco cognato del nostro Vescovo, valentisimo huomo, espert’in molte scienze, stimato da molti Principi, espertissimo nell’arte chimica…”. Il valente alchimista, secondo quanto raccontato nella missiva, stringe una profonda amicizia con il Di Costanzo, e gli rivela tutti i suoi segreti alchemici. Anzi, il Di Costanzo viene ammesso alla pratica nel laboratorio dell’alchimista, e diviene il suo aiutante fidato, pur fingendo di dileggiarne la scienza (che, pare, era la stessa che il padre del sacerdote aveva per anni perseguito). “…Di lì a certi dì – continua il Di Costanzo - venne da me costui molto sdegnato, pregandomi l’havess’agiutato con il Sig. Duca di Madaluni, perché detto Duca havea fatto scalar la camera sua, et havea fatt’intrar un creato (3) per la finestra, et l’havea fatto levar tutti li suoi scriti de’ secreti. Fui dal Sig. Duca, et di bel modo andai descrivendo il termine usato; insomma dopo molti successi, mi disse serìa andato in Napoli et haveria fatta diligenza ritrovar quelli scritti; andò et fe diligenza, et mi scrisse per un corriero che m’haveria mandati tutti li scritti…”. Ma il recupero degli scritti dell’alchimista, trafugati dal Duca di Maddaloni, non conclude la nostra storia. Infatti, l’attonito Di Costanzo continua “…Credea haver fatto cosa gratissima all’amico con darli questa nuova, et lui più si sdegnò, et piangea dirottamente; cercai saper la causa di questo suo rammarico, et con gran forza mi disse che quella sua operatione l’era andata prospera et havea fatt’il lapis, qual havea conservato per far la multiplicatione, et quel creato con rubbar li scritti non han conosciuta quella materia, et non sapea se l’havessero buttata o pigliata; ve ne restorno da 4 acini. Al bravo prete, la rivelazione dovette sembrar ghiotta! Continuando il suo racconto al Cesi, il Di Costanzo riporta: “…Io volsi veder la proiectione, et un acino di quelli ridusse mez’onzia di Mercurio volgare in oro finissimo: il mercurio fu comprato da me, et la proiectione la feci con le proprie mani miei, lo feci una volta io solo, un’altra volta con il Vescovo; et infine la cartolina dove stava involta la materia, perché stava macchiata da quella, indusse poco meno d’una quarta di Mercurio in oro; et questo fu in presenza del Sig. Vicario di Pozzuoli suo figlio. Questo secreto è in mio podere, il portai in Roma per farlo veder a V. E. s’era a suo gusto, m’accorsi poi che V. E. volea uscir da casa,; non mi parve tempo infastidirla…”. Naturalmente, l’esaurimento delle scorte di Mercurio di Saturno, rende al momento impossibile il ripetersi dell’esperienza innanzi al Cesi. Purtuttavia, il prete assicura che “…ho tenuto pensier di ritrovar detto Mercurio di Saturno qui in Napoli; et con il Mercurio et il Secreto venir a baciar li piedi a V. E.; ma fin ad oggi non l’ho possuto haver, con haver fatta tutta la diligenza possibile; né lascio farla…L’amico che mi donò detto secreto, cava Mercurio d’ogni sorta di metallo…”. Se il Cesi conosce qualcuno in grado di fornirgli il mercurio, il Di Costanzo è pronto ad eseguire la proiezione davanti al principe. Il misterioso alchimista di origine greca, a quanto pare, per rifornirsi di materie prime, per il momento è a Lecce, ma presto dovrebbe rientrare in quel di Napoli. Del resto, come si evince da un allegato alla lettera oggi disperso, opera, stando al prete, di un valente lettor d’astronomia, anche quest’ultimo misterioso personaggio pareva essere entrato, per il passato, in possesso della pietra meravigliosa. Di pietre filosofali, in quel periodo, a Napoli, dovevano girarne in discreta quantità…. Nelle missive successive (una del novembre 1625 ed una del marzo 1626) non vi sono nuove mirabolanti descrizioni e racconti, se si eccettua la trasmissione di un ulteriore secreto del Cinabrio mediante il quale produrre purissimo Argento. Questo Argento, sarebbe potuto essere convertito a sua volta in oro, ma l’alchimista greco aveva premura di partire, e l’operazione fu così rimandata. Risale al 15 maggio 1626 l’ultima missiva del Di Costanzo, che narra del rientro a Napoli del misterioso adepto, degli allettamenti della nobiltà napoletana al fine di scoprire il mistero della pietra, dei netti rifiuti dell’alchimista che inficiano anche i rapporti con il parente vescovo. Il Di Costanzo però rassicura Cesi che l’opera verrà messa in essere a breve, ed il principe ne sarà prontamente informato e potrà assistervi. A partire da tale data, non sappiamo più nulla di questa misteriosa proiectione napoletana dell’adepto greco, né degli ulteriori sviluppi dei rapporti tra il Cesi, il misterioso alchimista greco ed il prete-alchimista Di Costanzo. Non è però difficile immaginare una repentina ed inaspettata scomparsa del misterioso adepto greco, colorita magari da un adeguato alone di mistero, che avrebbe sortito il sicuro effetto, in qualsiasi ipotesi, di trarre d’impaccio il prete e rassegnare il principe. Ma se, come abbiamo visto, nell’Italia seicentesca, il sogno dell’oro ottenuto per via filosofale attirava avventurieri greci, preti e principi, doveva essere ben chiaro che l’alchimia e le sue applicazioni offrivano possibilità praticamente illimitate per il reperimento di oro volgare, quello facilmente ottenibile con la truffa, il raggiro e l’imbonimento. Senza, magari, i rischi e le difficoltà derivanti dall’interessamento eccessivo e malevolo dei potenti, dall’infinito rimando e posposizione di complicate dimostrazioni sperimentali e pubbliche dimostrazioni, contatti con sospettosi studiosi ed interminabili disquisizioni teoriche. A questo fine, indubbiamente, il mercato mutevole e virtualmente infinito degli elixir vitae reperibili nelle spezierie, doveva essere assai interessante e gravido di stimolanti aspettative.
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Mentre infatti il Di Costanzo organizzava le sue trasmutazioni e tentava di irretire lo spirito inquieto e curioso del Cesi e, con ogni probabilità, dei suoi celebri lincei napoletani, una figura altrettanto interessante si affacciava sulla scena scientifico-alchemica della città, riscuotendo, stando alle tracce oggi in nostro possesso, un discreto successo pubblico. Girolamo Chiaramonte, siciliano cittadino della nobile città di Lentini, non aveva ereditato l’abilità retorica di quel Gorgia che tanti secoli prima aveva dato lustro alla sua città natale, ma aveva indubitabilmente tratto dalla lettura del Gorgia platonico preziose indicazioni sul valore inestimabile della doxa, l’opinione, e sul ruolo fondamentale della retorica (4) – che qui si colora, come vedremo, dell’arte preziosa e mirabile dell’imbonitore o, forse, più correttamente, del pubblicitario ante litteram – quale radice e scaturigine dell’opinione salda ma priva di qualunque fondamento scientifico. L’intuizione fondamentale del Chiaramonte, in effetti - ed in questo non abbiamo dubbi nel definire il nostro assolutamente geniale - è il valore della pubblicità sistematica sapientemente unita al senso del coup-de-theatre da consumato imbonitore, in cui abilità e fortuna contribuiscono in egual misura alla riuscita del progetto. |
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Ma andiamo avanti con ordine.
Non abbiamo grandi notizie sul Chiaramonte, sul suo casato e sulle sue origini. Manca una ricostruzione storico-archivistica che ci delucidi sui suoi passi giovanili, sulla formazione etc.. E’ certo però che il patronimico Chiaramonte è uno dei più diffusi della Sicilia, ancora oggi, e che non manca di nobiltà e di storia. Basti pensare a quei Chiaramonte - pare, di origine normanna, e discendenti di Carlo Magno - che tra la fine del XIII secolo e quella del XIV, ressero le sorti di ingenti possedimenti che andavano dalla Contea di Modica e Ragusa, fino a vasti terreni della Marca Anconitana. A partire da Manfredi I Chiaramonte, il potere del casato si consolida ininterrottamente per tutto il corso del XIV secolo, tanto che quel periodo di storia siciliana viene talvolta ricordato come “periodo chiaramontano”, e che perfino una variante dell’architettura normanna reperibile in varie città della Sicilia ha talvolta preso il nome di “stile chiaramontano” (ad es. il Palazzo Chiaramonte Steri di Palermo). La fortuna dei Chiaramonte termina bruscamente nel 1392, con Andrea Chiaramonte, condannato a morte e decapitato per aver capeggiato una coalizione antiaragonese. I Chiaramonte, a partire da tale episodio, vengono privati di tutti i possedimenti e poteri.
Non sappiamo se il nostro Girolamo, alchimista emerito – a suo dire – e guaritore di sofferenti, fosse o meno imparentato con tale illustre casato feudale. Fatto sta che la sua dichiarata città di provenienza, Lentini, fu proprio la roccaforte e possedimento privilegiato di Manfredi di Chiaramonte.
Abbiamo però, in compenso, notizie abbastanza particolareggiate – notizie che Girolamo stesso ci fornisce nelle sue opere - della sua ascesa e fioritura di guaritore itinerante, dispensatore della sua miracolosa panacea o elixir vitae.
Per avvicinare il prodigioso elisir ridotto in polvere o Belzuar minerale (5), ci sono utili due opere: Il Trattato di Girolamo Chiaramonte siciliano di Leontini vero autore et inventore delle poveri bianca et cinerica dette elixir Vite (Genova, per Gioseppe Pavoni 1628) (6) ed un compendio di quest’opera, uscito a Napoli nel 1633 per i tipi di Roncagliolo, col titolo di Compendio di Gieronimo Chiaramonte siciliano della fecondissima città di Leontini, del suo elixir vitae ridotto in polvere cinerita e belzuar minerale cavato dal detto elixir. La prima opera, assai più voluminosa, è dedicata a Lorenzo de Medici, mentre la seconda, napoletana, è dedicata al principe Tiberio Carafa, discendente di una delle più potenti famiglie del Viceregno.
Proprio il Compendio, una versione riassunta del voluminoso Trattato, è forse una buona guida per comprendere rapidamente le stupefacenti e mirabolanti proprietà della polvere citrina di Chiaramonte. E’, infatti, a detta dello stesso scopritore, quest’ultima ad essere sommamente più efficace è potente, nonostante anche la bianca abbia ampie ed importanti facoltà curative. Nella tavola anteposta al testo del 1633, il Metodo universale delli mali che guarisce la polvere cinerita, seu elixir vitae di Girolamo Chiaramonte, et in quanto tempo, e di quelli mali che giova et non sana, infatti, apprendiamo che, per quanto riguarda le donne, la polvere miracolosa favorisce la fertilità, previene l’aborto, elimina le difficoltà di parto, induce la secondazione, l’espulsione dei feti abortivi, l’inappetenza e la nausea delle gravide. Ma queste, che casualmente abbiamo elencati per prime, sono solo applicazioni trascurabili in rapporto alla gran massa di malanni che, grazie alla polvere citrina, si possono avviare a sicura e fausta risoluzione. La polvere risolve l’emicrania, guarisce ogni febbre, risolve l’itterizia, i tumori di vario genere, il mal di canna, lo sputo di sangue, i dolori di stomaco, le coliche, l’incontinenza, la stitichezza, le ventosità, le calcolosi (arenelle o pietre nelle rene), l’ardor d’orina, i dolori d’ogni genere e, cosa da non sottovalutare dati i tempi, guarisce il terribile “mal francese con dragoncelli (7), tarole et piaghe in qualsivoglia parte della vita”.
Ma non pensi, il lettore sospettoso, ad ingiustificato entusiasmo per le virtù terapeutiche dello stupefacente polifarmaco. Chiaramonte è uno studioso equilibrato, e sa che vi sono malattie inguaribili, di fronte a cui la scienza medica non può nulla. In questi casi, naturalmente, il puro elixir, per quanto mirifico e possente nella sua virtù terapeutica, non può assicurare la guarigione assoluta e completa. Così Chiaramonte precisa che: “quelle persone che patiscono di questi mali incurabili, come sono tisici, ethici, hidropici, malcaduco, hasma, paralitici, frenetici podagrosi et chiragrosi, che ancorché habbiano pigliato la mia polvere per due o tre mesi continui, non l’ho visto mai guarire, ma giovatali...”. I dolori, comunque, diminuiscono, la flussione è ritardata, le giunture malate fortificate, e “tenevoli lo corpo ad obedienza”.
Ogni patologia ha la sua posologia, il suo modo d’uso, la sua via di somministrazione, i suoi complementi terapeutici.
Per la retenzione de mestrui femminile, ad esempio “...piglierà l’inferma una presa della polvere per sette giorni la mattina con brodo di ceci rossi ove siano cotti un poco di puleggio et pimpinella, con un pochetto di cannella, et la sera con vino bianco, et doppo li sette giorni lasciando il brodo sopradetto seguirà con vino bianco sera et mattina per lo spatio di trenta giorni, che ci verrà la purga et guarirà...” (Compendio, pag. 92).
Per problemi emorroidari (“sono alcuni che quando fanno il servitio del corpo li esce fora l’istentino con sangue, ò marcia ò acqua viscosa et altri mali effetti....”) invece, oltre ad assumere per 50 gg. la polvere mattino e sera in vino annacquato, il paziente dovrà effettuare localmente delle bagnature con un asciugamano ben imbevuto di “...Latte fresco calbiato con una mezza presa della mia polvere”. (Comp. pgg. 87-88)
Del resto, la povere viene presentata in diverse forme farmaceutiche. A richiesta, essa infatti diviene un impiastro che il Chiaramonte commercializza già pronto.
Gli affetti dalle piaghe purulente del Mal Francese “verranno o manderanno da me che li darò l’empiastro fatto della detta polvere et il modo di guarire li dragoncelli con detto empiastro, senza farsi ammollamenti né aprirli con ferri, né oprarci... perché detto empiastro ha la facultà di concuocere et mollificare et tirar fuori et aprire, et tenerlo aperto da sé, et siccarlo senza altro artificio di Chirurgo...”. (Comp. pag. 83)
Nel contagioso mal di canna, che colpisce il regno di Napoli periodicamente, il Chiaramonte ha osservato che “...in detto morbo non cavar sangue né toccar le fauci con spirito di vetriolo o d’altri corrosivi, ma solo con darli di sei in sei hore una presa del mio Elixir in acqua d’orzo, et gargarismi spessi di detta acqua ove ci sono due prese di detta polvere dissolute, et quando si vede la bianchezza ò altro nelle fauci dell’infermo, ci fò tirare ogni tre hore soffiando con un cannoletto la mia polvere, che subito si attacca sopra la materia putrida et la concuoce, et la va cacciando per sputo o per altra strada....et per purgarlo se li fa un servitiale commune con due prese di polvere et 3 oncie di Rodonel (8) dentro ogni sera... “ (Comp. pag.76).
Non sappiamo esattamente quanti e quali fossero i risultati terapeutici del servitiale a base dell’elixir, ma possiamo senza grandi sforzi immaginare mirabilia....
Nello sputo di sangue, invece, la povere si prenderà sciolta in acqua di portulaca o brodo, la mattina avanti pranzo, e la sera doppo cena, in ragione di una presa per somministrazione. In più diverse volte al giorno “...si piglieranno due prese di detta polvere con tanto zucchero pistato, et mischiati insieme di quando in quando l’infermo ne pigliarà un cucchiarino, et tenendolo in bocca che si solverà, ... in 20 o 30 giorni al più ricupererà la salute...” (Comp. pag 77).
Naturalmente, l’equilibrato e sobrio Chiaramonte non ha intenzione di esaltare più del dovuto la sua opera. In realtà, probabilmente, esiste un farmaco che potrebbe possedere qualità superiori a quelle del suo belzuar minerale o polvere: è il Lapis Philosophorum degli alchimisti, la pietra della trasmutazione degli elementi vili in oro lucente, la panacea divina che sana ogni male e guarisce ogni piaga. In realtà, tuttavia, “... ogni principe non può in rerum natura trovare miglior medicamento né più nobil medicina di questo mio Bezuar, né si può hoggi più sperare nel Lapis, che senza dubbio avanzeria questo mio Bezuar, poiché o non si trova, o chi lo fa non lo palesa ad altri ...”.
Il belzuar, in sostanza, vince la partita per l’irreperibilità del Lapis.
Si sa, il successo di un prodotto è sempre legato alla capillarità della distribuzione.....
Naturalmente il richiamo al lapis degli alchimisti non è causale. Anche la polvere del Chiaramonte si basa sui principi ermetici ed alchimistici del lapis, “...tanto più che questo mio Bezuar è ramo del Lapis et l’esperienza lo mostra chiaro, né a me è lecito dir più....”.
Il lettore si interrogherà, ovviamente, sulla composizione di una tale panacea, così misteriosamente imparentata con la segretissima pietra di proiezione dei filosofi ermetici.
Sfortunatamente, sulla faccenda della composizione del polifarmaco, il Chiaramonte è abbottonatissimo.
Il quarto capitolo del Trattato si diffonde profusamente sulla “qualità dell’ingredienti che costituiscono il mio elixir e degl’effetti mirabili che derivano naturalmente da quelli...”, ma le notizie che possiamo trarre da queste pagine, al riguardo delle sostanze coinvolte nella preparazione, sono almeno generiche e fumose.
Quattro, a quanto pare, sono gli ingredienti fondamentali.
Il primo “...ha in sé quasi le qualità celesti, e che per la nostra vita non si può consigliar cosa meglio che le qualità di questo minerale (quali per l’invidia i dotti antichi l’hanno occultate, come dice Arnaldo) poiché con la sottigliezza della sua sustanza, le fibbre delle parti solide de’ nostri corpi può profondamente penetrare, e per tutto il corpo sporgersi,e con la sincerità del suo temperamento può svegliare il calor naturale e mantenerlo, e con la propria densità e tenacità può rendere l’humido radicale più sodo e forte.... e di più col suo calore quasi celeste può corroborare tutte le virtù... et i Principij di quelli come è il fegato, il cerebro e specialmente il cuore, fondamento della nostra vita....”. Questo ingrediente misterioso “...dissolve le superfluità del sangue con la sua gravezza, le fa cascare abbasso e la sostanza di quello col suo splendore illustra, et havendo dal sole la purità e candidezza, e da Giove il temperamento, genera spiriti Solari e Gioviali, quali mischiati col sangue....rinovano l’habito della carne”. (Trattato pagg. 17-18)
Il secondo ingrediente è invece di temperamento freddo e secco. Agisce contro l’imputridimento, ed è anche rimedio, dunque, “...alla palpitatione del cuore causata ò per la grassezza o torbidezza di spiriti, ò per vapor venenosi che offendono la virtù vitale e l’istesso cuore... “.
Il terzo ingrediente è caldo e secco, e, preso per bocca, “... ha virtù di incidere et estenuare gl’humori crassi, viscosi, più gagliardamente che non fa il sale...”. Con la sua sottigliezza libera vasi e meati dalle viscosità superflue, “...così parimente le viscere ostrutte libera, et espurga gli humori pituitosi e crassi del torace e pulmone....”, ma agisce beneficamente anche sull’udito, sui nervi, sulle verminosi, “resiste al morzo de’ cani (!) et al sangue taurino”, stimola la diuresi e cura la sterilità.
Il quarto ingrediente è anch’esso caldo e secco, e, manco a dirlo, presenta un ventaglio di applicazioni terapeutiche anche più vasto dei precedenti, agendo senza fallo in una quantità di stati patologici diversi che vanno dai “vermi grassi” (9) ai calcoli ed all’epistassi nasale, dalla lebbra fino all’azione di antidoto per l’avvelenamento da funghi.
Il temperamento in prevalenza secco degli ingredienti, viene temperato dall’infusione di “...un’acqua la quale ha virtù di scaldare et humettare, e per consequenza di operare né corpi nostri riscaldando et humettando...”.
Brueghel il Vecchio
(1525-1569), Un alchimista al lavoro
Tanti effetti terapeutici apparentemente diversi e contrari, si rende ben conto Chiaramonte, possono facilmente indurre in dubbio e confusione il lettore. La risposta a tali dubbi, tuttavia, è semplice. Le diverse e contrarie virtù curative dei vari farmaci costituenti la formula dell’elixir, non si annullano tra loro, né si contrappongono in alcun modo. Un tale fenomeno di neutralizzazione reciproca potrebbe “... esser vero delle qualità attuali, ma non già delle potenziali....”. Inoltre è da considerare che nel composto una nuov virtù unificante si sovrappone a quelle dei singoli farmaci. Tale vis unificante, che è data dalla sommatoria delle singole virtù terapeutiche, ne conserva in potenza tutte le proprietà terapeutiche. Ed è la guida infallibile della natura che coordina sinergicamente le sole potenzialità curative utili, portandole all’atto. (10)
Per il resto, per quanto riguarda l’elixir, poche sono le notizie offerte alla curiosità del lettore. Si sa che il prodotto non è nocivo, che è composto di minerali “…ma preparati et purgati..” in modo da non nuocere. D’altro canto, per chi volesse approfondire, il Chiaramonte, nel Compendio, non manca di tendere la mano : “…Et perché dicono alcuni che questo medicamento è terra semplice, ò pietra, et che non consta di preparatione et compositione alcuna, io per chiarezza di ogni uno, offero ad ogni Signore, ò altro che vorrà chiarirsene, di dimostrargli in atto tutti li quattro ingredienti separati, con la terra ed acqua sua… Ma avvertasi ch’io per questa demonstrazione ne voglio premio grande, perché si palesa e si vede apertamente tutto il magistero, et manipulatione del mio secreto…”. (Comp. pag. 14)
Ben al di là dell’arte truffaldina ma ingenua dell’imbonitore di folle da piazza, che ammannisce le proprie mercanzie al popolino, ed a questo, notoriamente di “bocca buona”, affida prudentemente le proprie fortune, la carriera del Chiaramonte è costellata di successi eclatanti, in cui abilmente – e, bisogna dire, coraggiosamente - il nostro coinvolge le istituzioni mediche e scientifiche, e che rimangono attestati da personaggi illustri ed al di sopra di ogni sospetto.
Chiaramonte rischia, e, a quel che ci è dato sapere, vince.
Cerchiamo dunque di seguire, sommariamente, la carriera che Girolamo stesso, nel riportare dichiarazioni autografe di guarigioni ed attestazioni di protomedici e fisici pubblici, unitamente alle autorizzazioni alla dispensazione ed alla vendita ottenute nei diversi reami, si preoccupa di tratteggiare passo per passo nelle sue opere.
L’avventura comincia a Messina nel 1618, dove lo spagirista ottiene dal protomedico l’autorizzazione a medicare con la sua polvere, ottenendo successi, a quanto pare, mirabolanti. Viene dunque autorizzato alla dispensazione pubblica del suo preparato, e la sua fama comincia, lentamente a diffondersi. In seguito”…residente in Messina, fui pregato di venire in Napoli per la salute di Fra Giulio De Falco, in quel tempo recevitore di Malta in detto Regno…”. Il De Falco guarisce in breve tempo. La cura del Chiaramonte, accolto, pare, a braccia aperte, dall’Ordine di Malta di Napoli, suscita dunque un certo scalpore, al punto che, nel 1619, la Gran Corte della Vicaria, su richiesta dello stesso Chiaramonte, istituisce un pubblico processo per raccogliere testimonianze sull’efficacia dell’Elixir. Testimoniano, a decine, i cavalieri di Malta, guariti da ogni sorta di malanni, insieme a molti gentiluomini napoletani (in tutto una quarantina di testimonianze). Dopo tale trionfo la polvere viene pubblicamente usata, con l’autorizzazione delle autorità competenti, nell’ospedale dell’Annunziata su differenti gravi patologie (2 morti su 15 trattamenti: un record rilevante per gli elixir del tempo…).
Espugnata, per così dire, Napoli, al Chiaramonte non rimane che lavorare fattivamente all’esportazione del suo polifarmaco. E, particolarmente vicino ed in ottimi rapporti con la corte napoletana, è, tradizionalmente, il Granducato di Toscana. (11)
Il nostro eroe arriva in Firenze nel 1620. Anche qui si ripetono esperienze pubbliche, all’ospedale di Firenze, non dissimili da quelle già avvenute all’ospedale dell’Annunziata di Napoli, che segnano un discreto successo pubblico della polvere. Qui il metodo del Chiaramonte viene messo a confronto con quello dei medici dell’Ospedale di S. Maria la Nova. Per ordine di Cosimo, di 16 ammalati, otto vengono curati dal Chiaramonte ed otto dai medici dell’ospedale. Gli otto pazienti del siciliano sono affetti da diversi tipi di febri ed hanno un’età compresa tra i 14 ed i 61 anni. Sei, con un periodo di assunzione della polvere che va da 15 a 45 giorni, guariscono. Due, ribelli ad ogni cura, muoiono. Avendo riguardo ad un tale eccezionale risultato, il lettore non stupirà certo nel venire a sapere che, degli otto, pazienti curati secondo il metodo tradizionale dei medici fiorentini, solo tre riuscirono a sopravvivere, essendo gli altri cinque passati repentinamente a miglior vita nel giro di poche settimane.
L’obiezione (scontata!) dei medici fiorentini fu che, in precedenza, agli ammalati guariti dal Chiaramonte, erano stati per lungo tempo somministrate le loro terapie, per cui non si poteva esser sicuri che le guarigioni in questione fossero effettivamente opera della polvere citrina del concorrente siciliano.
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Ma il Chiaramonte non demorde. Richiede direttamente a Cosimo un’altro lotto di malati nuovi di zecca, vergini di ogni intervento e terapia, e li ottiene. Sono sette, tutti di età compresa tra i 14 ed i 30 anni, afflitti da febbri varie, e tutti, affidati al solo elixir, guariscono in poche settimane. Poco dopo, Cosimo, da tempo malato, manda a chiamare il Chiaramonte. Questi viene però prontamente ed efficacemente osteggiato dai medici del principe, che non vogliono affidare il loro illustre paziente ad un medico straniero, sulla cui preparazione e sui cui metodi nessuno sa nulla. La polvere misteriosa può anche esser nociva, ed il principe non deve affidarsi a mani estranee. Cosimo, dunque, non si affida al Chiaramonte, che non può non annotare nel suo Compendio, che di lì a poco, il principe “...con queste opinioni, morì...”. Dal punto di vista di Girolamo, ben più accorto è invece Lorenzo, il fratello di Cosimo, che, angustiato “di febre maligna con petecchie”, ignorando i medici di corte del Granducato, si affida al portentoso belzuar del siciliano, guarendo nel volgere di poco tempo.
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Segue invece l’esempio di Cosimo il duca di Montalto, al cui capezzale Chiaramonte viene chiamato dal viceré di Napoli, il duca d’Alcala. Anche in questo caso, la ferma opposizione dei medici e la decisione dell’infermo di non affidarsi alla polvere miracolosa, sortiscono l’ineluttabile e mortale epilogo. Tiberio Carafa (cui è, del resto, dedicato il Compendio), invece, “...havendo havuta un’infermità gravissima, debile et attra bile, con febre grande, lasciata l’opinione de’ medici...” (12) sensatamente si affida all’elixir, guarendo prontamente e divenendo consumatore abituale ed affezionato della polvere citrina, ottima, manco a dirlo, anche come preventivo e conservativo. Sulla scorta dei successi e delle amicizie ottenute in Toscana, il Chiaramonte nel 1622 è a Modena, chiamato dagli Este. Anche qui la polvere produce i suoi portenti, e tra le altre cose, approfittando di uno dei pochi deceduti nonostante la somministrazione del suo farmaco, il Chiaramonte ottiene dalle autorità l’autorizzazione per un’autopsia pubblica, nella quale dimostra che la polvere citrina non rimane nelle interiora dei pazienti. Nel 1623 è a Ferrara e poi a Milano. Lo spagirista riporta, nei suoi libri, per ognuna di queste tappe, tutte le autorizzazioni ed i decreti ottenuti da principi e dalle autorità scientifiche del tempo. L’apoteosi, probabilmente, si ha nel 1625, a Genova. Il teatro dell’azione è l’Ospedale della Chiesa della Santissima Annunziata. Qui, grazie all’interessamento del protofisico Carlo Pannicelli, vengono consegnati al Chiaramonte 20 malati gravi, di cui solo due, nonostante la polvere, muoiono. Visto l’incoraggiante risultato “...ordinorno di nuovo che me fossero consegnati altri 16, delle quali 15 guarirno et uno si morse.... Onde ammirati li detto Signori del detto Magistrato fecero decreto che in detto ospitale me si consegnassero 25 letti con 25 ammalati, et mancando, o per salute, o per morte, che di nuovo si riempiono alla cura di Girolamo Chiaramonte siciliano, sempre con l’osservanza del sopradetto Pannicelli....”. Nel corso di una permanenza di vari mesi, Chiaramonte cura con successo ben 170 ammalati, e, naturalmente, a questo punto, a proposito di questa esperienza, riporta la relazione del Protettore dell’ospedale, Nicolò Zoagli. Le osservazioni del Pannicelli, invece, riempiono decine e decine di pagine del Trattato, e costituiscono ulteriore attestazione di efficacia ed affidabilità della polvere. Tuttavia assieme alla popolarità, ecco farsi avanti gli onnipresenti imitatori ed usurpatori, che vorrebbero togliere a Chiaramonte i meriti, la gloria ed i guadagni della polvere misteriosa. Così, il nostro, alla fine del Compendio¸ mette in guardia dalle imitazioni: “…sappia che questa mia polvere è di colore cinerito…si dà in una cartoccia chiusa et sigillata con arme di un braccio armato che tiene una testa di saracino per li capelli, et le lettere intorno che dicono Girolamo Chiaramonte…et perché tutte le sopraddette cose si possono contrafare, per sicurtà di ognuno ho eletto un loco preciso in Napoli…ove tengo casa aperta per quelle persone che si vorranno servire…Poiché in molte parti vi sono state alcune persone che sotto mio nome hanno dispensato alcune loro polvere con poca salute del prossimo, come fu Pier Francesco Gilardini Bolognese in Firenze, allo quale furono consegnati 6 ammalati dell’Ospitale di S. Maria la Nova et con il suo medicamento ne morsero 4 et le altre due ci furono levati per non farli anco morire, et in Modona un mio servo, Ventura da Ventura, il quale pubblicando havermi rubbato il secreto, dava certa terra sulforea con la quale fece danno a diverse persone, et Antonio Bianchi allo quale portai meco in Firenze, et doppo si volle fare autore di questo secreto, et fu forzato fuggire…”. (Comp pag. 97) Il Bianchi, che aveva anche assistito il Chiaramonte nelle sue esperienze fiorentine, aveva presentato a Lorenzo di Toscana un memoriale in cui rivendicava la paternità della polvere bianca descritta dal Chiaramonte. Questa polvere, peraltro, secondo il Bianchi sarebbe stata assai superiore alla citrina. Ma il presunto autore della formula della polvere bianca, viene prontamente e veementemente sbugiardato dal Chiaramonte, che definisce il Bianchi “poco ricordevole della sanità ricevuta dalla mia polvere....men riconoscitore de’ benefici et alimenti da me per molti anni somministratili...”. Il Bianchi fu paziente irriconoscente, ed il Chiaramonte non manca di pubblicare la sua dichiarazione autografa in cui il concorrente riconosceva di esser stato sanato dall’elixir del siciliano. La confutazione delle opinioni del Bianchi occupa decine di pagine del Trattato, ed è precisa, puntuale e meticolosa. Il Chiaramonte contesta punto per punto, passo per passo la fondatezza scientifica e la credibilità del libello dell’avversario. Il Bianchi è un incompetente, non conosce la letteratura medica classica, e non potrebbe essere scopritore di alcunché, sprovvisto com’è di ogni fondata conoscenza medica. Le esperienze e la teoria stessa, correttamente interpretata, dimostrano che la polvere rossa è superiore alla bianca. Trattamento analogo, forse ancor più sistematico e attento, è riservato al Giraldini, bolognese anch’egli sedicente scopritore dell’elixir Gli attacchi del Chiaramonte si servono con attenzione di tutte le fonti più autorevoli della scienza medica antica e moderna: Galeno, Dioscoride, Razi, Serapione, Avicenna, Rabbi Moyse, Pietro d’Abano, Mattioli, Garzia dell’Orto. Il Giraldini vuol vendere la sua dannosa pietra solo per far soldi in modo poco lecito “... come sogliono fare gli Giudei; qual costume il Giraldini, per essere Giudeo fatto Christiano, non se l’ha dimenticato...”. Assai meno spazio e attenzione sono dedicati al servo, Ventura de Ventura, turco convertito e cristianizzato, ed alla sua truffa mal riuscita, evidentemente non in grado di insidiare i privilegi e le licenze di vendita ottenute dalle varie corti. Ma l’opposizione contro i suoi concorrenti ed imitatori, in fondo, non è che elemento secondario della polemica chiaramontiana. La vera battaglia è contro i medici e gli speziali che ostacolano il completo ed assoluto trionfo della sua polvere. Nelle opere divulgative, egli risponde alle critiche dei medici, citando ad ogni piè sospinto Galeno e Dioscoride, arricchisce l’esposizione dell’impianto medico-astrologico di derivazione ermetica. Questo, però, non dovette bastare ad assicurare al suo elixir fama immortale. A qualche decennio di distanza, il Teatro del Donzelli (13) , non conserva traccia della miracolosa polvere cinerita & belzuar minerale dell’intraprendente siciliano (14). Il segreto, così attentamente custodito dal Chiaramonte, tuttavia, con ogni probabilità non andò perso. Nell’ultima pagina del Compendio, infatti, Girolamo annota: “... Io ho palesato questo secreto a mio fratello per nome Vito che sta meco, et di più ho fatto due lettere le quali tengo sigillate per due Principi miei Signori, dentro le quali ci ho scritto questo secreto, acciò nella mia morte non si perda un tanto medicamento per la salute del prossimo...”.
Dunque, altre dovettero essere le ragioni
della progressiva scomparsa del medicamento di Chiaramonte.
(15) Pian piano,
inesorabilmente, il medicamento, ormai popolare nelle corti di tutta la
penisola, osteggiato dalla medicina ufficiale, ma diffuso al punto da
provocare dispute di paternità, imitazioni fraudolente e “punti vendita”
autorizzati, dovette mostrare i suoi limiti. La panacea universale, priva
della faconda abilità pubblicitaria del suo ideatore, dovette perdere molto
del suo incanto, per scomparire rapidamente dalla memoria di consumatori,
medici e speziali. Le farmacopee non nomineranno mai il Chiaramonte. La sua
prodigiosa polvere si perderà per sempre nell’infinito labirinto del tempo,
il deposito immenso entro cui giacciono dimenticati, o appena ricordati,
come tra le nebbie del sogno, tutti gli altri elisir miracolosi, tutte le
polveri di proiezione e le pietre filosofali, gli anelli incantati, le
fontane fatate, le magie e i giochi di mano, le truffe ben riuscite ed i
mirabolanti ed artistici raggiri di tutti i tempi e di tutte le latitudini.
Dove lo sfortunato Bragadin, il prete Di Costanzo col suo misterioso greco,
e l’abile guaritore di Lentini, continuano i loro giochi ed i loro maneggi -
senza più principi e clienti altolocati da truffare – insieme all’eterno e
sconfinato esercito dei maghi, dei saltimbanchi, dei ciurmatori, dei folli,
dei filosofi e dei poeti. |
Due dei quattro mori scolpiti sulla Porta Nuova di Palermo
(edificata nel 1584). Il motivo dei mori, più o meno in catene, divenne tra XVI
e XVII secolo motivo ornamentale assai diffuso nell’area siciliana. Anche il
Chiaramonte utilizzò la Testa di moro per il proprio “logo”. (foto dell'autore)
(*)
Articolo pubblicato per la prima volta su "Anthropos
& Iatria: rivista italiana di Studi e Ricerche sulle Medicine antropologiche e
di storia delle medicine", Anno VII numero II (Aprile - Giugno 2003)
Note
(1) Ad esempio nel caso della lettera di Fabio Colonna a Federico Cesi, in quel momento a Roma, datata Napoli, 8 maggio 1626, in cui il Colonna scrive: “La lettera diretta al Sig. D. Giov. Giacomo Di Costanzo, l’ho dato ricapito li sia data”. Non sappiamo quanto dell’esperienza con il Di Costanzo sia da porsi in relazione con la diffidenza espressa dal Colonna nella citata lettera al Faber del 1628.
(2) Lettera del 14 settembre 1625. Cfr. Il carteggio linceo cit. pag. 1062.
(3) Famiglio, uomo di fiducia.
(4) “... So. Orsù, dunque, esaminiamo ancora questo. C’è qualche cosa che chiami sapere? Gor. Sicuro. So. E qualche cosa che chiami credere? Gor. Certo. So. E paiono a te lo stesso, il sapere e il credere, la scienza e la credenza, o cose diverse? Gor. Diverse a parer mio, Socrate. So. Difatti hai ragione; e lo intenderai di qui; che se qualcuno ti chiedesse: - Ammetti, Gorgia, che ci sia una credenza falsa ed una vera? -, tu, com’io suppongo, risponderesti di si. Gor. Certo. So. E che? c’è forse una scienza falsa ed una vera? Gor. Per nulla. So. Sicché è manifesto che – sapere e credere – non sono la stressa cosa. Gor. E’ vero. So. Eppure una persuasione c’è così in quelli che sanno come in quelli che credono? Gor. Certo. So. E vuoi che si pongano due specie di persuasione, l’una che ci dà la credenza senza il sapere, l’altra che ci dà la scineza? Gor. Sicuro. So. Ora, la retorica quale delle due persuasioni produce e nei tribunali e nella altre adunanze sul giusto e sull’ingiusto? quella da cui nasce il credere senza il sapere, o quella da cui nasce il sapere? Gor. E’ evidente, Socrate: quella da cui nasce il credere. So. Sicché la retorica, pare, è artefice d’una persuasione, atta a farci credere, ma non ad istruirci sul giusto e sull’ingiusto. ...”. (Platone, Gorgia, trad di Emidio Martini da Tutte le opere, a cura di Giovanni Pugliese Carratelli, Osteria Grande (BO) 1988
(5) Il Belzuar o Bezoar era una pietra formata dal calcolo biliare di alcuni mammiferi, in particolare capre e cervi. A questa pietra, a seconda della provenienza, della forma, della dimensione e del colore, si attribuivano proprietà terapeutiche differenti, che spaziavano, dalla semplice cura delle verminosi e delle dissenterie, fino alle patologie cardiache, all’epilessia ed all’itterizia. Il più prezioso era considerato quello proveniente dall’oriente. Nella pratica comune, comunque, il vocabolo passò ben presto ad indicare una quantità di carbonati e di allumi, e, più in generale, qualunque preparazione che assumesse una forma solida simile a quella del Bezoar, o anche le sue proprietà terapeutiche. Scrive Garzia dell’Orto, nel Dell’Historia de i semplici aromati (Venetia 1606): “La pietra Bezaar ha molti nomi...E certo ragionevolmente ha tal nome poi che è così signora questa pietra de i veleni, che gli estingue et ammazza e distrugge... E di qui viene che tutte le cose che sono contra veleno, ò contra cose velenose, chiamano bezaartiche per eccellenza...” (pag. 341). Il belzuar minerale del Chiaramonte è dunque una di queste preparazioni bezaartiche, che pretendeva di allargare e perfezionare l’azione classica del belzuar animale.
(6) Si tratta, probabilmente, di una raccolta organizzata di opuscoli già usciti isolatamente in precedenza, in corrispondenza delle peregrinazioni del Chiaramonte per le corti italiane. Vinci Verginelli, nella sua Bibliotheca Hermetica, catalogo alquanto ragionato della raccolta Verginelli – Rota di antichi testi ermetici. Roma 1986 Nardini, a pag. 104 recensisce un Trattato dell’ammirabile facoltà et effetti della polvere o Elixir Vitae di Girolamo Chiaramonte siciliano....raccolto ad universal benefitio da D. Gias. Ant. Bianchi....dedicato al Serenissimo Cosimo II Medici, Granduca di Toscana. In Firenze, Appresso Zanobi Pignoni 1620. Riportiamo uno stralcio dalla breve recensione che Verginelli dedica al libro: “…Il libro lascia perplessi. Si può affermare che le sole prime sette pagine trattano oscuramente della natura e della confezione dell’elixir vitae, adoprando il linguaggio criptico e la terminologia gergale comune a quasi tutti i trattati alchimici. Tutta la rimanente parte del libro riporta o relazioni o dichiarazioni, in gran parte sottofirmate, di persone e personaggi che attestano l’avvenuta guarigione per l’avvenuta assunzione del suddetto elixir vitae. Dinanzi si diceva che si rimane perplessi. E’ certo però che ai suoi tempi molto stimato doveva essere questo Chiaramonte, e la spontaneità e la precisione di questi attestati inducono a pensare....”
(7) Dragoncelli venivano chiamate le caratteristiche tumefazioni piagate che insorgono in una determinata fase del decorso della sifilide.
(8) Si tratta, probabilmente, del Rodoleon,o rodostoma ovvero preparazioni di Acqua di rose o olio rosato.
(9) Sono, probabilmente, i vermi tondi.
(10) “.... Quando adunque questo medicamenteo composto, com’è la mia polvere, sarà dato a qualcheduno, le virtù che erano in potenza si dedurranno in atto... Perciò ognuna di loro imprimerà le sue qualità nel nostro corpo, et allhora si desta la natura sagacissima con tutta la sua prudenza, che non erra, ma governa e digerisce non solo quelle cose che si giudicavano fra loro contrarie, et avicenda fa che una aiuta l’altra, perché quello che ha virtù di assottigliare precede e va innanzi, e apre la via.... e mena seco quelle che han virtù di astringere, facendole penetrare più profondamente; che peraltro sola e da se stessa, forsi si saria serrata la strada e non saria potuta arrivare alle parti profonde et affette dove faceva di bisogno....” (Trattato, pag. 26)
(11) Si ricordi, a tal proposito, il matrimonio di Eleonora da Toledo, figlia del viceré Pedro da Toledo, con Cosimo I de Medici. Un intenso e duraturo rapporto politico, tra XVI e XVII secolo, unisce i due regni. Non è un caso che, al capezzale del duca di Montalto, come vedremo in seguito, il Chiaramonte fosse chiamato dal Viceré D’Alcala. Conquistare fama e notorietà nel Granducato di Toscana, inoltre, era importante poiché alla corte medicea era ancora viva una fiorente tradizione di studi alchemici e naturalistici, che coinvolsero, tra gli altri, anche esponenti della dinastia medicea. Caterina Sforza (la madre di Giovanni dalle Bande Nere) ci ha lasciato un rilevante liber secretorum, oggi alla Nazionale di Firenze, a sua firma (un manoscritto copiato nel 1525 dal conte Lucantonio Cuppano da Montefalco, uno dei capitani di Giovanni, dal titolo Experimenti de la Ex.ma S.a Caterina da Furlì, madre de lo inlux.mo Signor Giovanni De Medici: In nome de Dio in questo libro se noteranno alcuni experimenti caciati da lo originale de la inlux.ma Caterina da Furlì, matre de lo inlux.mo S.re Joanni De Medici mio S.re et patrone). Anche di Cosimo I e di suo figlio Francesco ci rimangono studi e testimonianze manoscritte. In particolare, di Cosimo, ci rimane un lavoro, compilato dal suo segretario Bartolomeo Concino tra il 1561 ed il 1565, conservato presso la biblioteca Nazionale di Firenze. La corte medicea, con la fonderia ed il Giardino de’ Semplici fondato da Cosimo, entro cui si formarono naturalisti come Ghini e Maranta, era tradizionalmente residenza e meta di studiosi, semplicisti, speziali, medici e alchimisti. Per il Chiaramonte era dunque una piazza importante da conquistare alla causa del suo elixir..
(12) L’intera trattazione ed attività di Chiaramonte, si esplica all’interno di una generale disistima dei medici. I pazienti che li ignorano, sopravvivono, quelli che li ascoltano muoiono, Ancora, le dimostrazioni negli ospedali pubblici, ed in particolar modo quella di Firenze, pongono la cura del siciliano in diretto confronto e contrapposizione con i metodi della medicina ufficiale. Pure, prudentemente, nel Compendio si può trovare un’attestazione di fiducia nei medici e negli speziali, che se non può, naturalmente, risultare sincera, attesta senz’altro la grande prudenza del Chiaramonte nel non voler provocare apertamente, e più del necessario, le ire di classi potenti e protette. Chiaramonte, a pag. 66 infatti scrive; “...Oh mi dirà quel medico, dunque noi ch’abbiamo tanto speso in studiar e dottorarci, andaremo con li Spetiali a spasso? perché questa vostra polvere è Medico et medicina universale. S’inganna chi dice questo, poiché sempre, (dove si può havere) il Medico è necessario: primo, per la regola del vivere, secondo per l’osservanza delli sintomi, et ultimo per governo del tutto, dando ragione all’infermo d’ogni effetto, tanto buono quanto malo. Et è quasi accorto nocchiero che guida la nave portata da vento prospero in sicuro porto. Vogliamo anco le cose di Spetiarie, si come nel seguente Metodo diremo, servendo per vehicoli più facili alla mia polvere, ch’io con l’osservanza di tanti anni ho accortamente avvertito... che se uno con solo il mio Elixir ha da guarire in 10 dì, con l’osservanza del medico et medicamenti adiuvanti guarirà in 4 o 5... “.
(13) G. Donzelli, Teatro Farmaceutico Dogmatico e Spargirico (Napoli 1667, ristampato per ben 22 volte fino al 1763), fu uno dei testi più autorevoli e diffusi della scienza spagirico-farmaceutica a cavallo tra XVII e XVIII secolo.
(14) Tuttavia, Scipione Severino, alchimista napoletano della seconda metà del ‘600, nel suo Filosofia, Alchimia seù scienza vigorativa dell’anima aurea (1695) riprende in un passo la polemica sulla controversa polvere di Chiaramonte, rincarando la dose su medici e speziali: “…non parlo delle panacee del vetriolo, dell’antimonio, del solfo, della polvere di Chiaromonte di Sicilia, & dell’oro distillato; non piace alli medici la loro prattica, perché essi con li spetiali non guadagnarebbono. Né il consultare a portare le pietre antipatiche ad ogn’infirmità li piace. Abonda il paese nostro di piante per ogn’infirmità, & recorrono alle cose dell’India…” (pag. 102). Dunque, la polvere di Chiaramonte, almeno nella memoria dei critici della medicina ufficiale, alla fine del XVII secolo era ancora viva.
(15) L’ultima traccia bibliografica del Chiaramonte è l’”Osservationi e breve discorso del contagioso Mal di Canna di Girolamo Chiaramonte della città di Leontini” (Napoli, Roncagliolo 1637), un opuscolo di poche pagine che sembra rispondere alle preoccupazioni suscitate dall’ennesima epidemia di affezioni respiratorie che aveva colpito Napoli, ormai patria adottiva dell’intraprendente siciliano. La cura proposta e pubblicizzata è il solito Elixir, in alternativa ai salassi proposti da alcuni medici, ed ai preparati della medicina tradizionale.
Bibliografia essenziale.
Girolamo Chiaramonte - Trattato di Girolamo Chiaramonte siciliano di Leontini vero autore et inventore delle poveri bianca et cinerica dette elixir Vite (Genova, per Gioseppe Pavoni 1628)
Girolamo Chiaramonte – Compendio di Girolamo Chiaramonte siciliano della fecondissima città di Leontini. Del suo Elixir Vitae ridotto in polvere cinerita & belzuar minerale cavato dal detto elixir. Napoli, Secondino Roncagliolo 1633
Garzia dell’Orto - Dell’Historia de i semplici aromati (Venetia 1606)
Giuseppe Donzelli – Teatro farmaceutico, dogmatico e spagirico nel quale si insegnano una molteplicità di Arcani Chimici. Napoli 1667
Marcello Fumagalli – Dizionario di Alchimia e di chimica farmaceutica antiquaria, Roma 2000, ed. Mediterranee
Giuseppe Gabrieli – Il carteggio linceo. Roma, Accademia Naz. Dei Lincei 1996
H. Kallfelz – Voce Bragadin Marco nel Dizionario Biografico degli Italiani della Treccani
Massimo Marra – Il Pulicinella Filosofo Chimico – uomini e idee dell’alchimia a Napoli nel periodo del viceregno. Milano 2000, Mimesis
Giulio Lensi Orlandi – L’Arte Segreta, Cosimo e Francesco De’ Medici Alchimisti Firenze 1991 ed. Nardini
Platone – Tutte le opere, a cura di Giovanni Pugliese Carratelli, Osteria Grande 1988, Sansoni
Scipione Severino - Filosofia, Alchimia, seù scienza vigorativa dell’anima aurea. Venezia 1695
Gino Testi - Dizionario di Alchimia e Chimica Antiquaria 1985 ed. Mediterranee Roma
Vinci Verginelli – Bibliotheca Hermetica, catalogo alquanto ragionato della raccolta Verginelli – Rota di antichi testi ermetici. Roma 1986 Nardini
Di Massimo Marra Airesis ospita inoltre, nella sezione Ars regia, il seguente contributo: In collaborazione con Michela Brindisi: Nella sezione Therapeutiké, è ospitato invece: Massimo Marra - La vipera e l'Oppio: la Teriaca di Andromaco a Napoli tra XVI e XVIII secolo.
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