Le stelle nel mondo rurale, dai cicli naturali all'immaginazione
popolare
Segni del tempo
Alessio Miglietta - Storico della cultura
Lo sguardo di molti volge raramente al cielo; si è spesso troppo
distratti dal vivere quotidiano, così come si configura nell’oggi, che
costringe a concentrare tutte le attenzioni al mondo materiale, sotto
questo cielo sempre più solidificato.[2] Distratti, ovvero lacerati,
separati, divisi, quindi lontani dal Tutto unificante: non distratti,
come recita un vecchio modo di dire, perché si ha “la testa fra le
nuvole”, ma perché si è troppo ben piantati per terra, così ancorati al
mondo materiale e alle zavorre del vivere quotidiano, quel “peso
dell’animo” che a volte può atterrire, da non avere il desiderio, né
forse il coraggio, di fermarsi a contemplare ciò che sta al di sopra.
Immagine 1 - Anonimo, incisione
per C. Flammarion, L'atmopshpère:
metéréologie populaire, Paris, 1888, p. 163.
Se si esclude l’abitudine di scrutare la volta celeste per meglio
comprendere e prevedere gli eventi meteorologici[3] che interessano per
la loro diretta e materiale influenza sulle cose terrene, sembra che il
cielo abbia perso le sue attrattive; l’esistenza, smarrito il contatto
con ciò che è superiore, sovente si svolge a un livello d’astrazione
più basso che del mondo ha una visione incompleta, frazionata, quindi
sostanzialmente falsata, oppure, più semplicemente, non si ha a
disposizione il tempo sufficiente o, ancora, ci si vergogna a fermarsi
e ad alzare la testa verso il cielo, presi dal timore che altri ne
deridano il gesto, considerato il più delle volte un atteggiamento da
ozioso, un atteggiamento improduttivo (l’otium,
oggi, è visto comunemente solo come una semplice perdita di tempo).
Naturalmente, alla regola generale sfuggono varie eccezioni: vi è
ancora chi dedica alla semplice contemplazione del cielo, e della sua
regolarità, parte del tempo a lui assegnato e ne trae conforto. Ed è
anche vero che, le rare volte in cui, invece di essere deriso, il
coraggioso osservatore del cielo è affiancato e imitato, ciò
solitamente accade per il solo desiderio del suo imitatore di scorgere
qualcosa di “nuovo”, di eccezionale: l’unico motivo valido che potrebbe
giustificare quello strano comportamento, come se la sola
contemplazione fosse un’attività vuota e inutile. È l’evento
straordinario, “spettacolare”, ciò che colpisce, poiché siamo stati
abituati, e costretti, ad apprezzare prima di tutto l’inconsueto, il
bizzarro, il mai visto o il mai udito, a prescindere, al di là del
fenomeno in sé e del suo valore intrinseco, ma solo per la sua novità,
qualunque essa sia.[4] Ciò che è continuamente davanti agli occhi non
attira più, è preso per scontato, ma nella regolarità dei fenomeni
celesti, nella loro ciclicità, nel loro eterno tornare, nella loro
rivoluzione, la nostra anima “troverà la quiete”: si unirà cioè al
tutto, senza distrazioni, cucendo quello strappo tra Cielo e Terra che
ha diviso l’uomo e accogliendo, così, la verità.
Se è vero che il mondo rurale ha conservato un modo di
rapportarsi con la natura molto più stretto e costruttivo, è anche
giusto ricordare come tale mondo si stia progressivamente restringendo
a favore di un inurbamento sempre più intenso. È tuttavia ancora
possibile individuare, nel mondo contadino, la traccia di un fitto
dialogo tra terra e cielo, gelosamente conservata e protetta dalla
forza tenace della tradizione - sapere tramandato nella catena delle
generazioni -, anche se i segni evidenti di una progressiva lacerazione
sono ben percepibili anche qui. Una forza, quella della tradizione, che
resiste pervicacemente grazie al passaparola delle generazioni, una
trasmissione orale la cui voce, però, ogni giorno si fa sempre più
flebile, sempre più sussurrata, mentre il grido della modernità (nei
suoi aspetti positivi e negativi) la sovrasta sempre più, lanciando ai
quattro venti le parole, non sempre a tutti ugualmente
intelligibili,[5] del progresso, dell’evoluzione, della marcia dei
tempi.[6] In un passato non troppo lontano, possiamo però individuare
un modo di porsi verso il cielo molto diverso, caratterizzato da una
rete di collegamenti più stretti tra umanità e astri, nella cultura
dotta come in quella popolare; soprattutto in quella popolare. Un
dialogo che presuppone una ben maggiore importanza, una centralità, del
ruolo del cielo nella vita umana e nelle manifestazioni del reale -
visibili e non visibili -, accompagnate a un interesse spiccato verso
gli astri e i suoi movimenti, soprattutto nella loro ciclicità e
regolarità.
Gli astri, dai “grandi luminari” (Sole e Luna) alle stelle
erranti (i pianeti) o fisse, rappresentano da sempre, dall’inizio dei
tempi, una duplice funzione: “Ci siano luci nel firmamento del cielo,
per distinguere il giorno dalla notte; servano da segni per le
stagioni, per i giorni e per gli anni e servano da luci nel firmamento
del cielo per illuminare la terra”[7]. Due elementi, questi, che da una
parte afferiscono all’universo semiologico deputato al computo del
trascorrere del tempo, e dall’altra assumono, con la loro luce che si
proietta sulla terra, un vero e proprio valore di simbolo. Vedremo,
infatti, come le stelle, intese come segni, ci ricordino le miriadi di
granelli di sabbia[8] di una clessidra, una clessidra grande come il
cosmo, che scandiscono, “cadendo” una dopo l’altra sotto l’orizzonte,
il passare dei giorni, i momenti del lavoro agricolo, le cadenze dei
riti, i grandi cicli del cosmo; vedremo anche come le stelle abbiano
sempre rappresentato i segni di un comune (e semplificato) “palazzo
della memoria”, tramandato oralmente, come un insieme di immagini che,
costruite astrattamente, raccontano una storia - più spesso sacra -,
così come facevano fino a non molto tempo fa i cantastorie, o come
accadeva, dapprima nelle corti elitarie delle città rinascimentali,
giocando con i rimandi delle lame di un mazzo di tarocchi.[9]
La clessidra del cosmo
“Perché il tempo fosse generato, furono generati il Sole, la Luna, e
altri cinque astri che si chiamano pianeti”[10]: Platone - si
esprimevano in termini simili lo stoico Arato[11] e il pitagorico
Igino[12] - ribadisce ciò che già abbiamo sostenuto con le parole della
Bibbia, la funzione, cioè, dei segni celesti di pianeti e stelle nello
scandire il tempo naturale nel suo ordine periodico, costituito da
diversi cicli, alcuni più duraturi altri più brevi, che si succedono
concentrici uno all’altro, nella perfezione e nell’armonia, e a
“imitazione dell’eterna natura [del Dio]”[13]. Il Cielo, che si muove
con i suoi percorsi circolari, in un cammino perfetto e immutabile,
scandisce, o meglio, crea il tempo sulla terra attraverso i suoi segni,
quei granelli di luce che con il loro scorrere nell’immensa clessidra
del Cielo e della Terra consentono all’uomo che l’osserva di tenere il
conto del succedersi dei giorni e delle stagioni. Tale computo del
tempo considera, già da epoche assai remote, sia gli intervalli
limitati tra il sorgere di un astro e di un altro - le ore[14] -, sia
cicli brevi come il ritorno del Sole (o di qualunque altra stella) al
suo meridiano dopo il suo giro completo intorno alla terra[15] - il
giorno -, sia i cicli un poco più lunghi come la lunazione - la
settimana e il mese - o il ritorno del Sole al suo solstizio - l’anno
-, o cicli più estesi in cui entrambi i numeri delle lunazioni e delle
rivoluzioni solari risultano interi - il ciclo metonico[16] - o cicli
di lunghissima durata come il ritorno dei solstizi nella medesima
posizione - il cosiddetto anno platonico[17] -, il ritorno di tutti i
pianeti al punto di partenza - il numero del tempo perfetto[18] - o la
congiunzione di tutti i pianeti nella costellazione del Cancro - il
Grande Anno caldeo -. Fino al tardo medioevo, epoca in cui l’orologio
meccanico, in città, comincia lentamente a distrarre i primi uomini dal
tempo della Natura per condurli al tempo, misurato sempre più
precisamente e in senso sempre più astratto, dell’artificio umano e
delle sue attività materiali (Le Goff parlerebbe di “tempo del
mercante”), l’ombra del Sole (con le meridiane pubbliche, a Roma
adottate dal III secolo a.C.) e la naturale tendenza degli elementi più
pesanti - l’acqua e la terra - a dirigersi verso il basso[19] (con la
clessidra) erano gli unici elementi che si affiancavano
all’osservazione diretta del cielo. Ma questi sistemi di computo
potevano venir utili soltanto per brevissimi periodi di tempo: i grandi
cicli non potevano (alcuni, in realtà, non possono tutt’oggi) che
essere computati con l’ausilio del movimento dei corpi celesti.
Secondo princìpi che ricordano da vicino le filosofie antiche
del neoplatonismo e dello stoicismo,[20] il cosmo dei premoderni, e non
solo di questi, si configura come un organismo armonioso le cui
manifestazioni sono paragonabili, se non del tutto simili, a quelle di
un essere vivente, in una relazione di simpatia tra ciò che è superiore
e ciò che è inferiore, in una sostanziale uniformità, monismo peraltro
negato dalla concorrente tradizione aristotelica, che avvolge gli
esseri viventi in una Natura davvero universale in cui Dio è
onnipotente, onnisciente e onnipresente con la sua volontà. È un
vitalismo che nega, però, ogni tentazione di panteismo. E il respiro
dei viventi, essenziale battito del loro ritmo naturale, si rispecchia
nel respiro del cielo che si alza e si abbassa, percepibile nel corso
della giornata e nell’avvicendarsi delle stagioni.[21] Nel medesimo
modo in cui si utilizzano, specie nelle tradizioni orientali, tecniche
di respirazione per rigenerarsi e raggiungere la pace interiore,[22]
così la semplice contemplazione del “respiro” del Cielo concilia
l’animo dell’uomo con i ritmi del cosmo e con la sua eterna
immutabilità: gli eventi accidentali, al contrario, rompendo questa
armonia, evocano nell’animo il senso della caducità, della mortalità;
forse anche per questo che quest’ultimi erano spesso così mal
considerati e assimilati dagli antichi.
Le idee di un tempo ciclico e di un eterno ritorno, anch’esse
eredità dell’antica stoà, convivono parallelamente alla convinzione
cristiana di un tempo storico lineare finalizzato alla salvezza eterna,
che prevede una sola Creazione e una sola Apocalisse, e alla tradizione
giudaica di un cammino di inesorabile decadenza che, da un originaria
età dell’oro, si dirige verso la caotica e oscura fine dei tempi: il
tempo storico lineare si dipana, però, attraversando vari tempi
ciclici, dai più duraturi ai più brevi. All’interno dei grandi cicli, i
cicli più brevi si succedono concentrici e per loro natura sono meglio
evidenti agli occhi umani; tutti i cicli sono stampi che hanno in
comune un calco del tutto simile: il percorso giornaliero del Sole è
paragonabile a quello annuale, l’anno solare richiama da vicino il
Grande Anno; e tutti possiedono la stessa struttura, fondata da fasi
ascendenti e discendenti, ognuna con le proprie caratteristiche, con la
propria durata e la propria velocità, ma che conservano sempre la loro
caratteristica bipolarità tra discesa e salita, tra crescita e
diminuzione. Quando la fase di un ciclo è ascendente, il percorso parte
dal sostanziale e giunge all’essenziale, cioè passa dal materiale allo
spirituale, all’esatto contrario si comporta quella discendente. Il
rapporto tra i cicli e gli eventi temporali di tipo lineare, come nel
caso della vita di Cristo, ripercorsa annualmente attraverso la
liturgia, o della vita di ogni uomo accostata al succedersi delle
stagioni, si estrinseca in una fitta rete di corrispondenze tra le cose
celesti e le cose terrene. E la velocità con la quale cicli e fasi si
dipanano varia sensibilmente a seconda del momento e della loro natura:
se per esempio pensiamo alla nostra esistenza su questa terra, possiamo
constatare con tutta chiarezza quanto la percezione del tempo, e del
suo scorrere, cambi con l’avanzamento della nostra età: è principio
condiviso, di per sé evidente, che la durata di un anno per un bimbo è
assai più lenta di quella percepita da un anziano settantenne. Infatti,
secondo un ordine prettamente quantitativo, se una vita è durata un
anno in tutto, il trascorrere di un ulteriore anno corrisponderà a metà
dell’intera esistenza e sarà quindi percepita come un lasso di tempo
assai lento; al contrario, se si è già vissuto per settant’anni, un
ulteriore anno sarà solo la settantesima parte della vita intera, e
passerà in un attimo. Per di più, secondo un ordine qualitativo, il
percorso della nostra vita condivide con i cicli universali la
“progressiva contrazione della sua durata”[23], poiché, così come
accade nella fase discendente di un ciclo, la rapidità con la quale
esso volge al suo termine aumenta in modo progressivo. Rapidità e
lentezza, termini direttamente riferiti al concetto di tempo, sono
percepiti in senso qualitativo dai nostri sensi e possono essere
misurati secondo un ordine quantitativo dagli strumenti a ciò deputati,
ma il tempo stesso non sarebbe percepibile senza la presenza necessaria
dello spazio, in particolare del movimento in esso degli oggetti
materiali che, secondo determinate leggi, impiegano, appunto, un
periodo di tempo a coprire un certo spazio. Un esempio è proprio il
movimento delle stelle nella volta celeste, anzi, come abbiamo prima
spiegato con le parole di Platone, ne è il paradigma originario. Nel
Timeo,[24] il “tempo perfetto” è quello della riunione planetaria, cioè
il momento in cui le stelle erranti si congiungono tutte al loro punto
di partenza, mentre per la dottrina caldea, abbracciata da Aristotele
nel perduto Protrepticus,
quando esse si trovano tutte nel Capricorno, ne segue il diluvium,
e quando accade nel Cancro il mondo viene distrutto dal fuoco
purificatore, con la conflagratio. In tutti i casi si tratta del
culmine di una fase che la chiude e ne apre un’altra, secondo quel
senso ciclico che fa convivere insieme la visione pessimistica di un
progressivo declino e la visione ottimistica di un nuovo inizio che
vede nella morte l’indispensabile passaggio verso la rigenerazione.
L’idea arcaica di un principio dei tempi perfetto, la mitica età
dell’oro, presuppone quindi una altrettanto perfetta, cioè totale,
distruzione che lo preceda.
Alla base di ogni ciclo più grande, si presentano all’esperienza
dell’uomo i cicli più brevi, quindi più evidenti ai sensi di un vivente
la cui esistenza terrena è anch’essa breve e perfetti nella loro
semplicità,[25] cioè il giorno, il mese Lunare e l’anno lunisolare.[26]
In tutti è ben percepibile la successione evocativa che richiama la
morte e la successiva resurrezione, cioè l’alba dopo la notte, il primo
spicchio dopo il novilunio, il giorno dopo il solstizio d’inverno; e
tutti e tre assumono un’importanza cruciale per la vita quotidiana e
per le attività umane, tra cui il lavoro agricolo, fondamento di molte
società (e civiltà). Senza trascurare l’importanza dei primi due cicli
citati, su cui torneremo, è vero che l’anno lunisolare, in particolare,
richiama con efficacia i cicli più duraturi; le sue fasi, comprese tra
i due solstizi e i due equinozi, suggeriscono l’esistenza di continui
rimandi ad altri significati legati sia al mondo naturale sia a quello
a esso superiore. Secondo questo punto di vista, ogni inizio d’anno
corrisponde a una rigenerazione, a una ripetizione della cosmogonia, a
una ri-creazione del mondo,[27] e, come vedremo in seguito, ciò
acquisirà, soprattutto nella tradizione contadina (che ha sì percorso
una strada parallela a quella della cultura dotta, ma che con essa ha
condiviso reciproche influenze), un’importanza cruciale per
l’interpretazione dei segni celesti. Basti pensare che l’uomo arcaico
talvolta affermasse che “il Mondo era passato” riferendosi alla fine
dell’anno, sottolineando così la fitta corrispondenza tra cosmo e tempo
e il significato di rinascita di un mondo nuovo con l’inizio di un
nuovo ciclo.[28]Un concetto, questo, che, riprendendo Mircea Eliade,
consentirebbe di arricchire sensibilmente l’animo di noi contemporanei:
“basterebbe soltanto a un uomo moderno una sensibilità meno chiusa al
miracolo della vita, per ritrovare l’esperienza della rinnovazione,
quando fonda un nuova casa e quando vi entra (come anche il capodanno),
la costruzione di un tempio ripete una cosmogonia[29]”. Per questo,
ogni rito di ricostruzione è imitazione della cosmogonia: l’elevazione
di un edificio, soprattutto se sacro e orientato rispetto al Cielo, è
la ripetizione della nascita, che sia la nascita del Mondo, di un uomo,
del giorno, di Gesù figlio di Dio.
La vita sacra ed esemplare del Cristo, esistenza storica e
quindi lineare nel tempo, assume nella liturgia un ordine circolare
esteso per tutto il ciclo annuale: è la linea che, chiudendosi su se
stessa, si fa cerchio, trasmutando così il tempo storico in ritmo
naturale. Un rapporto, quello tra linearità “terrena” e circolarità
“celeste”, che si palesa in tutta la sua forza nella struttura
architettonica delle chiese: è infatti nei templi del culto che,
attraverso la ripetizione ciclica dei riti, il tempo storico si annulla
a favore del ritmo naturale del cosmo.[30] In modo analogo si esprime
la simbolica massonica, ove il compasso, cioè il cielo o lo spirito, si
unisce alla squadra, la terra o la materia, e nel cui mezzo, non a
caso, campeggia la stella fiammeggiante del pentagramma.
La funzione prima della liturgia annuale, scandita dai riti e
dalle stagioni, è la partecipazione da parte dei fedeli, attraverso la
ciclicità delle ricorrenze strettamente legate alle configurazioni
celesti, delle fasi della vita di Cristo, per poter così avere
continuamente presente il contenuto di quegli archetipi.[31] Esemplare,
su questo piano, la corrispondenza di origine pitagorica,[32]
largamente trattata da Guénon,[33] tra i momenti dei solstizi e le
ricorrenze dei due san Giovanni (che sostituiscono il Giano bifronte
della cultura precristriana), figure così importanti nella vita di
Gesù, che cadono in prossimità una del solstizio d’estate, il “Giovanni
che piange” (il battista) e l’altra del solstizio d’inverno, il
“Giovanni che ride” (l’apostolo); il primo, che ha sentenziato:
“bisogna che Egli cresca e che io diminuisca”[34], è celebrato, in un
giorno pieno di prodigi,[35] con i fuochi della purificazione e del
rinnovamento (un fuoco che ricorda Eraclito e, ancora una volta, gli
stoici) e apre metaforicamente la “porta degli uomini” che consente la
discesa delle anime verso la terra, quando il Sole transitava alto
all’orizzonte nella costellazione del Cancro, per poi incamminarsi nel
suo percorso discendente verso il suo punto più basso, nella
costellazione del Capricorno[36] che ha al “suo fianco” la zona più
luminosa della via Lattea che proprio lì tocca la terra, in occasione
della celebrazione dell’altro san Giovanni, il discepolo che Gesù
amava, quando la “porta degli dèi” si apre e le anime immortali possono
ascendere al Cielo.
Se i cicli cosmici, secondo parte della cultura cristiana
segnati o, piuttosto, creati dal movimento degli astri, possono
influenzare, senza altresì costringere, il percorso e il contesto
dell’esistenza umana, per alcuni autori[37] anche gli astri stessi
hanno influenza sui cicli biologici della terra e delle sue creature. E
sia i cicli sia le singole influenze dei grandi luminari e delle
stelle, erano presi in gran considerazione anche dalla tradizione
contadina e popolare, particolarmente attenta ai fenomeni legati al
movimento del Sole, della Luna e delle costellazioni, ma meno
interessata, a differenza della cultura “dotta”, alle rivoluzioni
planetarie e alle loro influenze.[38] Ciò che è da tenere in
considerazione, secondo quegli autori, non è tanto l’astrologia come
arte divinatoria, come tecnica predittiva, molto in voga nel mondo
romano soprattutto dopo l’opera di Manilio, ma come dottrina
iniziatica, parte integrante della scienza sacra,[39] una disciplina,
cioè, che tenti una decifrazione del linguaggio divino scritto sul
mondo sensibile in forma di segni. Come il vero obiettivo della scienza
alchemica non è la pietra filosofale, ma la chiave della corretta
interpretazione delle sue metafore naturali, come il vero traguardo
dello studio delle profezie non è la conoscenza del futuro, bensì la
corretta interpretazione della parola divina, così l’astrologia
tradizionale non si cura di scrutare i segni del cielo per conoscere
ciò che non è concesso sapere, ma per alfabetizzarsi alla comprensione
del linguaggio del gran libro della Natura che, come in cielo così in
terra, è aperto e a disposizione di chi vuole e può leggerlo.[40]
Esisteva sin dall’antichità un rapporto stretto e privilegiato tra
astrologia, da una parte, e agricoltura e meteorologia dall’altra, cioè
tra sapienza dei cicli cosmici e sapienza dei cicli biologici, che
legava il lavoro dei campi al cielo e ai contadini dava senso di
protezione e riparo dal precario esito delle colture. Ed è eternamente
vero il comune insegnamento di queste tre discipline: l’inverno non è
mai definitivo. L’agricoltura è rituale: nel miracolo della
germinazione dei semi e della crescita della vegetazione vi è qualcosa
di prodigioso che riguarda la terra, nella quale i morti sono sepolti
in attesa della resurrezione e i semi attendono il loro momento per
gettare i propri germogli. I gesti dei contadini s’inseriscono
naturalmente nei cicli cosmici, siano essi di natura sacra o legati al
lavoro agreste.[41] Il tempo dei contadini, il cui ciclo principale è
descritto dall’anno lunisolare, è scandito sia dalle quattro stagioni e
da altrettante tempora (brevi periodi di tempo che le preparano),
strutturate nelle due grandi fasi ascendente e discendente, sia dal
sorgere o tramontare delle stelle più luminose o delle costellazioni
più rappresentative. E il periodo che inaugura il ciclo annuale, quel
periodo di dodici giorni che parte a Natale e termina con l’Epifania
(in altre tradizioni da Capodanno in poi[42]), dodici come i mesi
dell’anno, ha sempre avuto per i contadini un’importanza assoluta,
avendo ai loro occhi una funzione predittiva per l’andamento
dell’annata successiva: il sorgere e tramontare delle stelle visibili
in quel periodo, oltre che della Luna, erano direttamente associati
alle condizioni atmosferiche di quell’istante, nella convinzione che i
fenomeni riscontrati in quei giorni, in particolare il primo dell’anno,
fossero un’anticipazione dell’intero anno successivo.[43] In fondo, il
breve ciclo dei dodici giorni è lo stampo di quel calco del tutto
simile che determina, in scala maggiore, il ciclo annuale. In tutte le
campagne, nei secoli, generazioni e generazioni di contadini si sono
succeduti nell’osservazione del cielo in quei particolari giorni, e, se
è vero che la tradizione tramandata dalle generazioni non avrebbe
nessun motivo valido di trasmettere un sapere falso privo di un
fondamento di verità, è altrettanto vero che nessun contadino
accetterebbe mai di perdere tempo in attività prive di utilità. Ed è
sempre secondo questo principio, caratteristico di una mentalità
pratica, di carattere utilitaristico (e non potrebbe essere
altrimenti), per la quale unicamente ciò che dà frutto è degno di
attenzione, che solo alcune costellazioni e stelle assumono un ruolo
nella vita dell’agricoltore: alle costellazioni dell’Orsa Maggiore, del
Boote, di Orione, del Cane e delle Pleiadi, ammasso aperto di stelle
della costellazione del Toro, si aggiungono le altre costellazioni
dello Zodiaco, ove i grandi luminari compiono i loro cicli.
Proprio la configurazione peculiare delle Pleiadi, per citare
uno dei numerosi esempi che si possono ricavare dalla tradizione, sette
stelle di media o bassa luminosità una accanto all’altra, conserva da
sempre un particolare legame con le piogge e i temporali: già in tempi
antichissimi il Toro, il cui muggito non era altro che il tuono
apportatore di pioggia e fecondità, era accostato alle precipitazioni
atmosferiche.[44] Sono trascorsi i millenni, le costellazioni hanno
mutato i tempi del loro sorgere e tramontare, ma ancora sembrano
possedere la stessa valenza semiologica, se è vero che nel corso del XX
secolo, in alcune comunità contadine, l’apparizione delle Pleiadi,
“asterisma tempestoso”[45], è sempre annunciatrice di pioggia e cielo
coperto, un “brutto tempo” per i cittadini, che però sa essere fecondo,
in certi casi, per i contadini:
In campagna la pioggia è benedetta o male accetta, a seconda del
momento in cui cade: se nei periodi della crescita delle colture essa
dona la vita, in altri, come il periodo della vendemmia tra metà
settembre e metà ottobre, può compromettere il lavoro di tutto
l’anno.[47]Nel medesimo modo permane traccia del legame, anch’esso
tramandato da millenni, tra Pleiadi e produzione vinicola, testimoniata
già in età classica, e, al di là delle singole configurazioni celesti
concomitanti con le fasi del lavoro agricolo, nella memoria dei
contadini vissuti fino a pochi decenni fa.
Anche la stella più luminosa del cielo, Sirio, astro principale
della costellazione del Cane, è da sempre punto di riferimento per ogni
civiltà agraria, stella sacra agli antichi Egizi (direttamente legata
alle piene del Nilo) e fulcro del calendario astrologico romano: la
stessa cerimonia della Robigalia, nata per scongiurare la “ruggine” del
grano e celebrata in onore di Cerere, dea dell’agricoltura, e divenuta
in tempi più recenti il tradizionale “rito” di purificazione delle
piante durante la Rogazione e nel giorno di San Marco, si celebrava al
tramonto della stella, proprio nel periodo in cui le prime spighe di
grano, appena nate, rischiavano, e rischiano, di essere coperte e
bruciate dalla brina.[48] Gli influssi attribuiti alla stella, che
implicavano sempre i due elementi del fuoco e dell’acqua insieme,
spesso erano nefasti; Jean Stade, astrologo e matematico del
Cinquecento, seguendo l’ampia letteratura a sua disposizione,
dall’astrologia caldea e greca a quella latina, la descrive così: “Al
sorgere mattutino di Sirio si agitano i mari, ribolle il vino nelle
botti [...], si muovono le acque stagnanti, i cani sono colpiti dalla
rabbia e alcuni pesci sono presi da assideramento[49]”. Per questo le
feste in onore della stella sono celebrate nel perenne tentativo di
allontanarne le influenze negative.
Ferma restando la centralità della lunazione nei riti e nelle
usanze contadine, ampiamente trattata da Piercarlo Grimaldi,[50] molte
altre ricorrenze e festività legate ai movimenti delle stelle
regolavano, sia nel mondo romano sia in quello cristiano successivo, la
vita dei campi: l’inizio dell’aratura, il riparo del bestiame, la
raccolta dell’uva, la vendemmia erano regolate da altrettante
apparizioni di stelle e costellazioni. Ce lo tramandano autori come
Esiodo, Ovidio, Virgilio, Plinio (il XVIII libro delle sue Storie
naturali sono una miniera di informazioni), Pietro De Crescenzi, in età
tardo-medievale, e la tradizione contadina, in buon parte orale e a
volte riportata, dal Cinquecento in poi con l’avvento della stampa, in
forma scritta in almanacchi e lunari.
Dai trattati di agronomia e di economica del XVI e XVII secolo,
che dedicavano ampio spazio ai fenomeni e ai movimenti celesti, con la
consueta particolare attenzione a quelli lunari, si passò, nel corso
del Settecento, al più eterogeneo almanacco, vero e proprio bestseller
dell’epoca moderna, dove i segni naturali più generici iniziarono a
occupare pian piano il posto privilegiato dell’astrologia classica, la
quale resistette soltanto per gli elementi riferiti ai grandi luminari,
e dove gli elementi di costume e le curiosità riempivano la maggior
parte delle pagine.[51] Con la fine del Settecento, complice la
condanna pronunciata dalla “nuova scienza” e da parte cospicua della
cultura cattolica, s’inaugura un periodo di forte scetticismo nei
confronti dell’antica scienza astrologica, scetticismo che si
accompagna, dall’inizio della rivoluzione industriale, con la
“distrazione” degli uomini nei confronti del cielo, di cui abbiamo
parlato nell’introduzione; nonostante ciò, il successo di vendite degli
almanacchi e dei lunari non conobbe interruzioni, e possiamo dire che
anche oggi continuano a riscuotere un piccolo seguito; ma, come abbiamo
già detto, si tratta di pubblicazioni eterogenee, che conservano, in
materia astrologica, soltanto indicazioni sulla lunazione. Quel che
oggi permane con più forza nella memoria dei contadini contemporanei,
oltre alla tradizione del sapere sui ritmi naturali, ancora
testimoniato dai lunari, sono i racconti legati ad alcune
costellazioni, deputate a illustrarne l’intreccio, immagini che
rafforzano e consolidano la memoria di ognuno, e che, generazione dopo
generazione, preparano gli animi più disincantati alla meraviglia del
sacro e spiegano il mondo con la semplicità di una fiaba.
Immagini per un racconto
Pressoché tutta la letteratura contemporanea dedicata alla storia
dell’astronomia considera, senza alcuna incertezza, le costellazioni e
gli asterismi - configurazioni più piccole all’interno delle prime -
insiemi di stelle costruiti in modo del tutto convenzionale, nati dalla
fervida mente dell’uomo che intravede in quei punti luminosi del cielo
le tracce di immagini complesse ed evocative, ma che rimarrebbero
comunque semplici associazioni arbitrarie, e quindi mutevoli a seconda
del punto di vista dei diversi osservatori: non si tratterebbe di una
descrizione oggettiva bensì di una visione soggettiva. Ragionando,
però, secondo il principio che vuole le creature e le loro funzioni non
frutto del caso, ma di una precisa volontà intelligente, come sostenuto
da filosofie e religioni anche di diversissime origini e tradizioni,
allora non dovremmo accettare di buon grado questa definizione. Quando
ammiriamo le sette stelle del Grande Carro, riconosciamo una figura a
sé e, anche se magari ignoriamo la sua descrizione presente nei libri
di astronomia, non le assoceremo mai alla vicina stella Arturo, che ci
appare estranea, appartenente a qualcos’altro. Lo stesso fecero prima
di noi tutti gli uomini, di qualunque luogo o tempo. Quella
configurazione di sette stelle è lì nel cielo e nessuno penserebbe mai
di escluderne una o aggiungerne un’altra: possiamo allora definire con
certezza tale associazione priva di un significato naturale, come un
semplice arbitrio della mente umana, come una convenzione?[52] E se
invece quei segni fossero in realtà i distinti caratteri scritti su una
pagina - il cielo - di un libro - il mondo - che gli uomini hanno la
possibilità e il dono di poter leggere? Ciò che i nostri sensi
percepiscono potrebbe davvero non essere “una massa opaca di oggetti
arbitrariamente gettati assieme, ma un Cosmo vivente, articolato e
significativo”[53]. Quei segni potrebbero parlare oltre che del cielo
anche di noi stessi, la loro luce potrebbe aiutarci a trovare la
nostra, conservata nel profondo.[54] In un passo della Bibbia,[55] Dio
stesso fa comprendere a Giobbe la sua inferiorità di uomo, ammonendo
che i “ legami” della costellazione di Chima[56] possono essere stretti
soltanto da Lui. Seguendo il senso di questo messaggio possiamo non
solo sostenere ciò che ci sembra già ovvio, cioè che nessun uomo può
unire materialmente le stelle e mantenerne i legami, potere
incommensurabile ed esclusiva forza divina (quella che sarà la gravità
newtoniana), ma nemmeno stabilire soggettivamente i loro legami,
attribuendo agli stessi diverse configurazioni rispetto a quelle da
Egli create. Le costellazioni, legami di stelle strette da Dio e suoi
segni scritti nel libro del mondo, si presentano all’uomo perché egli
tenti di decifrarle. E sia che si ritengano casuali disposizioni senza
significato o tratti di un più grande disegno intelligente, i tentativi
dell’uomo di classificarle e di intravederne immagini di un racconto,
assumono il valore di testimonianza sul suo modo di interagire con la
realtà e, quindi, sulla sua mentalità e, indirettamente, sulle
trasformazioni della società in cui vive. Lo stesso paesaggio, la
stessa configurazione geografica, sono processi, sì di lunga durata, ma
comunque in continua trasformazione: le stelle e i loro raggruppamenti
in costellazioni, al contrario, non subiscono modifiche percepibili se
non in molte decine di migliaia di anni.[57] Si può quindi sostenere
che, da questo punto di vista, gli uomini di ogni epoca storica hanno
vissuto sotto il medesimo cielo stellato. E prendendo il cielo stellato
come punto di riferimento, praticamente immutabile, sarà più semplice
individuare le trasformazioni nelle idee dell’uomo, vagliandone le
varie testimonianze. Un esempio può chiarire meglio il concetto: gli
antichi Celti raffiguravano nelle loro monete la costellazione di
origine orientale del Cinghiale, animale che simboleggia la casta
sacerdotale, ma in seguito accolsero la tradizione proveniente dalla
Grecia, cambiando il nome della costellazione in Orsa, animale simbolo
della casta dei guerrieri.[58] Ciò a testimoniare, con ogni
probabilità, il passaggio di quella civiltà dall’autorità spirituale a
quella temporale. La stella Arturo, in greco “il guardiano dell’Orsa”,
ci rimanda con il suo nome al leggendario re della tavola rotonda
(forse rotonda come il percorso apparente della costellazione intorno
al polo celeste) sul cui mantello campeggiava proprio un’orsa, mentre
Merlino, il mago, aveva come insegna l’effige di un cinghiale: non
sembra così improbabile una lettura del ciclo arturiano tramite la
chiave dei segni celesti.[59] Ad ogni latitudine e in ogni tempo, le
stelle, solo apparentemente sparse a caso nel cielo notturno, vengono
interpretate come segni dagli uomini e da essi vengono variamente
interpretati.
Tolomeo suggerisce che l‘etimologia del termine zodiaco derivi
proprio da ζωδιο, che vuol dire “segno”;[60] Arato, il cui pensiero è
intriso di stoicismo, lo chiamava il “circolo delle figure
animate”[61], mentre la tradizione dell’astrologia antica lo tramanda
con il suggestivo nome di “cerchio delle immagini”. Sin dall’antichità,
in Grecia a partire da Esiodo e Omero, l’uomo ha tentato di decifrare
il significato di queste “immagini”, attribuendo a esse altrettanti
racconti legati al mito. Lo stesso zodiaco contiene segni che hanno
origine dal racconto delle fatiche di Ercole,[62] la gran parte delle
altre costellazioni dai miti più antichi e dal viaggio degli Argonauti.
Non tutte in realtà vennero classificate dall’uomo nella stessa epoca:
furono dapprima individuate le stelle più luminose (come Sirio, Vega,
Arturo); poi quelle costellazioni che, come abbiamo visto prima,
avevano un particolare interesse per l’agricoltura e la meteorologia,
quelle cioè che appaiono anche nella celebre descrizione dello scudo di
Achille e nei passi di Giobbe[63]; poi le costellazioni dello zodiaco,
ove transitano i pianeti e i grandi luminari; infine le altre
costellazioni, i cosiddetti “catasterismi”. Se da una parte gli
astrologi, come anticamente gli stoici, credevano che le stelle fossero
veri e propri esseri viventi capaci di emozioni,[64] la tradizione
derivante dal mito delle metamorfosi, confluita poi nell’opera
ovidiana, indicò le costellazioni come il risultato delle
trasformazioni dei corpi di eroi e personaggi mitologici in luce
celeste, ovvero proprio i già citati catasterismi: una trasfigurazione
delle vicende mitiche ritenute storicamente esistite, in immagini
celesti visibili a tutti, per conservarne la memoria e illustrarne i
prodigi. Tale consuetudine non si fermerà con la fine del mondo
classico, anzi, proseguirà nel medioevo e nella modernità, con nuovi
protagonisti e nuove storie da raccontare: se da una parte i miti
pagani sopravvivono cristianizzandosi, soprattutto nel mondo rurale,
dall’altra i nomi antichi delle costellazioni, secondo una visione
ormai comune, permangono inalterati fino ai nostri giorni; ma nel
secondo caso si tratta di un fenomeno strettamente legato all’umanesimo
e alla “nuova scienza”, che, riprendendo nomi e fenomeni direttamente
dalla tradizione classica, escludono di netto sia la tradizione
medievale “dotta”, sia la tradizione contadina e popolare. Se leggiamo,
infatti, la breve opera di astronomia scritta da Gregorio di Tours nel
VI secolo,[65]già troviamo la descrizione di costellazioni che,
mantenendo inalterati i loro “legami”, hanno però cambiato nome: così
il Cigno diviene la Croce della Passione, il Delfino diviene la Croce
Minore, l’Auriga diviene il Signum Christi. Circa mille anni dopo,
Julius Schiller, nel suo Coelum Stellatum Christianum (1627), tentava
una razionalizzazione dei nuovi nomi attribuiti alle costellazioni
dalla tradizione popolare e dalla cultura cristiana, attraverso una
personale rielaborazione; dovendosi però scontrare con gli astronomi
moderni, eredi a loro stesso dire del sapere greco-romano, questo
tentativo non avrà alcuna fortuna. Nemmeno la tradizione contadina,
tramandata dalle generazioni, sembra essere stata affatto influenzata
da tale razionalizzazione, sia perché Schiller aveva raccolto solo una
parte dei nomi e delle storie nate dalla fantasia popolare,
integrandole con proprie interpretazioni, sia perché la tradizione si
divideva in mille rivoli locali, ognuno con storie differenti. Nel
testo di Schiller, per esempio, la costellazione a noi nota come Orione
si trasforma in San Giuseppe, mentre nella tradizione contadina,
soprattutto della penisola italiana, era l’asterisma dei Re Magi (le
tre stelle centrali di quella costellazione) ad attirare l’attenzione
di molti e a ispirare storie e leggende sulla nascita di Gesù; ma
l’opera di Schiller, così vituperata dalla letteratura successiva,
sarebbe da rivalutare alla luce di quanto appena detto: non si trattò
di un tentativo di sostituire, ex abrupto, nomi radicati nella
tradizione per impiantarne di totalmente nuovi, scelti ad arbitrio,
bensì la raccolta e la sintesi di tradizioni diverse da quella classica
che finì, in ultimo, per prevalere.
Nelle fredde serate di dicembre, quando i lavori dei campi si
interrompono forzatamente, i contadini, liberati dalla fatica,
trascorrono il loro tempo in attesa delle festività e del nuovo anno
dedicandosi ai riti e abbandonandosi a un breve periodo di riposo.[66]
Se poi le serate che precedono il Natale non si rivelano troppo fredde
e il cielo è sgombro da nubi, essi non disdegnano affatto la
contemplazione del cielo stellato che, nella visione di un
cristianesimo cosmico che non è però paganesimo, si rivela ai loro
occhi come una delle meravigliose opere di Dio.[67] A soffermarsi sono
soprattutto i bambini, ammaliati dallo splendore del cielo terso
dell’inverno e dai racconti dei grandi, che con l’ausilio di quello
spettacolo raccontano e tramandano la storia sacra e, in particolare,
la vita di Gesù. Così per i più piccoli il teatro del cielo, con le sue
meraviglie e le sue storie, diviene motivo di continuo stupore e
prezioso strumento mnemonico: ogni segno conosciuto serve alla mente
per recuperare una storia che in questo modo non viene più dimenticata.
Le immagini che quasi per magia emergono dalle associazioni di quei
puntini luminosi, non sono come le incisioni che da molti secoli
accompagnano i libri di fiabe, non hanno cioè la funzione di
“illustrare” il racconto con il solo scopo di aiutare la fantasia del
lettore a visualizzarne intreccio, ambienti e personaggi; servono,
invece, a riportare alla memoria il racconto stesso che non è affidato
alla scrittura ma alla tradizione orale. Con le debite proporzioni, si
tratta di imbastire un “palazzo della memoria”, dove la memoria del
bambino, e dell’adulto che con il ricordo ritorna bambino, è stimolata
dalle coordinate, cioè i luoghi, l’ordine e la loro disposizione,[68]
che sono rappresentate dalle configurazioni delle costellazioni e della
loro posizione nel cielo. Si tratta in realtà di un “palazzo della
memoria” assai semplificato e basato su immagini piuttosto vaghe, e per
questo diversamente interpretabili, ma, seppur in maniera ben più
precisa, anche i segni impressi nei tarocchi, con ogni probabilità
predisposti per soddisfare la medesima esigenza, sono soggetti da
secoli alle più diverse interpretazioni, pur essendo immagini ben
definite e intelligibili. Nel caso delle configurazioni celesti, appare
quindi inevitabile che si generi l’equivoco,[69] che la stessa
impalcatura del “palazzo della memoria” mirerebbe a scongiurare, in cui
“il medesimo vissuto è affidato a più segni e ognuno di questi segni
vuol essere parola per dire l’uguale e il diverso dalle altre”[70].
Anche se semplificato per essere compreso dai bambini, il “palazzo
della memoria”, che è il cielo, rivela le sue storie, come accade con
le stelle visibili in prossimità del Natale che accompagnano con i loro
racconti l’attesa del grande evento.
L’attesa del Natale era ben rappresentata dal lento percorso che
le tre stelle, luminose e allineate tra loro,[71] compivano la sera
dall’orizzonte orientale verso occidente: in molti abitati della
penisola italiana, queste stelle sono state identificate con i Magi,
tre per la tradizione, nel loro viaggio verso la capanna di Betlemme.
In una versione leggermente differente, di cui abbiamo testimonianza
nel territorio del vercellese, i tre Re Magi si fanno strada con le
loro lanterne, che sarebbero poi le luci delle tre stelle:
In prossimità dei Re Magi brilla la stella più luminosa del cielo,
Sirio: ciò avrebbe suggerito ad alcuni che potesse essere la stella di
Betlemme citata dal Vangelo, una congettura che appare davvero forzata.
Gli stessi contadini sembrano ignorare quest’aspetto della storia,[73]
per un motivo semplice e convincente nello stesso tempo: Sirio si trova
a oriente rispetto alle stelle dei Magi, e tutte si dirigono verso
occidente, così che è la prima a “inseguire” le altre, non il
contrario. Una contraddizione, questa, che non avrebbe aiutato a capire
e a ricordare, e che non poteva di certo superare il vaglio dei
contadini e della loro concretezza.
Come accadeva agli uomini nati tremila anni prima, anche oggi
Orione (e le sue tre stelle della cintura) condivide con le Pleiadi
(insieme al Toro che le accoglie) e con l’Orsa Maggiore il primato
d’interesse da parte dei contadini. Delle prime due abbiamo già
parlato: la prima assume il significato sacro del racconto della
Natività, alle seconde è attribuito il ruolo di scansione dei ritmi
agricoli, il legame specifico con la viticoltura e la caratteristica di
essere apportatrici di pioggia e temporali. L’Orsa Maggiore, invece,
colpisce l’immaginazione per le sue sette stelle luminose e per la sua
posizione nel cielo, molto prossima al polo celeste, che le consente di
essere visibile, nell’Italia centrale e settentrionale, per tutto
l’anno. Leggendo Arato[74] troveremo che nella costellazione dell’Orsa
era già noto l’asterisma del “carro”, Cicerone[75] tradusse quel passo
dal greco al latino sostituendo il termine αμαξα con septem triones,
“i sette buoi”, essendo quello l’appellativo con cui era noto nel mondo
romano. Un carro trascinato da sette buoi - le sette stelle da cui era
formato - era pressoché riconosciuto in tutte le civiltà, con leggere
modifiche che vanno dal cocchio al catafalco funebre. Per i Sassoni
rappresentava il carro di re Artù, per i Franchi quello di Carlomagno,
per i primi cristiani il carro funebre di Lazzaro; la tradizione
contadina ha scelto ciò che più le era congeniale, che era più vicino
alla propria quotidianità: i sette buoi della tradizione latina che,
ruotando incessantemente intorno al polo celeste, si comportano come se
stessero girando intorno a una macina, un’immensa macina celeste[76]:
Anche l’imponente croce latina della costellazione del Cigno, formata
da cinque fulgide stelle e da altre due meno luminose (immagine 2), è
ancora visibile alla sera, bassa all’orizzonte, nelle serate di
dicembre, ma essa è legata a un altro importante periodo dell’anno,
quello della Pasqua, resurrezione del Signore e della natura. Il segno
potente della croce, dal profondo e antico significato simbolico legato
ai concetti di spazio, di tempo e degli stati dell’essere,[78] ha
colpito l’immaginazione dei Cristiani, che, sin dalle origini, attribuì
l’asterisma alla croce della Passione. Gregorio di Tours la identifica
come la Croce Maggiore, Julius Schiller la battezza Croce di
Sant’Elena, per la tradizione contadina del primo Novecento è
semplicemente la croce, quella che a Pasqua sorge la sera verso oriente
e che “sale dalle colline al cielo”. Ecco, in tutta la sua semplicità,
l’ascensione di Cristo, raccontata attraverso il segno celeste delle
stelle, un’immagine indelebile che si ferma nella mente - tramite la
memoria - e nel cuore - tramite la fede - come si stesse assistendo a
una processione, proprio quella alla quale partecipano gli abitanti di
tanti villaggi durante la Settimana Santa:
Così la passione, la morte e la resurrezione di Gesù non vengono solo
commemorate, ma ripetute attraverso i riti e le immagini, nei quali il
fedele si sente contemporaneo e testimone diretto degli eventi.[80]
Il cielo sensibile e le sue luci - lo vedremo più
approfonditamente in un prossimo articolo - sono il ponte che unisce
due mondi - il terreno e l’ultraterreno -, e la morte, il momento
cruciale in cui l’anima dell’uomo transita da uno all’altro, è
tradizionalmente rappresentata come un’ascensione, come una salita
verso il Cielo dell’aldilà, oltre il cielo stellato. Questa salita,
nelle diverse religioni, deve essere intrapresa attraverso i sentieri
di una montagna, i gradini di una scala[81], una corda, un albero,[82]
o anche attraverso una strada celeste fatta di luce, quel fulgido
percorso che fende il cielo, formato da miriadi di stelle, e che si
presenta come una immensa fascia lattiginosa: la via Lattea. Tradizioni
diversissime, da quelle dei nativi americani alla scuola pitagorica
greca,[83] tanto da far pensare alla presenza di un archetipo
culturale, parlano di porte celesti di comunicazione con la divinità e
di sentieri verso l’aldilà, entrambi aperti in prossimità della zona
del cielo ove il Sole raggiunge il punto più basso del suo percorso -
nel giorno di San Giovanni apostolo - e la via Lattea tocca l’orizzonte
nella sua zona più luminosa. Un racconto del tutto simile si tramanda
di generazione in generazione nel mondo contadino della nostra
penisola, nel quale si trasforma in senso cristiano il mito del
passaggio all’aldilà attraverso l’ascesa al cielo, quando “le anime
vanno verso il Paradiso”[84]: una storia che permane viva e presente
nella memoria dei bambini, grazie all’affabulazione degli adulti e
all’incisività delle immagini che il cielo stellato suggerisce.
Alessio Miglietta
Di Alessio Miglietta in Airesis, nelle sezioni I labirinti della ragione ed Ethnikà, sono ospitati i seguenti contributi:
- Alessio Miglietta, Da Zenone a Newton: la fisica stoica e i suoi influssi sulla nuova scienza
- Alessio Miglietta, Il sistema cronologico newtoniano: contesto e princìpi generali
- Alessio Miglietta, Il sistema cronologico newtoniano: le applicazioni astronomiche e antiquarie
- Alessio Miglietta, Luci nella
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NOTE
[1] Esortazione di Pavel A. Florenskij indirizzata ai suoi
figli, nei giorni della prigionia. Florenskij, 2000: 418.
[2] Forse superfluo ricordare la paternità del concetto: Guénon, 1945 /
1982: 53-56.
[3] Che comunque, come si vedrà più avanti, saranno centrali
nell’interesse della scienza astrologica e nelle attenzioni della
cultura popolare, ma non nell’esclusivo significato materiale.
[4] Cfr. Eliade, 1963 / 1966: 224.
[5] Cfr. Angelini, 2010.
[6] Cfr. Zolla, 1971 / 2011: 24.
[7] Gn, I, 14-15.
[8] Eb, XI, 12.
[9] Cfr. Rossi, 2011.
[10] Timeo, 38b.
[11] Fenomeni, vv. 10-14.
[12] Sull’astronomia, IV, 4.
[13] Timeo, 39e.
[14] Ci riferiamo alle ore notturne, tenute in gran conto soprattutto
nell’alto medioevo, per meglio seguire i dettami della Sancta Regula;
le diurne risultavano dalla approssimata divisione del tempo che
intercorre tra il sorgere e il tramontare del Sole, adottata a Roma dal
III secolo a.C.
[15] Siamo ben consapevoli della validità delle moderne teorie
eliocentriche, ma qui vogliamo riferirci al punto di vista
dell’osservatore terrestre, antico e moderno, nel mero atto della
percezione dei fenomeni, così come gli si presentano.
[16] L’astronomo greco Metone trovò che ogni 19 anni solari si
verificano 235 Lunazioni.
[17] Noto dalla tradizione con questo nome, ha una durata complessiva
di 25.920 anni, ma non è, in realtà, il ciclo cosmico indicato da
Platone nel Timeo.
[18] Che inizia quando tutti i corpi celesti si ritrovano nell’identica
posizione. Cfr. Timeo, 39d.
[19] Ovviamente secondo la fisica aristotelica, ma la teorizzazione
della forza di gravità dovrà aspettare il XVII secolo.
[20] E come sostengono le tradizioni ermetica e alchemica, da quei
principi derivate.
[21] Cfr. Angelini, 2011 (2).
[22] Non a caso le antiche tradizioni orientali parlano di “piccolo
circuito celeste”.
[23] Guénon, 1945 / 1982: 24.
[24] Timeo, 39d.
[25] Timeo, 39c.
[26] L’anno lunisolare è contato sia attraverso il corso del Sole che
quello della Luna, con l’utilizzo di giorni intercalari.
[27] Cfr. Eliade, 1949 / 1966: 68, 74-75, 78.
[28] Eliade, 1963 / 1966: 71-72.
[29] Eliade, 1949 / 1966: 105.
[30] Cfr. Eliade, 1949 / 1966: 126.
[31] Cfr. Hani, 1962 / 2000: 55.
[32] Numenio in Porfirio, Sull’antro delle Ninfe, XXI e XXII. Vedi
anche Omero, Odissea, XIII, vv. 109-112.
[33] In Guénon 1962 / 1990: 120, 123, 209, 214.
[34] Giovanni, III, 30.
[35] Grimaldi, 1993 / 1995: 206-208.
[36] A causa della precessione degli equinozi, alla nostra epoca i
solstizi d’estate e d’inverno avvengono rispettivamente in Gemelli e
Sagittario.
[37] Ci riferiamo, per esempio, ad autori precristiani come Manilio e
Tolomeo, e cristiani, come Clemente Alessandrino, Teodereto e Tommaso
d’Aquino.
[38] Cfr. Casali, 2003: 142.
[39] Cfr. Guénon, 1962 / 1990: 126.
[40] Cfr. Angelini, 2011 (2). Per un approfondimento del tema:
Blumenberg, 1979 / 2009.
[41] Eliade, 1949 / 1999: 300-301 e 316.
[42] Grimaldi, 1993 / 1995: 178-179; Casali, 2003: 142.
[43] Cfr. Casali, 2003: 142; Grimaldi, 1993 / 1995: 178.
[44] Cfr. Plinio, Storia della natura, XVIII, 251; Eliade, 1949 / 1999:
76 e 93.
[45] Stade, 1560: 206.
[46] Così ricorda Celestina, nata nel 1920 a Vercelli da genitori
contadini, in un’intervista effettuata dall’autore.
[47] Grimaldi, 1993 / 1995: 237-238.
[48] Cfr. Ovidio, Fasti, IV, 907. In realtà la definizione “stella del
Cane” con cui si individua generalmente Sirio, appartenente alla
costellazione del Cane maggiore, può indicare, più raramente, anche
Procione, astro principale del Cane minore, come nel caso del celebre
passo di Plinio, sempre riguardo la Robigalia. Cfr. Plinio, Storia
della natura, XVIII, 284-286.
[49] Stade, 1560: 201.
[50] Grimaldi, 1993 / 1995: 78-123.
[51] Casali, 2003: 249-256.
[52] Cfr. Cicerone, Sulla natura degli dèi, II, 115.
[53] Eliade, 1963 / 1966: 175.
[54] Cfr. Angelini, 2011 (3).
[55] Gb XXXVIII, 31.
[56] Confrontando questo con altri passi della Bibbia (Giobbe IX, 9 e
Amos 5, XIII) si deduce che ci si riferisce all’ammasso delle Pleiadi.
[57] Ci riferiamo alla luminosità delle stelle e alle loro rispettive
posizioni apparenti, non alla configurazione del cielo rispetto ai
solstizi e agli equinozi che, come descritto sopra, muta sensibilmente
con il passare dei secoli.
[58] Analogamente, questo “passaggio” di era è testimoniato in Grecia
dal mito del cinghiale calidonio.
[59] Cfr. Allen, 1899 / 1963: 425.
[60] Tetrabiblos, III.
[61] Fenomeni, v. 544.
[62] Alcuni dei segni zodiacali greci derivano dai miti più antichi dei
Babilonesi. Cfr. F. Cumont, 1919 / 2012: 17-21.
[63] Cioè Pleiadi, Orione e Orsa Maggiore, cfr. Iliade, XVIII, vv. 481
e ss; Gb IX, 7-9 e XXXVIII, 31 e ss.
[64] Casali, 2003: 105.
[65] De cursu stellarum ratio.
[66] Cfr. Casali, 2003: 137.
[67] Eliade, 1963 / 1966: 208-209.
[68] Cfr. Rossi, 2011.
[69] Cioè l’Enigma, contrapposto al Labirinto (l’univoco), ovvero
fluidità dei significati contrapposta alla fissità dei significati.
Cfr. ibidem.
[70] Ibidem.
[71] Come già detto, sono note all’astronomia ufficiale come le tre
stelle della cintura di Orione.
[72] Dalla stessa intervista citata in precedenza.
[73] Cfr. ibidem.
[74] Fenomeni, vv. 26-27.
[75] Sulla natura degli dèi, II, 41, 105.
[76] Cfr. Petronio, Satyricon, 39.
[77] Dalla stessa intervista citata in precedenza.
[78] Per un approfondimento si veda Guénon, 1931: 33-34. Cfr. anche
Angelini, 2011 (2).
[79] Dalla stessa intervista citata in precedenza.
[80] Eliade, 1949 / 1999: 352.
[81] Come nel caso della scala di Giacobbe. Cfr. Gn XXVIII, 10-12 e
Florenskij, 1922 / 2008: 43.
[82] Cfr. Eliade, 1949 / 1999: 87-88.
[83] Cfr. De Santillana e Von Dechend, 1969 / 1990, p. 294; Guénon,
1962 / 1990: 120, 123, 209, 214.
[84] Così ricorda Virgilio, nato nel 1919 a Genova, in un’intervista
effettuata dall’autore.
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