La Fata Turchina e le metamorfosi di Pinocchio
Paolo Aldo Rossi, Ordinario di Storia del Pensiero Scientifico, Università di Genova
«C’era
una volta … — Un re! …, No, ragazzi,
avete sbagliato … c’era una volta un pezzo di
legno!»
Mai una fiaba aveva avuto come suo protagonista un avanzo di
legname, oltretutto non di pregio, ma un semplice pezzo da catasta;
eppure solo il legno è il materiale vivo per eccellenza,
acquisisce le fisionomie e i lineamenti più vari, col tempo
si altera e muta, cambia il colore con nuove gradazioni…
cioè campa e sopravvive anche quando ha perso la vita
biologica. Quando poi prende la sagoma e l’apparenza di un
burattino allora la storia (la testimonianza percepita) può
diventare fiaba (fabula
o favola fantastica e immaginaria).
I primi 15 capitoli dell’originaria
versione di Pinocchio (a partire dal 7 luglio 1881 sul quotidiano Il giornale per i bambini
di Ferdinando Martini) terminavano, il 27 ottobre 1881, con il
protagonista inconfutabilmente strozzato dagli Assassini:
«Chiuse gli occhi, aprì la bocca, stirò
le gambe e, dato un grande scrollone, rimase lì come
intirizzito», esattamente come può essere un
burattino impiccato.
Carlo Lorenzini (Firenze, 1826-1890), in arte
Collodi, nome del paese della madre, fu sicuramente un curioso amante
dell’esoterismo e un massone (una lettera al libero muratore
Pietro Barbera termina: «In ogni modo mi creda, il fratello
Collodi»)[1].
Della sua iniziazione non esistono documenti ufficiali (ed è
naturale essendo una società segreta e, oltretutto,
scomunicata[2]),
ma vi sono delle ‘dicerie’ come quella creduta
dalla madre di Lorenzini che, afflitta per queste, lo vorrebbe far atto
di presenza alla messa di mezzogiorno così da togliere
queste maldicenze.[3]
In aggiunta Collodi aveva abbracciato le idee mazziniane fin dal
1848-49 per le quali «Dio esiste perche noi
esistiamo»[4]
(sapendo bene che questo Dio non è quello della tradizione
cattolica perché il progresso è «la
sola rivelazione di Dio sugli uomini» [G.Mazzini, Lettera a
Pio IX nel 1865].
La creazione nel 1848 di una Rivista, Il Lampione,
«Ha illuminato — dice il Lorenzini —
tutti coloro che erano in bilico nelle tenebre», ma poco dopo
il periodico incorse negli strali della censura e venne chiuso. Fu
Ferdinando Martini[5],
giornalista-editore fiorentino, che pubblicò a puntate la
favola di Collodi (alla quale manca del tutto l’elemento
costitutivo di tipo cattolico-ecclesiale[6]), dato che la massoneria dopo
l'unità d'Italia era cresciuta e le logge fiorentine Nuovo
Campidoglio e Concordia investivano tutte le loro forze nella
rifondazione laica della pedagogia e per di più della
letteratura per l'infanzia («togliere i fanciulli dalle ugne
del clero», Rivista Massonica, 1873).
L'ispirazione massonica di Pinocchio va
rintracciata nelle parole e nei gesti che si trovano
nell’intero testo: una sorta di percorso iniziatico, la cui
razionalità filosofica s'intesse agli ideali massonici
ottocenteschi, ma è impensabile e inimmaginabile usare lo
spazio accordatomi per fare ciò … «Oh
se potessi rinascere un’altra volta! Ma oramai è
tardi, e ci vuol pazienza!...» – direbbe
Pinocchio nella cuccia di Melampo… Ci vorrebbe un trattato
approfondito pensato in modo da non lasciare spazi né
all’esoterismo di costume né al simbolismo di
maniera. L’unica soluzione è che in una nota
finale provi a dare una sintesi di un Pinocchio scritto da un
‘libero muratore’ ottocentesco senza idea di
completezza speculativa, ma come un esercizio creativo della
ragionevolezza del filosofare in una fabula che narra la
vicenda di ‘un segreto misterioso’ come quella di
un burattino che si trasforma in asino e quindi in giovane uomo.
Non è per altro un caso isolato. La
Favola del Serpente Verde[7] (pubblicata nel 1795
dall’amico e ‘fratello’ Friedrich
Schiller) di Johann Wolfgang Goethe, che fu massone (iniziato il 23
giugno 1780, a Weimar, nella Loggia Amalia), per il suo carattere
ermetico è pensabile interpretarla con rifermenti al sapere
delle Logge. Ma in una lettera a Friedrich Schiller[8], egli si limita a dire:
«Poiché i 18 personaggi implicati nell'azione sono
altrettanti enigmi, gli amanti di enigmi devono trovare il loro
significato».[9] Enigma è un segreto
palese. Un segreto è un segreto solo se può
essere svelato. Il noto, l’evidente, l’ovvio
… non hanno bisogno di qualcuno che li appalesi o che li
faccia conoscere perché qualsiasi persona sa che il notorio
non può essere divulgato. Il termine
‘segreto’, secretum, cioè il participio
passato del verbo secernere = separare (se-cerno), vuole dire
distinguere e quindi fare uso del giudizio, dell’intelletto,
ossia del raziocinio. Il verbo greco è krino, che sta per
scelta, facoltà propria dell'uomo di pensare, di collegare
fra loro concetti e idee secondo rapporti logici e di decidere per il
meglio (secondo la propria opinione o doxa), da cui crisi
e critico. La favola di Goethe è un continuo di significati
simbolici enigmatici, «piena di significato e priva di
spiegazione» [zugleich
bedeutend und deutungslos]. E giustamente scrive Wirth[10]:
«Innanzitutto conviene domandarsi se il Goethe
non si sia divertito a scrivere un racconto enigmatico, per
l’unico piacere di incuriosire i contemporanei, e di far loro
cercare un esoterismo del quale egli non aveva alcuna intenzione.
Goethe si è orientato a lasciar credere che così
fosse. Nessuno ha mai potuto ottenere da lui la minima chiarificazione
sul significato del racconto.»
Il racconto tende a gettare un ponte su un fiume,
che raffigura la separazione fra la durata estrinseca dei sensi e le
aspirazioni ideali intrinseche dell'umano. Vale anche per Pinocchio
che, come tutte le storie o i racconti, può essere letto in
molti modi, dalla favola con morale alla morale senza fiaba.
Collodi introduce la storia di un Serpente «che aveva la
pelle verde, gli occhi di fuoco e la coda appuntata, che gli fumava
come una cappa di camino» e che muore dal ridere vedendo
Pinocchio finito a testa in giù: «restò
col capo conficcato nel fango della strada e con le gambe ritte su in
aria». Non è una storia esoterica, ma solo una
farsa. Comica, burlesca e leggendaria è la storia di Carlo
Lorenzini, il quale aveva scritto il libro — i primi quindici
capitoli — in una notte per pagare certi debiti di gioco,
mentre è veritiera e attendibile la vicenda che i piccoli
lettori (ma anche chi gestiva e dirigeva il giornale) lo abbiano
indotto a finire la storia … sapendo che «Per un
ragazzo gli manca qualcosa, per un burattino c'è qualcosa
più del bisogno».
La vicenda è, a grandi linee, la
seguente: con una lettera del 12 dicembre 1880 Collodi scrive al
responsabile di redazione, Guido Biagi: «Ti mando questa
bambinata, fanne quel che ti pare; ma se la stampi, pagamela bene per
farmi venir la voglia di seguitarla». Il giornalista lo
ringrazia: «Il burattino va benissimo e aspetto il resto con
curiosità» e Collodi riceve il pagamento, 20
centesimi per riga. Biagi, però, invia a Collodi un
biglietto il 5 luglio 1881: «Io mi raccomando a te per il
seguito. Di cui abbiamo un bisogno orribile perché i ragazzi
non si possono lasciare a denti secchi. A quando questo burattino
dunque?» Infatti, i primi due capitoli sono pubblicati il 7
luglio 1881 col titolo La
storia di un burattino nel primo numero del Giornale per i
bambini e la settimana susseguente arriva il terzo capitolo, che
finisce in questo modo: «Quello che accadde dopo,
è una storia da non potersi credere, e ve la
racconterò un’altra volta». La
pubblicazione va avanti fino al 27 ottobre 1881, quando esce il
capitolo dove gli assassini impiccano Pinocchio a un ramo della quercia
grande; secondo l’autore è la fine del racconto:
il burattino sente giungere la sua ora e pensa al padre: «Oh
babbo mio! Se tu fossi qui…». Due settimane
più tardi, quando ormai i piccoli lettori sono persuasi, a
malincuore, che Pinocchio sia morto impiccato, nella rubrica La posta dei bambini
esce l’annuncio nientedimeno del redattore capo, Ferdinando
Martini:
«Una buona notizia. Il signor C. Collodi mi
scrive che il suo amico Pinocchio è sempre vivo, e che sul
suo conto potrà raccontarvene ancora delle belline. Era
naturale: un burattino, un coso di legno come Pinocchio ha le ossa
dure, e non è tanto facile mandarlo all’altro
mondo. Dunque i nostri lettori sono avvisati: presto presto cominceremo
con la seconda parte della Storia d’un burattino intitolata
Le avventure di Pinocchio.» [Giornale per i
bambini, 10 novembre 1881].
Però si deve attendere fino
al febbraio del 1882 affinché torni sul Giornale dei bambini il
Pinocchio non morto, ma vivissimo, fatto rinvenire da una fata dai
capelli turchini (che precedentemente era una bambina e che
però quasi subito muore). Le puntate successive sono
pubblicate regolarmente, ma a un certo punto Collodi non sa
più come andare avanti. Dopo qualche settimana Pinocchio
vuole diventare un vero bambino ed è sulla strada giusta:
«Agli esami delle vacanze, ebbe l’onore di essere
il più bravo della scuola; e i suoi portamenti, in generale,
furono giudicati così lodevoli e soddisfacenti che la Fata,
tutta contenta, gli disse: – Domani finalmente il tuo
desiderio sarà appagato! — Cioè?
— Domani finirai di essere un burattino di legno, e
diventerai un ragazzo per bene.»
Ma la narrazione s’interrompe ancora,
per cui non c’è più traccia del
burattino che sta per diventare un ragazzo. Dopo
più di sei mesi e infinite richieste da parte dei piccoli
lettori del Giornale, il 23 novembre 1882 Pinocchio torna sul
settimanale, ma invece di trasformarsi in bambino si lascia convincere
da Lucignolo a seguirlo nel Paese dei Balocchi.
«Lí non vi sono scuole: lí
non vi sono maestri: lí non vi sono libri. In quel paese
benedetto non si studia mai. Il giovedí non si fa scuola: e
ogni settimana è composta di sei giovedí e di una
domenica. Figurati che le vacanze dell’autunno cominciano col
primo di gennaio e finiscono coll’ultimo di dicembre. Ecco un
paese, come piace veramente a me! Ecco come dovrebbero essere tutti i
paesi civili!...».
I due amici, come si sa, arrivarono felicemente
nel Paese dei balocchi:
«Questo paese non somigliava a nessun altro paese
del mondo. La sua popolazione era tutta composta di ragazzi. I
più vecchi avevano 14 anni: i più giovani appena
8. Nelle strade, un’allegria, un chiasso, uno
strillìo da levar di cervello! Branchi di monelli da per
tutto: chi giocava alle noci, chi alle piastrelle, chi alla palla, chi
andava in velocipede, chi sopra un cavallino di legno: questi facevano
a mosca cieca, quegli altri si rincorrevano: altri, vestiti da
pagliacci, mangiavano la stoppa accesa: chi recitava, chi cantava, chi
faceva i salti mortali, chi si divertiva a camminare colle mani in
terra e colle gambe in aria: chi mandava il cerchio, chi passeggiava
vestito da generale coll’elmo di foglio e lo squadrone di
cartapesta: chi rideva, chi urlava, chi chiamava, chi batteva le mani,
chi fischiava, chi rifaceva il verso alla gallina quando ha fatto
l’ovo: insomma un tal pandemonio, un tal passeraio,
un tal baccano indiavolato, da doversi mettere il cotone negli orecchi
per non rimanere assorditi.»
Infine esce sul Giornale per i bambini
l’ultima puntata di Pinocchio: il burattino ora si
è trasformato in bambino. Pinocchio, ormai bravo ragazzo,
scorge sé stesso:
«Un grosso burattino appoggiato a una seggiola,
col capo girato su una parte, con le braccia ciondoloni e con le gambe
incrocicchiate e ripiegate a mezzo, da parere un miracolo se stava
ritto.»[11]
Chiaro è che la storia di Collodi non
è massonica[12], sia a livello di filosofia
esoterica di fondo sia a livello pedagogico-didattico (una fiaba
— Mürchen — idonea a diffondere i principi
di fratellanza universale attraverso l'insegnamento iniziatico) ma,
visto come sono andate le cose a Lorenzini durante la controversa
stesura delle puntate, Pinocchio è l’opera di un
libero muratore che ha preso dalla massoneria moltissimi dei simbolismi
latomistici inserendoli in un racconto dove tutti i personaggi fanno
parte degli episodi della narrazione a fini educativi e quasi
automaticamente, dato che gli ideali del “cattolicesimo dei
preti” ne erano ben distanti. Le uniche due volte che si
riferisce di un sentimento religioso popolare è quando si
parla di rispetto per Geppetto creduto affogato:
«Pover’omo — dissero allora i pescatori,
che erano raccolti sulla spiaggia; e brontolando sottovoce una
preghiera, si mossero per tornarsene alle loro
case…» e quando Pinocchio, appena salvo dal
diventare una pelle di tamburo, dichiara: «Che vergogna fu
quella per me!... Una vergogna, caro padrone, che
Sant’Antonio benedetto non la faccia provare neppure a voi!
Portato a vendere sul mercato degli asini.»Veramente molto,
ma molto poco, per farne un’opera cattolica: una preghiera
brontolata a chissà chi e il nome del santo degli animali
pronunciato da un burattino ch’era appena stato asino.
Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino
sono anzitutto un inno alla miseria, alla povertà,
all’analfabetismo, alle ristrettezze e, fondamentalmente,
alla fame tipica dell’Italia post unitaria: «Oh!
che brutta malattia che è la fame! …
l’appetito diventò fame, e la fame, dal vedere al
non vedere, si convertì in una fame da lupi, in una fame da
tagliarsi col coltello …» Nei capitoli dal V al
VII la fame è la vera protagonista; il termine compare ben
16 volte e altre 28 volte nel prosieguo della sfortunata e sventurata
storia del burattino …
In ogni caso vorrei, per ora, soltanto leggere le
due storie: quella con e quella senza la Fata Turchina, cioè
dal I al XV e dal XVI al XXXVI capitolo, ovvero quella con la morte
rituale e quella del risorgere definitivamente alla vita.
Le prime metamorfosi: dal legno al burattino
Un vecchio falegname, Mastro Antonio, che
trovò un pezzo di legname che sembrava piangere e ridere
come un bambino, Ciliegia e Polendina che litigano per
un’inezia, cioè il loro sopranome, e fatta pace
l’uno ottiene dall’altro il pezzo di legno con il
quale Geppetto aveva immaginato:
«di fabbricarmi da me un bel burattino di legno:
ma un burattino maraviglioso, che sappia ballare, tirare di scherma e
fare i salti mortali. Con questo burattino voglio girare il mondo, per
buscarmi un tozzo di pane e un bicchier di vino
…».
Il racconto inizia da qui: una storia di
sopravvivenza e d’indigenza nella quale nasce da un pezzo di
legno (sarebbe stato la gamba di un tavolino) il burattino (la
‘marionetta senza fili’) Pinocchio.
«La casa di Geppetto era una stanzina terrena,
che pigliava luce da un sottoscala. La mobilia non poteva essere
più semplice: una seggiola cattiva, un letto poco buono e un
tavolino tutto rovinato. Nella parete di fondo si vedeva un caminetto
col fuoco acceso; ma il fuoco era dipinto, e accanto al fuoco
c’era dipinta una pentola che bolliva allegramente e mandava
fuori una nuvola di fumo, che pareva fumo davvero.»
E’ appunto in questa casa che viene al
mondo ed è ‘battezzato’ o denominato:
«Lo voglio chiamar Pinocchio. Questo nome gli
porterà fortuna. Ho conosciuto una famiglia intera di
Pinocchi: Pinocchio il padre, Pinocchia la madre e Pinocchi i ragazzi,
e tutti se la passavano bene. Il più ricco di loro chiedeva
l’elemosina.»
Più tardi Pinocchio risponde a
Mangiafoco che gli chiede
«Come si chiama tuo
padre?— Geppetto.— E che mestiere
fa?— Il povero.— Guadagna molto?
— Guadagna tanto quanto ci vuole per non aver mai un
centesimo in tasca.»
Con questi esempi d’indigenza
lavoratrice e di operosità che ti lascia nella miseria
—che nel prosieguo del racconto aumenteranno a dismisura,
come il suo naso[13]
— è chiaro che il povero Burattino odia e disdegna
la fatica, sia essa l’onere studentesco che la sfacchinata
del lavoratore di braccia.
Il naso in crescita è diventato la
caratteristica peculiare del burattino e lo sanno tutti i bambini che
raccontano una bugia, la quale, diversamente, è una menzogna
per gli adulti. «La menzogna — diceva Italo Calvino
— non è nel discorso, è nelle
cose»; quando invece è un prodotto della fantasia
o dell’immaginazione è una bugia e «vi
sono le bugie che hanno le gambe corte, e le bugie che hanno il naso
lungo: la tua per l’appunto è di quelle che hanno
il naso lungo». E’ chiaro che il bambino, a forza
di raccontare una bugia[14], finisce col crederla vera e una
bugia tira l'altra, ma è solo nella ciarla o nella
chiacchiera … e il bimbo diventa rosso per la vergogna, per
il pudore, per l’imbarazzo. Arrossire e vergognarsi
è il tipico comportamento del bambino e a Pinocchio, che
è di legno e non di carne, si allunga il naso non potendo
essere affetto da eritrofobia (l’ imbarazzo o la paura
morbosa di arrossire).
E’ vero che le monellerie di Pinocchio
sono rilevate e giudicate dal Grillo Parlante da quando quel
pover’uomo di Geppetto finisce in prigione, ma la colpa non
è del burattino, il quale appena nato ha, secondo natura,
una gran voglia di muoversi per il mondo e difatti
«cominciò a camminare da sé
e a correre per la stanza; finché, infilata la porta di
casa, saltò nella strada e si dètte a
scappare».
La responsabilità è dei
curiosi bighelloni che fanno capannello e criticano tutto e tutti e del
carabiniere
«che sentendo tutto quello schiamazzo, e credendo
si trattasse di un puledro che avesse levata la mano al padrone, si
piantò coraggiosamente a gambe larghe in mezzo alla strada,
coll’animo risoluto di fermarlo e d’impedire il
caso di maggiori disgrazie.»
Ed è qui che il burattino —
dopo il predicozzo del Grillo Parlante che però rimane
lì stecchito e appiccicato alla parete colpito da Pinocchio
con un martello di legno (o la mazzuola del falegname o
dell’intagliatore). … «forse non credeva
nemmeno di colpirlo» - incomincia a sentire la fame:
«Allora si dètte a correre per la
stanza e a frugare per tutte le cassette e per tutti i ripostigli in
cerca di un po’ di pane, magari un po’ di pan
secco, un crosterello, un osso avanzato al cane, un po’ di
polenta muffita, una lisca di pesce, un nocciolo di ciliegia, insomma
qualche cosa da masticare: ma non trovò nulla, il gran
nulla, proprio nulla.»
Infine trova un uovo che rompendosi lascia uscire
un pulcino che lo ringrazia e vola via … poi, nella notte
fredda e tempestosa, va a chiedere l’elemosina di un pezzo di
pane al solito vecchino che invece dalla finestra lo inonda con
bacinella piena d’acqua … tornato a casa tutto
inzuppato cerca di asciugarsi sopra un caldano pieno di brace accesa,
ma si addormenta e si carbonizza e incenerisce i piedi …
basterebbero e sarebbero sufficienti tali disgrazie per un burattino
esclusivamente irrequieto e vivace? Assolutamente no … siamo
solo al settimo capitolo.
A quel punto ritorna Geppetto, che gli ripara i
piedi e gli regala da mangiare tre pere, e Pinocchio per ricompensarlo
di tutto gli promette che andrà a scuola… il
vecchio falegname gli fabbrica allora «un vestituccio di
carta fiorita, un paio di scarpe di scorza d’albero e un
berrettino di midolla di pane» e vende la sua casacca,
rimanendo al gelo in maniche di camicia, per comperare un abbecedario
che, come sappiamo, il burattino monello vende in cambio di un posto al
teatrino delle marionette dove i sui fratelli di legno gli fanno una
grandissima festa mettendo scompiglio nel teatro … il
burattinaio Mangiafoco, per punizione di avergli rovinata la recita, lo
attacca a un chiodo dicendo «un burattino fatto di un legname
molto asciutto, e sono sicuro che, a buttarlo sul fuoco, mi
darà una bellissima fiammata
all’arrosto». Il burattinaio,
«un omone cosí brutto, che metteva
paura soltanto a guardarlo. Aveva una barbaccia nera come uno
scarabocchio d’inchiostro, e tanto lunga che gli scendeva dal
mento fino a terra … ma nel fondo poi non era un
cattiv’uomo.»
Anzi è l’unico personaggio a
considerare e a trattare Pinocchio da ragazzino e
«ogni volta che s’inteneriva davvero
aveva il vizio di starnutire. Era un modo come un altro, per dare a
conoscere agli altri la sensibilità del suo cuore.
… Aprí affettuosamente le braccia e disse a
Pinocchio: Tu sei un gran bravo ragazzo!»
Ed è l’unico che lo dice.
«Vieni qua da me e dammi un bacio. -
Pinocchio corse subito, e arrampicandosi come uno scoiattolo su per la
barba del burattinaio, andò a posargli un bellissimo bacio
sulla punta del naso.»
L’altra volta che il burattino
«saltò al collo di Geppetto e cominciò
a baciarlo per tutto il viso» è quando il vecchio
vende la sua casacca rimanendo al freddo … E poi,
Mangiafuco, saputo dello stato misero di Geppetto: «Ecco qui
cinque monete d’oro. Va’ subito a portargliele e
salutalo tanto da parte mia».
A questo punto Pinocchio sta risolutamente
tornando dal babbo, proponendosi addirittura di andare a scuola, quando
compaiono il Gatto e la Volpe che gli propongono di andare con loro nel
Paese dei Barbagianni nel luogo in cui c’è il
Campo dei Miracoli dove, seminati e annaffiati, i suoi cinque scudi
diventeranno duemilacinquecento … il Merlo bianco e
l’ombra del Grillo-parlante cercano di dissuaderlo ma invano:
«come siamo disgraziati noi altri poveri ragazzi!
Tutti ci sgridano, tutti ci ammoniscono, tutti ci dànno dei
consigli. A lasciarli dire, tutti si metterebbero in capo di essere i
nostri babbi e i nostri maestri; tutti: anche i Grilli-parlanti. Ecco
qui: perché io non ho voluto dar retta a
quell’uggioso di Grillo, chi lo sa
quante disgrazie, secondo lui, mi dovrebbero accadere! Dovrei
incontrare anche gli assassini!»
Prima di essere strangolato dagli Assassini che
lo stanno inseguendo Pinocchio bussa alla porta della “casina
candida come la neve”:
«Allora si affacciò alla finestra una
bella Bambina, coi capelli turchini e il viso bianco come
un’immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate
sul petto, la quale, senza muover punto le labbra, disse con una vocina
che pareva venisse dall’altro mondo: — In
questa casa non c’è nessuno. Sono tutti morti.
— Aprimi almeno tu! —
gridò Pinocchio piangendo e raccomandandosi.
— Sono morta anch’io.
— Morta? e allora che cosa fai così alla
finestra? — Aspetto la bara che venga a portarmi
via. — Appena detto così, la Bambina
disparve, e la finestra si richiuse senza far rumore.»
E così Pinocchio viene lasciato nelle
mano degli Assassini.
Qui termina il primigenio racconto con la morte
della Bambina e del burattino … non ha importanza se
«Chiuse gli occhi, aprì la bocca, stirò
le gambe e, dato un grande scrollone, rimase lí come
intirizzito», tanto si sa che «i burattini di legno
hanno il privilegio di ammalarsi di rado e di guarire
prestissimo», ma come in tutte le storie dei miserabili anche
in quella di Pinocchio la Grande Consolatrice non ha una parte attiva
… i poveracci non muoiono dicendo una frase celebre ed
esalando con dignità l’ultimo respiro …
e Pinocchio è uno sventurato che
«balbettò quasi moribondo: — Oh
babbo mio! se tu fossi qui!».
Fin qui nulla di straordinario e di fantastico;
è una storia di cronaca nera dove alla fine
c’è un Grillo Parlante stecchito per via di una
martellata colposa, un Merlo Bianco sbranato da un felino, con le penne
e tutto, un pulcino che si salva volando via e, naturalmente, il Gatto
finto cieco e la Volpe falsa zoppa ai quali Collodi non solo ha dato
l’aspetto di animali scaltri, ladri, truffatori e falsi
invalidi, ma li ha resi bipedi e umani, infagottati in panni da
vagabondo o da briccone, personaggi picareschi e naturalmente loquaci e
razionali quanto un farabutto e per di più assassini, dato
che vogliono impadronirsi delle monete d’oro di Pinocchio
usando tutta la delinquenza criminale.
«E così, da che sono al
mondo, non ho mai avuto un quarto d’ora di bene!»
Pinocchio non lo dice per lamentarsi, ma perché è
la pura e nuda verità. Come fa a credere
all’eroismo della bontà, alla forza della
giustizia, al valore della scuola e del lavoro … se il mondo
si presenta per quello che è: un’Italia misera e
affamata, piena di malandrini, di ladri, di canaglie, di
approfittatori. E chi erano i ricchi? Coloro che non appaiono
‘quasi’ mai nella storia, ma sono sempre presenti
accanto, non a fianco ma al disopra, ai giudici ufficiali sancenti
dello Stato e dei carabinieri, persone autoritarie con i deboli e i
miseri … e quindi ricchi che non hanno bisogno
d’altri. Un accenno al loro mondo, per confrontare la favola
con la realtà … l’unica volta che
appaiono, quasi di straforo, è in carrozze signorili e sono
«qualche Volpe, o qualche Gazza ladra, o qualche uccellaccio
di rapina».
Le avventure del burattino
Dal capitolo XVI ha inizio la vera fiaba. La
bella Bambina dai capelli turchini — che in realtà
è «una buonissima Fata, che da piú di
mill’anni abitava nelle vicinanze di quel bosco»
— fa raccogliere il burattino, lo mette a letto e chiama tre
medici per sapere se sia vivo o morto. Con Pinocchio né vivo
né morto — e come risponde il Falco «ha
lasciato andare un sospiro, balbettando a mezza voce: “Ora mi
sento meglio!...”» — hanno
origine le vere e proprie metamorfosi da burattino a somarello e alla
fine in un ragazzino.
Dalla città di
Acchiappa-citrulli al Paese dei Barabagianni e al Campo dei Miracoli,
dall’isola delle Api industriose fino al Paese dei Balocchi e
al terribile Pesce Cane avvengono le più spaventose (ma per
la maggior parte comuni o ordinarie) avventure con la Fata (uno
stranissimo essere sovrannaturale, un essere etereo e magico) che
però fa da spettatore e assiste agli eventi, senza mai
intervenire direttamente con mezzi fatati, ma solo empaticamente,
cioè con l’abilità di intuire e
cogliere cosa un'altra persona sta avvertendo e sperimentando.
La Fata Turchina – peraltro come
Pinocchio - conosce e parla il linguaggio degli animali (tutti i
personaggi ‘non umani’ del racconto lo capiscono e
lo conversano: colombi, falchi, lumache, serpenti, tonni, cani, faine
… ), ma non interviene cambiando la storia; aspetta con
pazienza e dedizione (fino addirittura a morirne … e
ricomparire, quasi subito, in veste di donna) che Pinocchio si ravveda,
ossia termini il suo cosiddetto percorso iniziatico, quello dal bambino
all’adolescente (‘ciclo d'iniziazione’ e
‘rappresentazioni della morte’), dal legno grezzo
al burattino, dal marmocchio al giovane che ha porta il peso della
famiglia. Questo cammino Pinocchio lo fa avendo accanto la Fata ed
è questa la seconda iniziazione, dove il
‘comportarsi bene’ lo farà quando ne
sarà convinto dato che lo comprende, quando sarà
dotato di consapevolezza, di riflessività e di ispirazione e
non perché lo dicono gli altri.
Troviamo animali che hanno tutte le peculiarità delle bestie
che rappresentano, fatta eccezione per un modo di essere,
un’indole e una … parlantina del tutto umane! Essi
sono il Grillo Parlante, il Pulcino che esce dall’uovo, il
Merlo Bianco trangugiato dal Gatto, il Falcone obbediente della Fata
Turchina, la Lumaca indolente e lentissima, il Pappagallo che ride e si
‘spollina’, il Serpente che muore dal ridere, le
quattro Faine ladre di polli, il Colombo gigante, il Delfino che
elargisce notizie a Pinocchio sull’Isola delle Api
industriose, la Lucciola che conforta Pinocchio preso alla tagliola, la
bella Marmottina del Paese dei Balocchi, il Cane mastino Alidoro che
non sa nuotare, il Tonno filosofo [«Quando si nasce tonni
c’è più dignità a morire
sott’acqua che sott’olio”!»],
… e quelli che non hanno alcuna
loquacità: il gatto di Geppetto, i topolini della carrozza
di Medoro, i Picchi che gli accorciano il naso, gli animali mendicanti
del paese di Acchiappa-Citrulli, i ventiquattro ciuchini, che invece di
esser ferrati come tutte le altre bestie da tiro o da soma hanno ai
piedi stivaletti da uomo fatti di pelle bianca, i cavalli della
compagnia circense, i pesci che divorano il somarello scaraventato in
acqua, il terribile Pesce-cane ecc… Poi vi sono quelli
antropomorfi: il Gatto e la Volpe, Medoro, il cane barbone, i tre
medici che esaminano Pinocchio morto-vivo, un Corvo, una Civetta e un
Grillo, i quattro Conigli beccamorti «neri come
l’inchiostro» incappuciati, il Giudice-Scimmione
che fa parte di un mondo alla rovescia … e poi gli umani:
mastro Ciliegia e Geppetto, il carabiniere a gambe larghe che sbarra la
strada, il vecchino stizzito che fa i gavettoni, il ragazzo che rifiuta
di comprargli l'abbecedario e il rivenditore di panni usati che invece
lo compra, Mangiafuoco, un burbero dal cuore buono, l’oste
mariolo del Gambero Rosso, il contadino a cui rubano i polli, il
pescatore friggitore dalla barba verde che vorrebbe assaggiare il
pesce-burattino, i compagni di scuola Eugenio e Lucignolo, gli abitanti
del Paese delle Api Industriose, l’Omino untuoso come una
palla di burro … e infine i burattini: Arlecchino, Rosaura,
Pulcinella che conversano, discorrono, prendono la parola, argomentano
… quasi fossero uomini.
Ma i veri protagonisti della storia sono
Pinocchio – pezzo di legno, burattino, né vivo
né morto, un quasi bambino, somarello, che spolpato dai
pesci ridiventa burattino, finisce in bocca al Pesce Cane e finalmente
si trasforma in ragazzo, —e la Fata Turchina, Bambina dai
capelli turchini che morta diventa Fata e poi sorella [«tu
sarai il mio fratellino»] e in seguito una buona mamma; una
donnina misteriosa che lo sfama, la capretta turchina che vorrebbe
salvare Pinocchio belando … e infine una visione onirica.
In questa seconda parte della storia Pinocchio
commette diverse marachelle o birichinate che sono delle vere
scorrettezze, a volte sleali, come quando alla Fata confessa delle
autentiche falsità su dove siano finiti le rimanenti quattro
monete, come se non avesse fiducia e diffidasse della
«sorellina o mamma», mentre al Gatto e alla Volpe
racconta tutto inappuntabilmente e va con loro al Campo dei Miracoli e
come sempre lo ammette:
«Quante disgrazie mi sono accadute ... E me le
merito! perché io sono un burattino testardo e piccoso ... e
voglio far sempre tutte le cose a modo mio, senza dar retta a quelli
che mi voglion bene e che hanno mille volte piú giudizio di
me…»;
diventa fannullone impenitente nel paese delle
Api Industriose
«per vostra regola io non ho fatto mai il somaro:
io non ho mai tirato il carretto! … io non voglio durar
fatica…»;
promette di cambiare e ci mette un attimo a
rimangiarsi la parola data:
«Come farò a presentarmi alla mia
buona Fatina? Che dirà quando mi vedrà?...
Vorrà perdonarmi questa seconda birichinata?... Scommetto
che non me la perdona!... oh! non me la perdona di certo ... E mi sta
il dovere: perché io sono un monello che prometto sempre di
correggermi, e non mantengo mai!...»
e alla promessa della Fata «Domani
finirai di essere un burattino di legno, e diventerai un ragazzo
perbene», finisce con l’andare con Lucignolo nel
Paese dei Balocchi e diventare un asino … e
«da somarello guardando, vide in un palco una
bella signora, che aveva al collo una grossa collana d’oro
dalla quale pendeva un medaglione. Nel medaglione c’era
dipinto il ritratto d’un burattino».
Mangiata dai pesci la carne del ciuco e ritornato
burattino:
«la rivide in mezzo al mare uno scoglio che
pareva di marmo bianco, e su in cima allo scoglio, una bella caprettina
che belava amorosamente e gli faceva segno di avvicinarsi. La cosa
piú singolare era questa: che la lana della caprettina,
invece di esser bianca, o nera, o pallata di piú colori,
come quella delle altre capre, era invece tutta turchina, ma
d’un turchino cosí sfolgorante, che rammentava
moltissimo i capelli della bella Bambina»,
la quale però non riesce proprio a
salvare Pinocchio dal Pesce Cane.
Ritroviamo la povera Fata — mentre il
burattino ce la mette tutta per aiutare Geppetto ammalato —
che giace in un fondo di letto all’ospedale! ... Come dice la
lumaca cameriera della Fata: «Colpita da mille disgrazie, si
è gravemente ammalata, e non ha piú da comprarsi
un boccon di pane». E così ne ha due di infermi a
cui pensare.
E la storia termina con la Fata che compare, ma
solo in sogno:
«Poi andò a letto e si
addormentò. E nel dormire, gli parve di vedere in sogno la
Fata, tutta bella e sorridente, la quale, dopo avergli dato un bacio,
gli disse così: Bravo Pinocchio! In grazia del tuo buon
cuore, io ti perdono tutte le monellerie che hai fatto fino a
oggi.»
Nota finale – Pinocchio e la Fata “latomistica”
Nella storia di Pinocchio, dove sono presenti sia
il termine babbo e mamma [Geppetto e la Fata Turchina], non compare mai
il termine ‘dio’. «Dio esiste.
— aveva scritto Giuseppe Mazzini — Noi non dobbiamo
né vogliamo provarvelo: tentarlo, ci sembrerebbe bestemmia,
come negarlo, follia. Dio esiste, perché noi
esistiamo»[15] e per Carlo Lorenzini la questione
era chiusa. Poteva anche chiamarsi, per i fratelli massoni, il Grande
Architetto dell’Universo, ma in una fiaba non era il caso di
inserirvelo, anche perché «Dio vive nella nostra
coscienza, nella coscienza dell'Umanità, nell'Universo che
ci circonda». Il nipote di Collodi ci ricorda che lo zio
raccontò alla madre di avere fede in Dio, anche se in tema
di religione la ragionava un po’ a modo suo[16] e nel nostro Ottocento essere
laicisti (non necessariamente anticlericali) e credenti voleva dire
appartenere alla Massoneria.
Il Grande Architetto dell’Universo era
il Demiurgo
(δημιουργός)
o l'artefice divino ordinatore del mondo (ma letteralmente
‘chi lavora per il popolo’, il faber) e Collodi
inizia il racconto non da un dio onnipotente, ma da due fabbri, da due
artefici[17]
o falegnami, che hanno a che fare con del legno grezzo e non levigato
di cui Mastro Ciliegia vuole fare la gamba di un tavolino mentre Mastro
Geppetto vuole farne un burattino vivente; l’uno lavora con
l’ascia e la pialla e l’altro con
l’intaglio.
Questo ricorda certamente Orazio nel Libro I,
Satira 8, vv. 1-3:
«Olim truncus eram ficulnus, inutile lignum, cum
faber, incertus scamnum faceretne Priapum, maluit esse deum. deus inde
ego» [«Un tempo ero un tronco di fico, un legno
buono a nulla, quando un falegname incerto se farne uno scanno o un
Priapo, decise per il dio»[18]].
Dal pezzo di legno da catasta i due mastri
vogliono fare cose diverse ma alla fine Geppetto «con il suo
bravo pezzo di legno … se ne tornò zoppicando a
casa» [la classica deambulazione massonica avanzando di tre
passi in avanti con il piede sinistro e riunendo a squadra il piede
destro].
Per prima cosa dà un nome alla
creatura che sta per intagliare: quindi Geppetto è nomoteta
o legislatore del linguaggio[19] e sa che soltanto l'uomo di cui
viene pronunciato il nome è vivo e come dice la Bibbia
avendogli dato un nome significa possederlo[20] e Pinocchio è il nome
che deriva dal pinolo, il seme del pino marittimo contenuto dalla
pigna, che è forte ma leggera. E proprio su di un pino
Pinocchio sale, con un cammino tipico del Maestro che si muove nello
spazio, ma solo per questa volta sale intenzionalmente su un albero
(piano verticale) per sfuggire agli assassini, al contrario
dell’Apprendista che procede solamente su piani orizzontali.
«Geppetto prese subito gli arnesi e si
pose a intagliare e a fabbricare il suo burattino». Gli fa
gli occhiacci di legno che si movevano e lo guardavano fisso, il nasone
che cresceva e che non finiva mai, la bocca che cominciò
subito a ridere e a canzonarlo, tirando fuori la lingua; quindi gli
fece il mento, poi il collo, poi le spalle, lo stomaco, le braccia e le
mani. Però mancava qualcosa di importante …
«voleva dargli subito una buona tiratina d’orecchi.
Ma figuratevi come rimase quando, nel cercargli gli orecchi, non gli
riuscì di poterli trovare: e sapete perché?
perché, nella furia di scolpirlo, si era dimenticato di
farglieli».
La credenza nasce dall'ascolto: fides ex auditu
ovvero pistis ex
akoès (Romani 10, 17) e come poteva udire un
burattino, a cui mancano le orecchie, ascoltare qualcuno che gli
ricordava la voce della coscienza e, tramite questo senso sociale, la
vita morale? Nel rituale per diventare da apprendista a compagno
d’arte, l’udito è importante
perché finora quello che avevi imparato ti proveniva in gran
parte da questo senso… Pinocchio non è sordo, ma
gli manca il fondamentale organo per l’ascolto, ossia del
prestare orecchio a livello psichico … e sarà
così fino a quando gli spunteranno le orecchie
d’asino allorquando rivede la Fata, che però
sparisce subito: «Si sentí come morire: gli occhi
gli si empirono di lacrime e cominciò a piangere
dirottamente».
Quando perde la sua forma asinina mangiata dai
pesci Pinocchio vede di nuovo la Fata sotto forma di capretta turchina
che «spenzolandosi tutta sul mare, gli porgeva le sue zampine
davanti per aiutarlo a uscir fuori dell’acqua».
Ma deve ancora essere messo nel Gabinetto di
Riflessione per dare inizio a una nuova iniziazione:
«Intorno a sé c’era da ogni parte un
gran buio: ma un buio così nero e profondo, che gli pareva
di essere entrato col capo in un calamaio pieno
d’inchiostro».
Lì trova un Tonno Politico che non sa
dargli aiuto, per il momento, che a parole, ma seguendo il piccolo
chiarore che vedeva baluginare da lontano
«trovò una piccola tavola
apparecchiata, con sopra una candela accesa infilata in una bottiglia
di cristallo verde, e seduto a tavola un vecchiettino tutto bianco,
come se fosse di neve o di panna montata».
Se Geppetto è il maestro che porta con
sé, presenta al mondo e cura con sollecitudine paterna
Pinocchio, la Fata turchina (la Massoneria Azzurra, quella con i gradi
di Apprendista, Compagno e Maestro) gli sta vicino da quando ha
ricevuto l’iniziazione e la morte rituale
(l’impiccagione alla Quercia Grande) e l’accompagna
nella vita successiva che inizia proprio da lei che manda un Falco a
staccarlo dal nodo scorsoio sentendogli dire: «Ora mi sento
meglio!...», poi chiama un Cane barbone per riportarlo a
casa, con una carrozzina tirata da cento pariglie di topini bianchi, e
quindi manda a chiamare i tre medici (anche se ha già
sentito che non è ancora morto perbene). Pinocchio deve bere
la medicina amarognola e sgradevole, ma resa dolce dallo zucchero [la
Coppa delle Libagioni che viene offerta al recipiendario prima dolce e
poi amara].
Pinocchio si era sottoposto alle prove:
dell’aria con il pulcino che gli sfugge, dell’acqua
con il vecchietto che gli versa addosso una catinella che lo innaffia
dalla testa ai piedi e del fuoco sopra il caldano che gli brucia i piedi[21];
quindi va a scuola … non proprio! va al teatrino delle
marionette dove i burattini gli confermano:
«È il nostro fratello
Pinocchio!” È impossibile figurarsi gli
abbracciamenti, gli strizzoni di collo, i pizzicotti
dell’amicizia e le zuccate della vera e sincera fratellanza,
che Pinocchio ricevé in mezzo a tanto arruffío
dagli attori e dalle attrici di quella compagnia
drammatico-vegetale.»
Questo è quello che avviene nella
stanza dei passi perduti della Loggia dopo che il profano è
accettato dai fratelli, finché non esce fuori il burattinaio
(il Venerabile):
«Aveva una barbaccia nera come uno scarabocchio
d’inchiostro, e tanto lunga che gli scendeva dal mento fino a
terra: basta dire che, quando camminava, se la pestava coi piedi. La
sua bocca era larga come un forno, i suoi occhi parevano due lanterne
di vetro rosso, col lume acceso di dietro; e con le mani schioccava una
grossa frusta, fatta di serpenti e di code di volpe attorcigliate
insieme» (la spada fiammeggiante?).
Mangiafuoco «specie con quella
sua barbaccia nera a uso grembiale» [è il
grembiule che i fratelli indossano, come segno distintivo e simbolo
iniziatico della Libera Muratoria nei suoi 3 gradi], non era un cattivo
uomo cattivo, anzi … a sentirsi chiamare Signore, Cavaliere,
Commendatore [si vedano in massoneria il Rispettabilissimo,
Illustrissimo, Venerabilissimo. Elettissimo, Potentissimo
…], non ci sente, ma di fronte a quell’Eccellenza
cede e gli fa la grazia: «Tu sei un gran bravo ragazzo! Vieni
qua da me e dammi un bacio» [il Maestro Venerabile pone la
spada fiammeggiante sul capo del Neofita … poi lo aiuta ad
alzarsi lo abbraccia e lo bacia e gli dice “tu sei mio
fratello” e questo segna l’iniziazione di un
apprendista]; e i burattini cominciarono a saltare e a ballare:
«Era l’alba e ballavano sempre».
Pinocchio decide di andare a scuola e a mettersi
a studiare «a buono» o per davvero. Ma incontra il
Gatto e la Volpe che lo persuadono a non andarci per avere
più monete o metalli.
Il Gatto, compagno furfante della Volpe,
è cieco [troviamo ‘la benda’, che
ricopre gli occhi dell’iniziando], mentre la Volpe, a sua
volta, è zoppa [e ciò evoca un altro simbolo
massonico legato a questo concetto e infatti, il profano che sta per
accedere all’iniziazione, deve avere gamba e ginocchio destro
nudo e piede sinistro scalzo e i primi passi dell’iniziazione
vanno eseguiti zoppicando, solo dopo di ciò il cammino
può diventare regolare]. L’iniziando porta al
collo una corda con un nodo scorsoio …
La bella Bambina dai capelli turchini, una
bonissima Fata, una buona mamma, la sorellina, la donna («mi
lasciasti bambina, e ora mi ritrovi donna; tanto donna, che potrei
quasi farti da mamma»), la capretta dal manto turchino, e
infine una visione onirica dell’epifania finale ... la Fata
Turchina è tutte queste cose per cui il burattino le
domanda:
«Ma come avete fatto a crescere così
presto?— È un
segreto.— Insegnatemelo: vorrei crescere un poco
anch’io. Non lo vedete? Sono sempre rimasto alto come un
soldo di cacio.- Ma tu non puoi crescere - replicò
la Fata. - Perché? - Perché i
burattini non crescono mai. Nascono burattini, vivono burattini e
muoiono burattini.- Oh! sono stufo di far sempre il burattino!
- gridò Pinocchio, dandosi uno scappellotto. - Sarebbe ora
che diventassi anch’io un uomo... - E lo diventerai, se
saprai meritarlo... - Davvero? E che posso fare per
meritarmelo? - Una cosa facilissima: avvezzarti a essere un
ragazzino perbene.»
È un segreto, cioè un
concetto non divulgabile e non enunciabile, un contenuto
‘pieno di significato e privo di spiegazione’, la
cui conoscenza è possibile soltanto attraverso l'esperienza
vissuta.
«Il mistero della massoneria —scriveva
Giacomo Casanova —, di fatto, è per sua natura
inviolabile. Il massone lo conosce solo per intuizione, non per averlo
appreso, in quanto lo scopre a forza di frequentare la loggia, di
osservare, di ragionare e dedurre. Quando lo ha appreso, si guarda bene
dal far parte della sua scoperta a chicchessia, fosse pure il suo
miglior amico massone, perché se costui non è
stato capace di penetrare da solo il segreto, non sarà
nemmeno capace di profittarne se lo apprenderà da altri. Il
segreto rimarrà dunque sempre tale. Ciò che
avviene nella loggia deve rimaner segreto, ma chi è
così indiscreto e poco scrupoloso da rivelarlo non rivela
l'essenziale. Del resto, come potrebbe farlo se non lo conosce? Se poi
lo conoscesse, non lo rivelerebbe[22].»
Il numero tre compare molte volte
[allorché un libero muratore — i fratelli dei tre
puntini — si faceva conoscere doveva farlo bussando tre volte
e replicare senza errori a tre domande e l’Apprendista, nel
Rito Scozzese e Francese, aveva l’obbligo della cosiddetta
triplice batteria — una sorta di battimano —,
mentre il novizio aveva la necessità di effettuare almeno
tre viaggi superando la paura della morte e dell’Acqua, del
Fuoco e dell’Aria]. Tre sono le pere e i torsoli avuti da
Geppetto, tre gli starnuti di Mangiafuoco, tre le volte per ordinare il
cibo da parte della Volpe e tre i violentissimi colpi dati nella porta
di camera dell’Osteria del Gambero Rosso dove Pinocchio era
in sonno. Il burattino impiccato dopo tre ore ha sempre gli occhi
aperti e la Fata per chiamare il Falco batte per tre volte le mani
insieme con tre piccoli colpi, il Can Barbone porta un nicchiettino a
tre punte gallonato d’oro e vengono chiamati i tre medici.
Nella storia, ispirata a Goethe, Pinocchio aspetta un’ora,
due ore, tre ore, ma il Serpente è sempre là. Il
Colombo gli dice che ha visto Geppetto tre giorni prima sulla spiaggia
del mare e i compagni gli ribadiscono: la scuola, la lezione e il
maestro sono i nostri tre grandi nemici. Pinocchio dice a Lucignolo
«io che son venuto a cercarti a casa tre volte!»
prima di andare con lui nel Paese dei Balocchi e diventare un asino e
l’Omino di Burro gli racconta che un ciuchino, essendo stato
tre anni in una compagnia di cani ammaestrati, sa dire qualche parola,
mentre a lui per apprendere gli esercizi circensi ci erano voluti tre
mesi di lezioni (è inutile che tutti ricordano Apuleio!). In
mare viene ingoiato dal Pesce Cane, che ha tre filari di zanne, e alla
fine di tutto gli viene indicato che tre campi distante di
lì c’è l’ortolano Giangio
presso il quale Pinocchio con il proprio duro lavoro aiuta Geppetto e
la Fata.
L’Isola delle Api industriose
(l’Officina in cui «tutti lavoravano, tutti avevano
qualche cosa da fare») è il luogo dove ogni
abitante è operoso e quindi le api, che suggeriscono il nome
a questo paese, naturalmente fanno il miele[23].
La colazione in casa della Fata, per celebrare
l’evento, cioè il passaggio da burattino a ragazzo
perbene, si presenta così: «la Fata aveva fatto
preparare dugento tazze di caffè-e-latte e quattrocento
panini imburrati di dentro e di fuori». Il numero non
è a caso. Hiram, l’architetto del Tempio di
Salomone, riportò l’immagine scolpita della
melagrana intorno ai capitelli delle due Colonne:
«E fece due ordini di melagrane attorno
all’uno di quei graticolati, per coprire il capitello
ch’era in cima all’una delle colonne; e lo stesso
fece per l’altro capitello. I capitelli che erano in cima
alle colonne nel portico erano fatti a forma di giglio, ed erano di
quattro cubiti. I capitelli posti sulle due colonne erano circondati da
duecento melagrane, in alto, vicino alla convessità
ch’era al di là del graticolato; c’erano
duecento melagrane disposte attorno al primo, e duecento intorno al
secondo capitello.» (1 Re 18-20)
Non a caso i panini preparati dalla Fata sono
duecento più duecento, come le melagrane, e anche le
duecento tazze di caffè e latte ricordano questo numero
addirittura nel valore cromatico: il caffè è
nero, mentre il latte è bianco come il pavimento del Tempio
a forma di scacchiera. Il Gabinetto di Riflessione è nero,
così come lo stomaco del Pescecane, vi sono delle ossa, un
cranio, un tavolino su cui giace un pezzo di pane, una brocca
d’acqua e del sale. Non manca la volta stellata [sul soffitto
del tempio è dipinto il cielo, la notte e le stelle]:
«poté vedere al di fuori di quell’enorme
bocca spalancata un bel pezzo di cielo stellato e un bellissimo lume di
luna».
Per terminare: Le metamorfosi (Metamorphoseon libri),
o L'asino d'oro (Asinus
aureus) di Apuleio di Madaura che tutti conoscono
— come Pinocchio — «Lector, intende: laetaberis»,
ossia «Lettore capisci che ti divertirai»[24]
e Collodi chiosa: «Quello che accadde dopo, è una
storia così strana da non potersi quasi credere».
«A narrare il mutare delle forme in corpi nuovi mi spinge
l'estro» Publio Ovidio Nasone, (Metamorfosi I, 1) e Orazio
«un Priapo, decise per il dio»[25]
Tutte queste potrebbero essere solo delle
coincidenze … ma se il nostro treno è in ritardo,
la coincidenza certamente partirà in perfetto orario.
Note
1 Tempesti F. Introduzione a Collodi, Pinocchio, Feltrinelli, Milano 1972.
2 Ben diverse erano le cose in America
dove, negli stessi anni di Collodi, Mark Twain (l’autore di Tom Sawyer e di Huchleberry Finn),
scriveva «Il giudice mostrò agli stranieri il
nuovo cimitero, il carcere, le abitazioni dei cittadini più
ricchi, la loggia massonica, la chiesa metodista nonché
quella presbiteriana …» Pudd’head
Wilson, cap, VIII. E i fatti che si raccontano si svolgono fra gli anni
’30 ed ’80 sulla riva missouriana del Mississipi
dove fra i protagonisti vi sono due conti – Angelo e Luigi
Capello – fiorentini che quasi subito fanno parte della
Società dei Liberi Pensatori.
3
«Non sono un miscredente — Lorenzini disse un
giorno alla madre. — A Dio ci credo. Stia tranquilla che ci
credo». Aveva studiato presso il Seminario di Val d'Elsa e
poi dai Padri Scolopi di Firenze ed era profondamente mazziniano,
quindi né ateo né agnostico, ma in questioni di
religione la pensava un poco ‘a modo suo’.
4
Mazzini G., Doveri
dell'uomo, intr. di Giano Accame, ASEFI Editoriale Srl,
Pubblicazioni Terziaria, Milano 1995, cap. 2.
5
«Fatta l'Italia, bisogna fare gli Italiani»
è probabilmente una frase di Ferdinando Martini e non di
Massimo d’Azeglio: cfr. Fare
gli italiani. Scuola e cultura nell'Italia contemporanea,
a cura di S. Soldani e G. Turi, Il Mulino, Bologna 1993, vol. I, p. 17.
Anche l’idea della Enciclopedia Italiana Treccani fu del
Martini (e non del Gentile): massone conclamato, deputato dal 1876 e
amico e condirettore del Il giornale per i bambini con Collodi: cfr. Dizionario Biografico degli
Italiani, Vol. 71 (2008). Era estimatore del Carducci al
quale scrisse una lettera da Libero Muratore «ad un
fratello» e fu collega del Gran Maestro Lemmi, uno degli
autentici promotori del Grande Oriente Italiano.
6
G. Biffi, (Cardinale della Chiesa Cattolica Romana) Le verità
fondamentali di «Pinocchio» da Contro maestro
Ciliegia. Commento teologico a Le avventure di Pinocchio,
Jaca Book, Milano 1977: «Pinocchio è un libro
“cattolico”? Se con questo termine si intende
alludere alla letteratura edificante o apologetica o catechetica che
così viene talvolta denominata, bisogna rispondere senza
esitazione di no» e prima aveva scritto «E non
è certo una latitanza casuale: descrivere nell'Italia
dell'Ottocento le borgate, il paesaggio, la vita associata, senza che
nel racconto compaia mai nemmeno incidentalmente un campanile, un
parroco, un rito, non poteva che essere il risultato di una
intenzionalità».
7
Goethe J. W., Favola,
Adelphi, Milano 1990, Collana Piccola Biblioteca, 251; cfr. la
traduzione inglese The
Fairy Tale of the Green Snake and the Beautiful Lily,
Translated by Tho Schiller mas Carlyle, 1832.
8
Schiller, J. C. Friedrich, Sulla
formazione estetica dell'uomo: in serie di lettere, ed. e
traduzione di Wilkinson, Elizabeth M. e L.A. Willoughby, Clarendon
Press, 1967.
9
«Nella favola si danno da fare più di venti
personaggi. / “Già, e che cosa fanno tutti
quanti?”. “Amico mio, ?la
favola”». «Das Mürchen
Mehr als zwanzig Personen sind in dem Mürchen
beschiiftigt Nun und was machen sie denn alle? Das Mürchen,
mein Freund». Epigramma del ciclo di Xenie di Goethe-Schiller.
10
Il Serpente Verde,
Roma, Editrice Atanòr, Roma 1979, pp. 84-85; 121, commento
di O. Wirth.
11
«Quella che l’adulto vede qui, è
l’immagine della propria infanzia — e
già non riesce più a riconoscerla» [D.
Richter, Pinocchio o il romanzo d’infanzia, Roma, Edizioni di
storia e letteratura, 2002]; cfr. F. Tempesi, Chi era Collodi?
Com’è fatto Pinocchio, in C. Collodi,
Pinocchio, a cura di F. Tempesti, Feltrinelli, Milano
1980.
12
«Ci sono due modi di leggere Le avventure di Pinocchio
— scrive Giovanni Malevolti sulla Rivista web Pietre Sones
http://www.freemasons-freemasonry.com/pinocchio.html —. La
prima è quella che chiamerei ‘profana’
con cui il lettore, molto probabilmente un bambino, impara a conoscere
le disavventure del burattino di legno. La seconda è una
lettura in chiave massonica.»
13
«Il povero Geppetto si affaticava a ritagliarlo; ma
più lo ritagliava e lo scorciva, e più quel naso
impertinente diventava lungo». Il naso sembra il tratto
distintivo di Pinocchio: il carabiniere, lo acciuffò per il
naso e quando lui ritorna a casa e non trova niente da mangiare anzi
una pentola dipinta sul muro e «il suo naso, che era
già lungo, gli diventò più lungo
almeno quattro dita», la notte che va al Campo dei Miracoli
alcuni uccellacci notturni sbattevano le ali sul naso di Pinocchio,
«uno dei due Assassini lo prese per la punta del
naso», il medico corvo tastò il polso a Pinocchio,
«poi gli tastò il naso, poi il dito mignolo dei
piedi: vi ficcò dentro la punta del naso».: nella
medicina della Fata «poi se l’accostò
alla bocca: poi tornò a ficcarci la punta del
naso». Appena detta la bugia «il suo naso, che era
già lungo, gli crebbe subito due dita di più A
questa terza bugia, il naso gli si allungò in un modo
così straordinario, che il povero Pinocchio non poteva
più girarsi da nessuna parte. vi sono le bugie che hanno le
gambe corte, e le bugie che hanno il naso lungo»».
«Il suo naso era cresciuto tanto, che non passava
più dalla porta. un migliaio di grossi uccelli chiamati
Picchi, i quali, posatisi tutti sul naso di Pinocchio, cominciarono a
beccarglielo tanto e poi tanto, che in pochi minuti quel naso enorme e
spropositato si trovò ridotto alla sua grandezza
naturale».. Messa fuori la punta del naso dalla buca del
casotto … e uno dei suoi compagni, “più
impertinente degli altri, allungò la mano
coll’idea di prendere il burattino per la punta del naso,
battendosi coll’indice sulla punta del naso, in segno di
canzonatura”. «A un vecchietto che stava sulla
porta a scaldarsi al sole si toccò il naso e si
accòrse che il naso gli era allungato piu d’un
palmo».
14
Una bollicina bianca sul naso così chiamate
perché si usa dire per scherzo che quelle macchioline o
pipite vengono a chi dice bugie.
15
G.Mazzini, Doveri
dell'uomo, intr. di Giano Accame, ASEFI Editoriale Srl,
Pubblicazioni Terziaria, Milano 1995, cap. 2: Crediamo che Dio
è Dio, e l’Umanità è il suo
Profeta.
16
Paolo Lorenzini "Collodi Nipote", Collodi e Pinocchio, Salani, Firenze
1954.
17
Demiurgòs:
δήμιος
(dèmios), cioè "della gente", ed
ἔργον
(èrgon), ossia artigiano pubblico. Coloro che fanno un
lavoro che esige ingegno e abilità manuale. «Un
mestiere – dirà il Grillo - tanto da guadagnarti
onestamente un pezzo di pane».
18
Lo ricorda anche Bertolt Brecht in Leben des Galilei.
19
Chi sa il nome e padrone delle cose: «tu mi sembri asserire
che colui che sappia i nomi, sa anche le cose» [Cratilo, 435
e]; «i nomi significano a noi l'essenza del tutto che va e si
muove e scorre» [Cratilo, 437a] - o che permane.
20
«Dio, il Signore, avendo formato dalla terra tutti gli
animali dei campi e tutti gli uccelli del cielo, li condusse all'uomo
per vedere come li avrebbe chiamati, e perché ogni essere
vivente portasse il nome che l'uomo gli avrebbe dato. L'uomo diede dei
nomi a tutto il bestiame, agli uccelli del cielo e ad ogni animale dei
campi; ma per l'uomo non si trovò un aiuto che fosse adatto
a lui» (Genesi 2:20-21).
21
E lo ripete. Come quando sfugge agli Assassini (salta un fosso pieno
d’acqua, si arrampica per aria su di un pino ed evita il
fuoco che gli inseguitori avevano appiccato) … come quando
sale su un colombo che lo porta al di là del mare,
entra in acqua e viene catturato da un pescatore verde che sta per
arrostirlo sul fuoco etc …
22
Giacomo Casanova, Histoire
de ma vie, F.A. Brockhaus, Wiesbaden e Plon, Parigi.
Edizioni italiane basate sul manoscritto originale: Piero Chiara (a
cura di), trad. Giancarlo Buzzi, Giacomo Casanova, Storia della mia vita,
ed. Mondadori 1965, VII voll. di cui uno di note, documenti e apparato
critico. Piero Chiara e Federico Roncoroni (a cura di), Mondadori,
Milano , 1983, III voll. Ultima edizione: Mondadori, Milano 2001.
23
Di acacia o robinia il miele toscano per eccellenza (in
gergo per acacia si intende la ‘cascia
toscana’ o la robinia pseudoacacia). «I
know the Sprig of accahsia», il ramo d’acacia segna
il transito tra la ‘seconda morte’ e la
‘terza nascita’, inizio al mondo speculativo.
«Conosco il ramo d’acacia, e tutto ciò
che esso cela».
24
Apuleio, Metamorfosi
(L'asino d'oro), traduzione di Marina Cavalli, Mondadori, I
25
E Orazio aveva di cognome Flacco e l’autore delle Metamorfosi
aveva come nome di famiglia Nasone
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Di Paolo Aldo Rossi in Airesis, nella sezione Il Giardino dei Magi, sono ospitati i seguenti altri lavori:
- Paolo Aldo Rossi, L'utopia rosacrociana nell'età di Bacone e di Cartesio
Nella sezione Le Stagioni della Follia, è invece ospitata la serie completa di interventi da titolo Horror et Amor Diabolicus, dedicata al fenomeno della stregoneria tra medioevo e rinascimento:
- Paolo Aldo Rossi, Horror et amor diabolicus / 1. Le fantasie psicopatiche delle streghe
- Paolo Aldo Rossi, Horror et amor diabolicus / 2. L'unguento per volare al sabba
- Paolo Aldo Rossi, Horror et amor diabolicus / 3. I tempi della tolleranza
- Paolo Aldo Rossi, Horror et amor diabolicus / 4. Il prologo della repressione
- Paolo Aldo Rossi, Horror et amor diabolicus / 5. L'inizio del dramma persecutorio
- Paolo Aldo Rossi, Horror et amor diabolicus / 6. Il Malleus maleficarum
- Paolo Aldo Rossi, Horror et amor diabolicus / 7. Il rapporto etnico-culturale
- Paolo Aldo Rossi, Horror et amor diabolicus / 8. I tempi negati alla speranza
- Paolo Aldo Rossi, Horror et amor diabolicus / 9. Il tema della tortura
Nella sezione I Labirinti della Ragione, Airesis ospita inoltre i seguenti interventi:
- Paolo Aldo Rossi, Razionalità scientifiche e pseudoscienze eretiche
- Paolo Aldo Rossi, Fra scienza e magia: da cosmo ordinato alla natura magica
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