Le ragioni del Newton più occulto
Lo sguardo e il silenzio
Alessio Miglietta - Storico della cultura
In un secolo contraddittorio come il XVII - scenario di uno scontro
tra opposte concezioni di pensiero tra i più esemplari e problematici
della storia delle idee (convivevano a quell’epoca Mersenne e Fludd, La
Peyrére e Ussher, Filmer e Locke, il meccanicismo puro e i diavoli di
Loudun) -[1] non stupisce affatto riscontrare la convivenza di modalità
assai diverse nella comunicazione del sapere, con sodalizi che
propugnavano un approccio essoterico (a volte divulgativo), come
conseguenza soprattutto del principio dell’eguaglianza delle
intelligenze, e individui o gruppi che prediligevano una visione
esoterica, più prudente ma nel contempo più elitaria. Certo, vi erano
discipline la cui vocazione era necessariamente quella della
condivisione, del dialogo[2] e del confronto (dispute comprese), come
la filosofia naturale o la matematica, e altre che, per loro natura, si
prestavano molto meno alla libera diffusione, come le scienze
ermetiche, la qabbalah o la letteratura profetica. Ben lo sapeva Marin
Mersenne (campione dell’approccio anti-esoterico del sapere) che, nel
1625, proprio su questo terreno, sfidava gli alchimisti suoi
contemporanei (ai quali concedeva poco credito), proponendo loro la
fondazione di un’accademia che si esponesse alla luce del sole, che
fosse sottoposta a un controllo pubblico e dove regnasse il libero
confronto tra gli associati.[3] Sfida che in parte raccoglieva, pochi
anni dopo, il comeniano Hartlib Circle di Londra, votato alla didattica
e alla divulgazione, che vantava un discreto numero di membri dediti
allo studio dell’alchimia di derivazione paracelsiana e sperimentale;
ma, si è detto, il Seicento fu un secolo di contraddizioni: anche
all’interno di questo stesso circolo di dotti, infatti, convivevano
uomini come Robert Boyle, convinto assertore di un’alchimia essoterica,
e altri come George Starkey, alias Ireneo Filalete, autore di trattati
alchemici pregni di metafore, di oscuri simbolismi e di termini
esoterici.
La
questione dell’approccio alla trasmissione delle informazioni, in
realtà, non riguardava soltanto le discipline ermetiche, ed era tema
dominante nelle discussioni del tempo: in politica, ad esempio, se al
suddito si raccomandava di mantenere la constantia stoica, al potente e
ai suoi collaboratori si consigliava il silenzio del segreto di Stato;
si additarono, in quegli anni, Seneca e Arpocrate come esempi virtuosi
di un equilibrio sociale che, nei fatti, non si rivelò affatto
stabile.[4] In particolare Arpocrate, dio del silenzio,[5] si trovava
al centro delle attenzioni dei filosofi secenteschi, ovviamente tramite
il filtro baconiano dell’allegoresi mitologica:[6] Gilbert Cuper gli
dedicò una monografia;[7] il neoplatonico Ralph Cudworth (attentamente
studiato da Isaac Newton)[8], anche grazie all’amicizia da lui
coltivata con membri dell’intelligence inglese,[9] era ispirato da un
convinto apprezzamento per il silenzio e la riservatezza, così ben
rappresentati dall’indice che il dio pone davanti alla propria bocca,
invitando chi l’osserva a ricordare che “gli arcani misteri della
teologia”, come quelli della politica, “non devono essere comunicati
promiscuamente, bensì celati al volgare profano”[10]. Il tema
prettamente teologico si era tra l’altro presentato, sin dal secolo
precedente, tra cristianesimo riformato, con la sua attenzione alla
diffusione (anche e soprattutto di carattere divulgativo) della propria
dottrina e il suo appoggio alla conoscenza diretta della Scrittura, e
cattolicesimo romano, che non rinunciava alla mediazione dei propri
sacerdoti tra fedeli e parola divina e che manteneva un approccio più
elitario nei confronti dell’accessibilità alle verità rivelate. Il
neoplatonismo, in crisi dopo Cartesio e l’empirismo e stretto tra le
maglie della censura cattolica, ma ancora vivo, soprattutto
nell’Inghilterra dei Platonici di Cambridge e, in parte, del nuovo
meccanicismo newtoniano[11], conservava tradizionalmente il suo
atteggiamento esoterico ed ermetico, riprendendo stilemi già affrontati
nell’antichità, da Pitagora a Porfirio. Peraltro, la seria valutazione
dei rischi che una diffusione indiscriminata del sapere avrebbe potuto
comportare per la stessa incolumità del genere umano, è ancora ben
presente nell’apologetica della prima cristianità,[12] studiatissima
dagli eruditi secenteschi, soprattutto di area riformata (e ancor di
più dall’eretico unitariano Isaac Newton), anche per la sua vicinanza
temporale all’originario messaggio cristiano. I nemici di Arpocrate,
insomma, non si annoveravano di certo tra gli alchimisti tradizionali e
i moderni funzionari di Stato, né si ritrovavano in molte delle letture
dei filosofi antichi (compresi anche molti aristotelici e averroisti) e
della più risalente cristianità; erano invece presenti tra gli
esponenti di quella “nuova scienza” che all'epoca, pur tra innumerevoli
contraddizioni e incoerenze,[13] s’ergeva a paladina di una nuova
immagine del sapere, dove non trovavano albergo né iniziati né misteri,
ma soltanto uomini ugualmente intelligenti e una verità a tutti
comunicabile, e che troverà l’humus più fertile nell’Inghilterra
baconiana dell’Office of Address e della Royal Society.[14] Lo stesso
vagheggiamento di un linguaggio universale, che non solo in Inghilterra
(come testimonia il progetto leibniziano) prendeva sempre più piede,
contribuiva a contrastare l’idea di elitarismo della scienza in nome
dell’ecumenicità della conoscenza, anche se con scopi d’inclusione
culturale che sapevano di sopraffazione: diffondere la propria
conoscenza per renderla l’unica praticabile, ricorda la ratio della
propaganda protestante, come anche quella, all’epoca in auge, delle
missioni cattoliche (dentro e fuori i confini dei territori in cui
attecchì la Controriforma). In questi termini l’esoterismo può
diventare anche una forma di resistenza al sapere dominante e
ufficialmente accettato, quando dominio diventa sinonimo di
prevaricazione e di censura delle eventuali opinioni “eretiche”. Era
infatti piuttosto comune il sentimento di diffidenza, rectius di
avversione, dei cattolici tradizionalisti nei confronti dell’approccio
esoterico alla conoscenza, secondo il principio, assai discutibile, che
ciò che si nasconde è di per se stesso illecito: furono loro bersaglio,
ad esempio, gli invisibili Rosa-Croce, apparsi misteriosamente negli
anni venti di quel secolo, a Parigi.
Arpocrate, Jan Harmensz. Muller, Amsterdam, 1593
In tale in-temperie
culturale, s’inserisce l’opera di Isaac Newton - edita e inedita - e la
sua instancabile e poliedrica attività di filosofo naturale, matematico
ed erudito; un'attività che solo in minima parte era nota ai suoi
contemporanei: il rigoroso matematico che in pubblico soleva non
fingere ipotesi (con significative eccezioni, per la verità) e che,
salvo un’unica occasione (la pubblicazione della Chronology of Ancient Kingdoms Amended,
come si vedrà più avanti), dava alle stampe soltanto i suoi studi
inerenti la filosofia naturale (dalla meccanica celeste dei Principia
alla chimica del De natura acidorum) e la matematica pura (come nel
Tractatus de quadratura curvarum), celava volontariamente ulteriori e
ingenti studi che egli stesso considerava altrettanto importanti.
Prendendo a prestito un cliché forse fin troppo abusato, si potrebbe
paragonare l’intero lavoro di Newton alla struttura di un iceberg: se
l’opera edita, dal punto di vista strettamente quantitativo, si trova
al di sopra della superficie ed è di gran lunga la meno consistente,
sotto, nascosta ai più, si trova la mole più ingente della sua intera
produzione; non si tratta, però, soltanto dei lavori preparatori alle
opere poi pubblicate o inerenti esclusivamente le discipline
fisico-matematiche, bensì soprattutto di una considerevole massa di
appunti, di traduzioni e commenti, di interi trattati dedicati
all’alchimia, alla storia sacra, alla filosofia ermetica, alla
teologia; aspetti poco noti del suo percorso intellettuale, ma affatto
inusuali per un filosofo del Seicento, che suscitarono nei suoi primi
biografi dapprima sincero stupore, poi colpevole disinteresse,[15] nel
nome di una gerarchia di valori tra ‘scienze’ e ‘pseudoscienze’ secondo
la quale le seconde dovrebbero essere sacrificate, spesso scomparendo
del tutto, alle prime, e che una certa storiografia del passato (e,
incredibile dictu, talvolta del presente) ha eletto come principio
fondante del suo metodo d'indagine.[16] Al contrario oggi, e almeno
dalla seconda metà del secolo scorso, è ormai accettato dall’unanimità
dei biografi newtoniani un suo profilo dalle numerose sfaccettature; di
uno studioso, cioè, che trattò con uguale rigore e competenza
discipline tra le più varie, comprese le scienze ermetiche; ma da
questo punto di non ritorno si dipartono due diverse visioni del nuovo
Newton, a seconda dell’atteggiamento che gli attuali biografi
newtoniani assumono nei confronti della caratteristica impermeabilità
nell'affrontare i vari settori della conoscenza, propria del filosofo
inglese. Da una parte Richard Westfall, pur tenendo in buon conto il
Newton alchimista ed ermetico, lo subordina al Newton filosofo naturale
e non accomuna entrambi a uno stesso metodo di lavoro; dall’altra,
storici come Betty Jo Teeter Dobbs, Frank E. Manuel e Maurizio Mamiani,
colgono nei due aspetti, ugualmente importanti, un comune affondare nel
medesimo terreno metodologico e filosofico, sul quale il genio inglese
adagia ogni suo studio, quantunque egli rimanga, ma solo
superficialmente, un alchimista e nient’altro di più quando scrive di
alchimia, o soltanto un matematico quando calcola, o un cronologo
quando ripensa le datazioni della storia antica. Un terreno comune la
cui fertilità si deve anche al superamento del tabù epistemologico
meccanicista secondo cui non possono esistere azioni a distanza senza
l’intervento di un mezzo corporeo e di un impatto, un limite
concettuale che il Newton alchimista non fatica a scavalcare e che il
Newton filosofo naturale nei fatti decide di ignorare, evitando ipotesi.
Ogni attività, sperimentale o teorica, aveva per Newton una primaria
giustificazione, un principio fondante da cui ogni altra idea dipendeva
e discendeva: la persistente presenza di Dio nel mondo naturale. Egli
credeva in un Dio costantemente partecipe della natura e della storia,
sia attraverso interventi ciclici (come nell'azione vivificante della
materia altrimenti inerte), sia, anche se di rado, tramite impulsi
arbitrari e sovrannaturali (come nelle rivelazioni a patriarchi e
profeti): una visione che secondo alcuni detrattori ridurrebbe il ruolo
divino a quello di un cattivo orologiaio che carica i meccanismi del
cosmo secondo l’occasione,[17] ma che invece concepisce un demiurgo
volontario dispensatore di vitalità e di Provvidenza. Qualunque sia la
disciplina che Newton affronta, il vero e unico oggetto della sua
ricerca è la dimostrazione di tale convinzione, dimostrazione che egli
ritiene di aver ottenuto al di là di ogni ragionevole dubbio, grazie a
un metodo nel quale esperimento ripetibile e descrizione matematica
sono i pilastri strutturali (qualsiasi sia l'ambito disciplinare
affrontato), e tramite la decifrazione del linguaggio divino, nelle sue
varie forme, riportato al suo concreto e originale significato. Che si
tratti, infatti, dei caratteri impressi da Dio nel libro della natura,
da lui tradotti in leggi matematiche universali, o del linguaggio
oscuro dei profeti, tradotto sistematicamente tramite la chiave
decrittante elaborata rigorosamente nel Trattato dell'Apocalisse,[18]
o della trasmissione cifrata dei testi ermetici, reinterpretata
attraverso un'alchimia sperimentale e quantitativa, Newton ritiene di
avere conseguito un’interpretazione rigorosa e sostanzialmente corretta
del messaggio divino. Anche la terminologia ermetica e simbolica
dell’alchimia (che ancora, al tempo di Newton e nonostante Casaubon,
continuava a essere considerata antichissima, come il suo mitico
fondatore Trismegisto), artificialmente costruita per allontanare i
profani, nasconderebbe tra le sue righe la divina sapienza che sarebbe
stata ottenuta dai primi uomini direttamente da Dio; quella prisca
philosophia, cioè, che i maestri di Newton - Henry More e Ralph
Cudworth - indicano, tra gli altri, come la radice ebraica dell'intero
scibile umano. Una verità disvelata ai patriarchi e da essi trasmessa
al popolo (in testa Mosè, "il più grande divulgatore di tutti i
tempi"), ma col trascorrere del tempo corrotta dall'innata tendenza
degli uomini all'idolatria, dalle false filosofie pagane (tra le quali
la più spuria in questo quadro è l'aristotelica) e infine dal
tradimento, perpetrato dai nestoriani, nei confronti del puro
monoteismo cristiano delle origini (così, almeno, secondo l'eretico
antitrinitario ariano, e forse in odore di socinianesimo, che era
Newton in privato).
L’immenso danno: la scelta esoterica
Delle cause che portarono Newton, in quel periodo che si può
individuare tra la seconda metà degli anni settanta del Seicento e
tutto il finire del secolo, a isolarsi dall'alterità, a chiudersi tra
le mura del Trinity College evitando volontariamente e pervicacemente
notorietà e confronto con il resto della Repubblica delle lettere,
senz'altro la più rilevante è lo stesso convincimento, la stessa lucida
volontà di rendere la propria attività di ricerca, una ricerca occulta
nel solco della tradizione ermetica: quella che maturò a partire dalla
metà degli anni settanta fu una consapevole scelta esoterica. Egli
volse lo sguardo verso il passato, nella convinzione che la Verità
fosse da ricercare in un’epoca remota, nella prisca sapientia trasmessa
direttamente da Dio ai primi uomini sulla Terra. Ed è proprio da questo
periodo in poi che Newton si concentra maggiormente sugli studi e sugli
esperimenti alchemici, su quelli di cronologia e di storia sacra, su
quelli teologici e profetici, cominciati già alla fine degli anni
sessanta ma intensificati nel decennio successivo. Mentre la teoria
sulla luce e sui colori - in parte già resa pubblica - e la concezione
generale della legge di gravitazione e il metodo delle flussioni -
delle quali Newton aveva già posto le fondamenta durante l'annus
mirabilis (1666) - venivano conservate gelosamente e coltivate sempre
in privato (troveranno una collocazione pubblica soltanto dalla seconda
metà degli anni ottanta in poi), le ore trascorse nel laboratorio
alchemico e tra le innumerevoli fonti antiche, ermetiche, storiche,
filosofiche, divennero preponderanti nelle giornate spesso solitarie
del filosofo inglese. Se, per dirla con Kuhn, la scienza moderna è
votata a distruggere il proprio passato, al contempo la scienza
newtoniana optava consapevolmente, soprattutto da quel momento in poi,
per una riscoperta delle sue antiche origini, le quali sarebbero state
le uniche depositarie della Verità.
L'alchimia newtoniana rimarrà sempre un'alchimia sperimentale,
quantitativa, anti-allegorica, ma il suo metodo razionale, che, si è
detto, ha come obiettivo la decifrazione del linguaggio criptato degli
antichi testi ermetici, mira a selezionare i passi più oscuri, le
descrizioni di esperimenti più ricche di metafore e simboli dall'ardua
interpretazione, aderenti cioè al motto obscurum per obscurius ignotum
per ignotius. Se i modelli newtoniani in questa disciplina si
annoverano, tra gli altri, anche in Ermete Trismegisto, Jean-Pierre
Fabre, Jean Baptiste van Helmont, è sulle opere di Ireneo Filalete, da
una parte, e Robert Boyle, dall'altra, che si sofferma maggiormente la
riflessione sul tema dell'esoterismo in alchimia. Secondo il primo,
infatti, soltanto l'iniziato, colui che possiede cioè la chiave
d'interpretazione del testo ermetico, potrà accogliere l'insegnamento
dei predecessori e comunicare con i contemporanei; per il secondo,
invece, occorre ripensare l'alchimia come disciplina accessibile a
tutti, liberandola dalla nebbia della metafora e del linguaggio
codificato.[19] Newton, pur considerando l'amico Robert Boyle uno dei
suoi maggiori maestri, finì per propendere, in questo àmbito, per le
tesi di Filalete. Nel 1675, in piena attività di alchimista
sperimentatore, Newton scrive al segretario della Royal Society di
Londra, Henry Oldenburg, commentando le idee di Boyle sulla sua nuova
alchimia essoterica:
Se nei testi ermetici dovesse esserci una qualsiasi verità,
potrebbe forse trattarsi di un modo per accedere a qualcosa di più
nobile da non comunicare al mondo se non con immenso danno; non chiedo
altro, quindi, se non che la grande saggezza del nobile autore lo
induca al silenzio.[20]
Coerentemente a queste parole, Newton non pubblicherà alcun suo testo
di alchimia fino alla morte,[21] pur ritenendo di aver ottenuto
risultati tangibili dai suoi esperimenti (come si approfondirà più
avanti). Non è l’incertezza dei risultati, quindi, a frenare Newton, ma
la preoccupazione che un immenso danno possa colpire il bene comune,
che possa compromettere la stessa incolumità dei profani, come se
alcune verità fossero un pericoloso coltello da sottrarre dalla mano
inesperta di un fanciullo. E proprio tramite una metafora simile,
Newton, riprendendo San Paolo,[22] definisce il linguaggio criptico
delle profezie bibliche “il cibo per gli adulti”, in contrapposizione
al “latte per bambini” rappresentato dal resto del messaggio
veterotestamentario.[23] Ma la scelta esoterica di Newton è una scelta
maturata nel tempo, è un percorso che dal giovane Newton essoterico
approda al Newton maturo ormai convintamente esoterico: una metamorfosi
che avrà come spartiacque la metà degli anni settanta del Seicento.
Newton, anche se già alle prese con i primi studi ermetici, conservava
ancora fino ai primi anni settanta una visione schiettamente essoterica
della modalità di trasmissione della conoscenza. È secondo questo
principio che concepisce il primo trattato dedicato all’esegesi
profetica:[24] nelle sue intenzioni lo scritto s’indirizzava a un
pubblico vasto comprensivo anche di chi non aveva, o poteva avere, una
cultura elevata, ma che fosse comunque in grado di accogliere la
rivelazione, poiché rivelazione e natura condividono la stessa qualità
- la semplicità - e la stessa causa - Dio -. E se nessuna mediazione è
davvero necessaria per la dimostrazione della veridicità del contenuto
biblico,[25] diversamente da quanto sostenuto dai cattolici, allora
anche la stessa erudizione e i mille sofismi della filosofia verrebbero
a offuscare la semplicità e l’immediatezza della natura.[26] Ma una
decina di anni dopo, nei primissimi anni ottanta, la trasformazione
delle idee newtoniane in senso esoterico sembrano già approdate a piena
maturazione; Newton conferma a Thomas Burnet[27] l’idea, derivata da
Agostino, di un “accomodamento” della parola divina per la fruibilità
di tutti - operata, nel Genesi, con la mediazione del grande
divulgatore Mosè che "descrisse la realtà in un linguaggio adattato
artificialmente alle possibilità di comprensione dei sensi e
dell'idioma [del popolo]"[28] - che consente a Newton di affidare al
significato della Scrittura un valore letterale, seppur in una versione
semplificata della realtà che comprende anche le leggi fisiche che
regolano l'universo:[29] quando il Genesi parla dei sette giorni della
Creazione, non si riferirebbe metaforicamente a un periodo di tempo che
nella realtà storica fu necessariamente più lungo, ma proprio a
un'effettiva durata di sette giorni: non è forse vero che Dio ha il
potere di rendere un giorno lungo quanto vuole e quanto necessita?[30]
Due diversi linguaggi, dunque, si presentano al fedele, ed egli, se
vuole veramente comprendere, deve operare un’interpretazione che porti,
in un caso, dalla semplificazione alla complessità del messaggio, e,
dall’altro, dalla metafora profetica al suo più recondito significato
storico-sociale (che in alchimia, che per Newton ha valenze sacre, si
traduce nella risoluzione degli esperimenti descritti in forma di
enigma, traducendoli in esperimenti scientifici ripetibili); ma sono
entrambe le operazioni davvero necessarie alla salvezza? La risposta
ultima di Newton è negativa: se la giusta interpretazione delle
profezie bibliche non è essenziale per la salvezza degli individui, se
essa è prerogativa concessa solo agli iniziati, si svuota di senso la
questione sul vantaggio di renderle pubbliche, di svelarle ai
profani.[31] La verità profetica potrà essere comunicata agli uomini
comuni soltanto in seguito all'effettiva verifica dei fatti
preconizzati, oppure potrà essere svelata con cautela da quei sapienti
che, avendola conosciuta attraverso una corretta esegesi, la renderanno
comprensibile, ma nel grado in cui essa potrà essere accolta dalla
generalità degli individui.
L’elaborazione della scelta esoterica newtoniana ebbe la sua origine
documentata, oltre che dalla lettera a Oldenburg già citata, anche
dalla stesura dei tre manoscritti dedicati all’interpretazione delle
profezie, riuniti poi nel cosiddetto Trattato sull’Apocalisse, mentre
la sua maturazione definitiva è documentata con precisione da un
manoscritto databile intorno agli anni dieci del secolo xviii,[32] ma è
ragionevole supporre che essa risalga almeno al decennio precedente.
Una scelta che, grazie all’ulteriore intensificazione degli studi
alchemici, Newton adotta con convinzione: certe verità non solo non
sono necessarie al volgo, ma possono diventare pericolose se giungono
all'orecchio sbagliato. Comunicare (talvolta) e occultare (più spesso)
la verità, sono per il Newton più maturo due diversi livelli
dell’approccio alla conoscenza che applicherà indifferentemente anche
alle diverse discipline dell’alchimia, della teologia e persino della
filosofia naturale: quando il sapere è adatto ai pochi, o, ancor
meglio, quando esso diviene pericoloso se in mano ai tanti, Newton
chiude le porte ai profani,[33] in perfetto accordo con l’idea che gli
stessi interpreti della prima cristianità avevano dell’accesso alla
conoscenza.
Anche l’accanito approfondimento dei testi antichi - filosofici e
storici - testimoniato soprattutto dalle numerose citazioni presenti
negli Scolii classici, risalenti alla prima metà degli anni
novanta,[34] e dalla vastissima erudizione della Chronology, pubblicata
nel 1728 ma la cui prima stesura si colloca all’inizio del secolo,
instillò in lui l’idea di un esoterismo di fondo, comune a molti degli
autori classici. L’attenzione di Newton si concentra in particolar modo
sulle supposte allegorie dei neoplatonici e dei pitagorici nel
descrivere la natura (sistema eliocentrico compreso), con il medesimo
metodo di studio e obiettivi sperimentati in alchimia e in letteratura
sapienziale, cioè con la decifrazione dell’oscuro linguaggio delle
filosofie ermetiche, artificialmente concepito per nascondere ai più la
vera conoscenza di derivazione divina. Egli, quindi, ferma restando la
convinzione di una comune semplicità delle teofanie della natura, della
storia, della rivelazione, con un percorso del tutto simile a quello
descritto precedentemente, dapprima attribuisce agli autori antichi
brandelli di vera conoscenza, seppur corrotta nel tempo, accusandoli
però di una sorta di occultamento della conoscenza che egli stesso
condanna, ma poi, con l’approfondimento degli stessi autori, conviene
con loro sulla necessità di nascondere alcune verità pericolose per il
volgo, sia esse afferiscano al mondo naturale (con le verità
filosofiche, o alchemiche), sia alla sfera del divino (con le profezie).
Tra piccoli saccenti in matematica: misantropia e misunderstanding
Ad alimentare il profilo occulto della figura di Isaac Newton contribuì
in maniera preponderante, soprattutto agli occhi dei contemporanei, la
sua proverbiale misantropia, unita a una costante difficoltà, e
discontinuità, di rapporti con tutti o quasi tutti i filosofi del
tempo. Peraltro i momenti più fertili dell’intera attività newtoniana -
l’annus mirabilis per gli
studi fisico-matematici e il decennio 1675-1685 per gli studi di
teologia, alchimia, storia sacra e per il consolidamento, poi confluito
nei Principia, delle sue maggiori teorie - sono stati anche i momenti
del suo maggior isolamento: è dunque evidente che Newton cercasse
volontariamente la solitudine e ne ricavasse il massimo giovamento.
Soltanto la fase finale della lunga vita del filosofo naturale inglese
è testimone di un Newton molto più “mondano”, addirittura
istituzionale, con i suoi incarichi di carattere pubblico (al
parlamento, alla Zecca Reale e alla Royal Society) e la meticolosa cura
per le pubblicazioni delle sue opere (le ulteriori due edizioni dei
Principia e le tre dell’Opticks,
su tutte), coincidente grossomodo con il suo trasferimento a Londra
(1696), sotto l’ala protettrice prima degli Orange e poi degli
Hannover. Esiste poi un altro periodo, molto precedente, coincidente
con il ritorno da Woolsthorpe (suo paese natale), dopo l'esilio forzato
per sfuggire alla peste del '66, e conclusosi nel 1672, in cui l'allora
giovane professore lucasiano decise di proporsi alla litigiosa platea
dei filosofi naturali inglesi, raccolti intorno alla fitta rete di
comunicazione della Royal Society, il cui snodo vivente, Henry
Oldenburg, ne gestiva allora il funzionamento e lo sviluppo.
Un'esperienza che, sia all'analisi dei fatti, sia attraverso varie
testimonianze autobiografiche, può dirsi totalmente negativa agli occhi
di un Newton non in grado, per varie ragioni che approfondiremo, di
sostenerne le faticose dispute, caratteristiche di una filosofia
"impertinentemente litigiosa"[35] che egli dimostra di voler evitare.
Già
nel 1670, Newton rispondendo a Collins, il quale lo esortava a rendere
pubblica la sua teoria sulle flussioni, dichiarava di non desiderare
"la pubblica stima" che avrebbe potuto aumentare la sua "cerchia di
conoscenze", cosa che egli stesso in realtà non voleva procurarsi.[36]
Non è ancora il Newton deluso dalle critiche dei suoi colleghi, è
piuttosto ancora il Newton genuino che si affaccia sì verso il mondo
essoterico della filosofia naturale del xvii secolo, ma per innato
carattere non apprezza né il confronto, né tantomeno la mondanità.
Certamente, tra le righe, non è difficile leggere anche una certa falsa
ritrosia, un atteggiamento formale di ostentata modestia che all’epoca
era quasi d’obbligo, ma è innegabile quanto sia evidente il desiderio
d’isolamento. Basti pensare allo stile di vita che si autoimponeva fin
dai primi anni di permanenza a Cambridge e che denota - insieme a una
serie di altri convincimenti di carattere filosofico e teologico da lui
professati segretamente e già felicemente isolati da Davide Arecco
-[37] un'ascendenza puritana (non solo in lato sensu)[38] che accede a
un vero e proprio ascetismo e che senz’altro ha punti di contatto anche
con l’etica stoica.[39] L’effettiva frugalità della sua alimentazione,
la personale idiosincrasia per ogni tipo di sevizia agli animali che
non fosse assolutamente necessaria[40] e la sua astinenza dai rapporti
sessuali, forse anche dovuta a un’inclinazione che non confessava
nemmeno a se stesso, furono scelte a cui non rinunciò mai: due esempi,
questi, che tratteggiano efficacemente il profilo di un Newton
insofferente alla materialità dell’esistenza, cosa che però non deve
affatto far pensare a una sua difficoltà a “sporcarsi le mani” con
attività pratiche, quali la tecnica (si pensi alla costruzione del
riflettore) e la sperimentazione sul campo (con gli infiniti
esperimenti alchemici). Fu proprio la circostanza che portò Newton,
giovane e sconosciuto costruttore dell’innovativo telescopio a specchi,
a presentarne un prototipo al re Carlo II, ad aprirgli le porte della
Royal Society, nonostante una tiepida accoglienza da parte della
comunità dei filosofi inglesi (ma un notevole interesse da parte del
segretario, anche per motivi legati a sentimenti nazionalistici), a cui
Newton reagì tentando di aumentare la posta, salvo pentirsene di lì a
poco, mettendo sul piatto altre segrete conoscenze che gelosamente
celava solo per sé e già da qualche anno. Impaziente di rivelare al
mondo che lo strumento proposto fosse solo uno dei risultati di una
teoria molto più articolata e complessa,[41] suffragata da esperimenti
e descritta matematicamente, ne comunicò una versione nelle Philosophical Transactions del febbraio 1672 e annunciò poco dopo la pubblicazione di un trattato sull’argomento (le Lectiones Opticae).
Ma le critiche e confutazioni che giunsero in risposta alla sua teoria,
lo indussero quasi sùbito a fare un passo indietro: una trattazione
organica dovrà aspettare il 1704 con la pubblicazione dell’Opticks.[42]
Ciò che fece realmente infuriare Newton, non furono soltanto le
critiche in sé (va ammesso però che il suo carattere qui appena
abbozzato non aiutò di certo a renderlo malleabile e aperto al
confronto), ma la stessa incomunicabilità di fondo tra due diverse e
inconciliabili visioni del modo di fare scienza e, in particolare, sul
grado di certezza che la stessa sarebbe stata in grado di raggiungere.
Le posizioni moderatamente scettiche ufficialmente caldeggiate dalla
Royal Society, necessarie a respingere ogni tipo di dogmatismo, non
erano compatibili con un’impostazione, quella newtoniana, che
pretendeva di descrivere con certezza, e non con probabilità, la realtà
delle cose, grazie agli strumenti dell’esperimento ripetibile e della
dimostrazione matematica (quest’ultima la grande arma anti-scettica
brandita cinquant’anni prima da Mersenne)[43]. Robert Hooke (l’odiato
discepolo di Boyle con cui Newton battaglierà fino alla di lui
dipartita) si ostinava a definire “ipotesi” quella che Newton
presentava come “teoria” dimostrata.[44] Con questa forma mentis, Hooke
contestò a Newton, tra l’altro, di non avere il diritto di asserire che
la sua teoria della luce e dei colori fosse “migliore” della propria,
quella cioè esposta qualche anno prima nella Micrographia:
l’experimentum crucis della teoria newtoniana (il celebre doppio
prisma), secondo l’opinione del rivale (che aveva un fondo di verità),
poteva valere esattamente allo stesso modo per entrambe le descrizioni.
Nonostante il tentativo newtoniano dell’An Hypothesis Explaining the
Proprieties of Light che proponeva le teorie sulla luce con
un’impostazione più vicina al modo di ragionare dei filosofi
meccanicisti contemporanei, il dialogo tra queste due diverse visioni
permase un discussione in cui il misunterstanding la faceva da padrone.
I rapporti tra Newton e Hooke si fecero ancor più conflittuali
all’epoca della pubblicazione delle leggi di gravitazione, per motivi
simili; ed è probabile che la nomina che nel 1677 assegnò a Hooke il
ruolo di segretario della Royal Society (in seguito alla morte di
Oldenburg, che più volte cercò di mediare tra la suscettibilità del
professore lucasiano e le vivaci critiche dei suoi colleghi), abbia
accresciuto in Newton il desiderio di mantenersi lontano da quella
comunità di dotti, isolandosi ancor più nello studio delle amate
discipline esoteriche. Lo si nota dal carteggio che i due odiati
colleghi si scambiarono nel 1679, nel quale Hooke lamenta il silenzio
di Newton e il secondo dimostra una forte ritrosia a interromperlo.[45]
Ma è doveroso segnalare come, poco dopo, i due tornarono a confrontarsi
su alcune questioni legate alla gravità (fondamentali, tra l’altro, per
il concepimento della teoria della gravitazione universale e nuovamente
oggetto di litigio tra i due, ai tempi della pubblicazione dei
Principia), com'è giusto ricordare che, in generale, i rapporti
epistolari con gli altri filosofi si diradarono senza però mai
interrompersi del tutto (basti pensare alle lettere sull’attrazione
magnetica solare e sulle comete scritte a Flamsteed).
Anche altri membri della Repubblica delle Lettere presentarono critiche
e confutazioni alle teorie newtoniane, tra le quali le più ficcanti e
circostanziate furono quelle di Huygens, alle quali Newton rispose in
modo spesso oltre i limiti della cortesia, giungendo anche a
interrompere la corrispondenza ex abrupto.
È evidente che qui il difficile carattere, insofferente a un dialogo
critico, si unisce ai motivi schiettamente metodologici fin qui
esposti. Una commistione di elementi che potrebbe anche aver convinto
Newton a evitare qualsiasi pubblicazione del suo materiale dedicato
all’esegesi biblica, decisione risalente proprio alla metà degli anni
settanta del xvii secolo.[46] Nelle sue memorie, William Derham, fellow
alla Royal Society all’epoca della presidenza di Newton, racconta che:
queste controversie […] resero Sir Isaac molto insofferente; egli
aborriva ogni disputa, attribuendo alla pace un bene assoluto. Mi disse
di aver reso deliberatamente astrusi i suoi Principia per evitare di
essere infastidito da piccoli saccenti in matematica, ma non abbastanza
da non essere compresi da dei buoni matematici […].[47]
Principia che, molto
probabilmente, non avrebbero già visto la luce nella seconda metà degli
anni ottanta, senza lo sprone e l’aiuto del giovane Edmund Halley, che
dovette fare i conti direttamente con l’asprezza dei modi e,
soprattutto, la ritrosia a rendere pubblici i proprio lavori del futuro
padre della gravitazione universale. Newton, dopo una prima visita di
Halley, prese nuovamente in mano le questioni già affrontate in passato
su tale argomento e cominciò a redigere il suo capolavoro, che è poi
uno dei testi più importanti di tutta la storia della scienza. Fu però
Halley a sobbarcarsi ogni incombenza pratica, dalla rilegatura alla
diffusione del testo finito, arrivando a contribuire anche
economicamente al progetto. Si deve a lui, dunque, la prima vera
pubblicazione di un trattato newtoniano organico, dopo un silenzio
durato circa vent’anni.
Anche in date più tarde, le testimonianze dell’indole misantropa di
Newton sono frequenti ed eterodirette: cadranno vittima delle
intemperanze e dell’incostanza del filosofo inglese, tra gli altri,
l’astronomo reale John Flamsteed e il padre del liberalismo John Locke.
Il primo, anche grazie al nuovo strumento di precisione per le
misurazioni astrometriche, il grande quadrante murale di Greenwich, fu
in grado di ottenere precise coordinate delle posizioni delle stelle
fisse, indispensabili per l’applicazione astronomica in cronologia
antica tentata da Newton, o il percorso apparente della grande cometa
del 1680, inserito peraltro nel terzo libro dei Principia, e
fondamentale, insieme ad altre osservazioni planetarie e lunari, per la
conferma delle teorie ivi presentate. Flamsteed diffidava di Newton,
temeva infatti di essere derubato del suo lavoro a vantaggio dello
scorbutico collega e nel contempo di essere oggetto di critiche nel
caso le sue osservazioni fossero risultate imprecise (timori a cui
Newton, in altre circostanze, non è estraneo). Newton arrivò
addirittura a estorcere con la forza i risultati di Flamsteed, quando
fu in potere di farlo, cioè quando, dall’alto della sua posizione di
presidente della Royal Society, cominciò a comportarsi da vero e
proprio “autocrate della scienza”[48]. Newton, in collaborazione con
Halley, diede alle stampe una versione non autorizzata delle
misurazioni dell’astronomo reale e non esitò a sfruttarle per i propri
scopi, senza peraltro accreditarne il merito al legittimo autore.[49]
Ma se a inasprire i rapporti tra l’astronomo reale e il presidente
della Royal Society, fu in parte anche il carattere spigoloso dello
stesso Flamsteed, l’amicizia con John Locke fu messa a dura prova per
l’esclusiva responsabilità di Newton. Locke nutrì, per tutta la vita,
una stima illimitata per colui che considerava il più grande filosofo
della natura di ogni tempo, una stima non suffragata, peraltro, da
un'effettiva e approfondita conoscenza della matematica necessaria a
comprendere un trattato “astruso” come i Principia.[50] A dura prova fu
sottoposta la paziente accondiscendenza di Locke, quando Newton,
probabilmente sotto i venefici influssi dei fumi prodotti dai suoi
esperimenti alchemici, che respirava ormai da più di vent’anni, gli
scrisse parole offensive quanto deliranti, fino a dichiarare di
desiderarlo morto.[51] In quello stesso anno, il 1693, l’attività di
alchimista di Newton declinò fortemente, fino a interrompersi, come
s’interruppe il rapporto con l’amico Fatio de Dullier, il giovane
matematico del quale, probabilmente, Newton si era invaghito.
Tre anni dopo, essendo stato nominato Guardiano della Zecca Reale,
Newton si trasferì a Londra ormai ristabilito dalla crisi,
probabilmente anche per iniziare una nuova vita. Nei trent’anni
successivi e fino alla morte, si dedicò, oltre che al contrasto alle
falsificazioni monetarie, alla cura delle edizioni delle opere
riassuntive delle sue teorie sia sull’ottica, con le tre edizioni
dell’Opticks, sia delle sue teorie sulla gravitazione universale, con
le due nuove edizioni dei Principia. Nei momenti liberi, come soleva
dichiarare, si concentrava invece sui suoi studi di cronologia antica
(studi che, in realtà, erano ben più impegnativi di un semplice
passatempo, per quanto si trattasse del passatempo di un genio
assoluto) di cui preparò un’opera da dare alle stampe. Più di tutto,
però, Newton si curò, in questi anni, di creare un’immagine pubblica di
sé - contraddicendo così le sue passate inclinazioni di studioso
indifferente alla “pubblica stima” - che potesse imprimere il
definitivo segno del suo passaggio terreno.
Idee in cassaforte
La celebre disputa sulla paternità del calcolo infinitesimale coinvolse
non solo i due protagonisti - Leibniz e Newton - ma due intere scuole
di matematici, contrapposte per questioni scientifiche ma anche per un
crescente nazionalismo che proprio in quegli anni cominciava a dividere
le scuole filosofiche. Newton subì, in larga parte, questo clima di
guerra tra dotti, non nuovo per lui, come si è visto nel caso del
telescopio riflettore. La disputa internazionale sul calcolo, invece,
esplose a partire dagli anni dieci del XVIII secolo, e non fu, tra
l’altro, l’ultima a cui Newton, suo malgrado, dovette partecipare,[52]
e ha una genesi che può gettare luce sull’intendimento di Newton a
occultare i propri risultati, sotto un’altra prospettiva che, in questo
caso, lo accomuna a molti altri suoi contemporanei. L'esempio più
solare si trova nella cosiddetta epistola posteriore, la lettera con la
quale Newton, tramite Oldenburg, comunicò a Leibniz il suo metodo per
risolvere i problemi inversi delle tangenti,[53] trascritto in codice
anagrammando le frasi latine e occultandone la chiave, gelosamente
custodita, alla stregua di una combinazione, chiudendo in un'ideale
cassaforte i risultati di un lavoro che, evidentemente, egli non voleva
condividere con altri; motivi diversi possono aver spinto a utilizzare
questo espediente: l'idea che qualcuno potesse sfruttare i risultati
delle proprie fatiche per future applicazioni o rubarne letteralmente
la paternità (cosa di cui Leibniz fu accusato) o, più semplicemente,
per criticarne il contenuto. A dire il vero, il procedimento
dell'anagramma era di gran voga al tempo, basti pensare a quello,
anch'esso risalente al 1676, tramite il quale Hooke comunicò la sua
legge sui corpi elastici. Non è chiaro, comunque, se Leibniz riuscì a
decrittare il messaggio o se riuscì indipendentemente a risolvere il
problema matematico, sta di fatto che dieci anni dopo se ne trova
traccia negli Acta eruditorum: è quello il prodromo della grande
disputa anglo-tedesca sul calcolo. Essa s'interruppe con la morte del
filosofo tedesco, lasciando ai newtoniani l'ultima parola (con il Commercium epistolicum
del 1712) e con la convinzione, nell'isola, di averla spuntata: il
tempo consacrerà alla scuola continentale il successo più duraturo.[54]
Ciò non significa che la disputa specifica abbia avuto, anche a
posteriori, un vincitore e un vinto: semplicemente i due giganti della
matematica avevano indipendentemente raggiunto i loro risultati; sarà
però la scuola continentale a proseguire e a sviluppare, nel solco
delle idee di quei due primi pionieri, il calcolo così com'è oggi noto.
È anche vero che entrambi non si scontrarono per motivi esclusivamente
legati alla priorità e alla paternità del calcolo, ma anche, e
soprattutto, fu il loro diverso punto di vista squisitamente
scientifico a divergere e a generare incomprensioni. Ma non fu soltanto
la diversità tra modi di concepire il procedimento matematico a porre
agli estremi opposti i due matematici: lo stesso loro approccio alla
comunicazione fu totalmente differente. Leibniz fu, infatti, al
contrario di Newton, fautore di un linguaggio universale per una
conoscenza accessibile a tutti ed era aduso pubblicare ogni suo lavoro,
affinché il mondo lo potesse utilizzare e, nel contempo, lo potesse
giudicare.
Teorie in pubblico e ipotesi in privato?
A questo punto occorre chiedersi se la dichiarazione di principio, quel
notissimo motto “non fingo ipotesi” con cui Newton definisce nella
seconda edizione dei Principia
il suo approccio alla certezza delle teorie in filosofia sperimentale,
sia da individuare come la ratio tramite la quale il genio di
Woolsthorpe discerne ciò che è degno di pubblicazione e ciò che occorre
mantenere privato perché privo di contenuti certi. Se si seguisse fino
in fondo questo principio, peraltro disatteso in più di una circostanza
dallo stesso Newton, si potrebbe inferire che la totale mancanza di
testi alchemici tra le pubblicazioni newtoniane possa dipendere dalla
personale conclusione che i decenni trascorsi in esperimenti e studi
teorici non abbiano condotto ad alcun risultato affidabile e
sufficientemente dimostrato attraverso una sperimentazione rigorosa.
Ciò però è contraddetto, in primis, dal contenuto del manoscritto della
metà degli anni novanta, dal titolo Praxis,[55]
che è un resoconto, convinto ed entusiasta, dei successi sperimentali
che Newton è sicuro di aver conseguito nella sua pratica alchemica. In
altre circostanze egli si dimostra meno sicuro dei propri risultati,
come nel caso della stesura della Short Chronicle
(1716), altra opera manoscritta (questa volta dedicata alla cronologia
antica) che egli aveva improntato, almeno nelle originarie intenzioni,
come breve epitome da presentare, dopo esplicita richiesta, alla futura
regina d’Inghilterra per un utilizzo strettamente privato. Con la
complicità del patrizio veneziano Antonio Schinella Conti, il
manoscritto approderà addirittura in Francia dove verrà pubblicato,
corredato anche da numerose critiche e confutazioni, nonostante
l’esplicito divieto dell’autore. Tali circostanze portarono l'ormai
vecchio Newton (quello più “mondano” e “istituzionale”) a reagire con
veemenza e giustificarono senz’altro il suo sdegno; la lettera che egli
indirizzò al responsabile di tale sgarbo, l’editore della versione
pirata, spiega come all’epoca il suo sistema cronologico fosse
“imperfetto e confuso” e che per tale motivo quel manoscritto non
doveva essere pubblicato.[56] E se anche l’attenzione di Newton si
concentrò sulle numerose critiche che gli riversarono gli eruditi
d’oltremanica, la sua maggior preoccupazione concerneva l’allora
mancato raggiungimento di risultati certi: egli non voleva che
risultati parziali e non debitamente controllati fossero divulgati e
quindi accostati al suo nome, cioè al suo prestigio. Certezza che egli
stesso dichiarerà di aver ottenuto negli ultimissimi anni della sua
vita,[57] nella preparazione di quella che sarebbe stata poi la sua
ultima opera pubblicata: la Chronology.
Da questi esempi è chiaro, come tra l’altro già dimostrato felicemente
da Frank. E. Manuel e Maurizio Mamiani, che in chiave epistemologica,
Newton non rileva alcuna differenza di valore, sul piano della certezza
dei risultati e sul metodo per acquisirli, tra i suoi lavori editi di
filosofia naturale e i suoi lavori rimasti privati e dedicati
all’interpretazione delle profezie, all’alchimia e alla cronologia. Ed
è ancor più lampante come Newton, in realtà, non mancò d’inserire nelle
sue opere a stampa alcune proprie congetture, pur distinguendole sempre
nettamente dalle teorie dimostrate. Si legge, infatti, nel terzo libro
dei Principia quale fosse il ruolo delle comete nella costruzione
cosmologica newtoniana, ruolo attribuito semplicemente in forma
d'ipotesi o congettura. Non diversamente egli si era comportato
all’epoca delle prime dispute sulla natura della luce con il saggio An Hypothesis Explaining the Proprieties of Light (1675),
tramite il quale Newton tentò di parlare il linguaggio, ai suoi occhi
meno rigoroso, a cui erano abituati i suoi contemporanei; né si era
esentato di proporre ipotesi in calce all’Opticks, nelle celebri
Queries, tra l’altro assai ricche di espliciti influssi alchemici.
Nelle opere newtoniane edite di filosofia naturale sono, quindi, ben
presenti e distinti i due registri: da una parte quello delle teorie
certe e dall’altra quello delle ipotesi probabili.[58] Un discorso a
parte merita la sua opera di cronologia antica che, pur presentandosi
come contenuto di un sistema certo e dimostrato, con tanto di margine
d’errore quantificato, confonde spesso i due registri, presentando come
dati certi congetture a dir poco azzardate.
Per tutti questi motivi, non si può considerare il limes tra certezza e
probabilità, spesso tracciato vividamente da Newton, come la barriera
invalicabile che gli impedì di rendere pubblici alcuni dei suoi lavori.
Verità senza fronzoli
Al contrario, la fama di uomo esoterico del genio inglese fu senz’altro
alimentata dall’oscurità del suo modo di procedere nella trattazione
dei suoi testi, come anche dell’estrema aridità del suo stile di
scrittura. Tra i mille aneddoti che si ritrovano nelle prime biografie,
tra i più celebri v’è n’è uno che racconta di un caustico studente del
Trinity che, vedendolo passare, lo apostrofò dicendo: “Ecco l’uomo che
ha scritto un libro che né lui né nessun altro comprende”. L’anonimo
studente di certo si riferiva alla complessità della matematica
utilizzata nelle dimostrazioni presenti nei Principia (cosa che in lato
sensu ha già in sé elementi esoterici) ma senz’altro denunciava anche
quanto il trattato fosse poco improntato alla chiarezza e
intelligibilità, con le numerose dimostrazioni saltate a piè pari e
lasciate alla buona volontà - e alla necessaria ottima competenza - del
lettore. Il medesimo modo di procedere era peraltro già presente nelle
descrizioni degli esperimenti legati alla teoria della luce e
presentati nei saggi pubblicati all’epoca della disputa risalente alla
metà degli anni settanta, come d’altronde fecero notare gli allora suoi
avversari Hooke e Huygens. La netta preferenza che Newton dimostrò nei
confronti dell’atto della scoperta rispetto a quello della sua
trasmissione all’alterità in modo discorsivo, una distinzione questa
che Robert Sanderson, attentamente studiato dal giovane Newton e che
influenzerà in modo determinante il suo metodo d’indagine, aveva posto
alla base del suo approccio teorico nel Logicae artis compendium, non
gl’impedì di concepire una versione meno oscura del suo sistema di
natura, impostando dapprima un terzo libro più discorsivo e che
riassumesse in termini più chiari gli altri due e, poi, addirittura un
testo ripreso da questo terzo libro ancora più semplificato, con il
titolo di De mundi systemate.
Presto, però, abbandonò il progetto che evidentemente non sentiva
interamente e intimamente come proprio, ma come indotto prevalentemente
da insistenze esterne.
Anche l’ultima opera newtoniana, la Chronology, mantiene inalterato lo
stile arido, del tutto incurante della forma e privo di qualsiasi
compiacimento letterario - il che pone Newton agli antipodi di un suo
precursore in materia scientifica come Galileo - tanto che Westfall
giunse a definirla un’opera “di un tedio colossale”[59]; uno stile che
indica chiaramente il poco interesse verso l’arte della persuasione
tramite la struttura del discorso e la piacevolezza della lettura, a
favore invece della forza che in se stessa può sprigionare la
dimostrazione matematica, o semplicemente rigorosa, della realtà (che
innegabilmente possiede una sua propria eleganza) e che Mamiani,
felicemente, definisce la “retorica della certezza”[60].
La prudenza di un eretico
Il neostoicismo di Giusto Lipsio suggeriva al suddito le virtù della
constantia e della prudentia come antidoto alle prevaricazioni della
coercizione politica, sottraendolo ai rischi della persecuzione e della
censura: un sorta di "vivere nascostamente" già teorizzato dagli
epicurei. Le condanna di Galileo, è noto, aveva consigliato Cartesio,
che avanzava in maschera poiché bene vixit qui bene latuit,
al nicodemismo, già peraltro adottato da Giordano Bruno nel periodo
veneziano, una scelta di discrezione che qualche anno dopo adottò lo
stesso Newton, segretamente eretico, in tutte le sue attività che in
qualche modo, anche del tutto indirettamente, potessero far trasparire
le sue convinzioni teologiche. Egli era antitrinitario e vicino alle
posizioni dell’arianesimo e del socinianesimo: nell’Inghilterra
protestante della sua epoca, si trovò, in tutto il suo lungo percorso
esistenziale, in territorio ostile (nonostante la costante crescita di
consensi della tolleranza lockiana), se si esclude la comune avversione
al cattolicesimo romano che univa sia le dottrine riformate, sia la
confessione ariana. Se, infatti, le esplicite prese di posizione che
Newton adottò nei confronti del filo-cattolicesimo della corona ai
tempi di Giacomo II, gli valsero, dopo la vittoria della Gloriosa
Rivoluzione, la nomina a membro del Convention Parliament
nel 1689, aprendo così la fase più mondana della sua vita, alcuni suoi
comportamenti pubblici, come ad esempio la dispensa dal giuramento dei
trentanove articoli di fede della chiesa anglicana, ottenuta nel 1675,
gli causarono non poche apprensioni e lo convinsero a occultare molte
delle sue opere che contenessero anche soltanto indizi circa la sua
adesione all’arianesimo (fu questo senz’altro il caso della tormentata
decisione di rendere noto o meno il suo sistema cronologico per la
storia antica, al tempo degli Hannover). E proprio mentre egli si
sedeva per la prima volta in parlamento, il Toleration Act ratificato da Guglielmo d’Orange operava l’ennesimo giro di vite nei confronti dei cattolici e degli unitariani inglesi. L'Act for the Suppression of Blasphemy and Profaneness
di dieci anni dopo, inasprì ulteriormente la situazione, prevedendo
l’apologia dell’unitarianesimo come reato e interdicendo i suoi
sostenitori dai pubblici uffici. I filosofi Samuel Clarcke e William
Whiston, meno prudenti del loro amico Isaac Newton che nulla fece tra
l'altro per aiutarli, si videro stroncate le rispettive carriere nella
chiesa anglicana e all’università di Cambridge, proprio per la loro
vicinanza all'unitarianesimo. La notizia dell’impiccagione di uno
studente a Edimburgo, sostenitore delle medesime tesi, sparse il
terrore per tutto il regno e indusse a più miti consigli anche i più
radicali oppositori della dottrina dominante. A Newton non rimaneva
altra scelta che proseguire in segreto le proprie riflessioni
teologiche, in prudente silenzio, ma senza arretrare di un passo da
quelle convinzioni, maturate in anni di studio e meditazione, che non
rinnegò nemmeno sul letto di morte.
Lo sguardo e il silenzio
Pur tenendo in seria considerazione gli approcci essoterici e
divulgativi della trasmissione del sapere, si è visto, Newton rimase
per tutta la vita un vero e convinto filosofo ermetico, se si escludono
quei pochi tentativi, spesso abbandonati, di rendere se stesso e la sua
sterminata opera meno elitari. “La verità è figlia del silenzio”,
appuntò Newton, e ne fece il suo motto, la regola di comportamento di
un filosofo veramente esoterico - talvolta semplicemente prudente, in
altri casi schiettamente misantropo o poco interessato alla
comunicazione delle proprie idee agli altri -, tra i molti essoterici
della sua epoca e del suo ambiente, che si erge in difesa di un sapere
non sempre adatto alla generalità degli individui e di una conoscenza
di derivazione divina e tramandata dall’inizio dei tempi in segni
enigmatici e ambigui, tutti da decifrare tramite una chiave che solo il
sapiente può possedere. Quella di Newton è un’idea di esoterismo della
conoscenza che ancor oggi, nella confusione che una certa idea di
cultura ingenera tra ciò che è schiettamente essoterico e ciò che è
propriamente esoterico e, ancor più, tra ciò che è divulgativo e ciò
che è mero intrattenimento,[61] pone diversi interrogativi, soprattutto
quando le potenzialità della scienza presentano seri problemi circa i
rischi che queste possono comportare per l’incolumità del genere umano,
se non adeguatamente preparato (basti pensare alle possibili
applicazioni della fisica quantistica e della genetica). Un esoterismo
condivisibile che non va, però, confuso con l’autoreferenzialità di
molte delle discipline scientifiche attuali che, in alcuni casi,
incarnano un approccio analogo ma assai meno condivisibile che non
forma, come dovrebbe, chiunque aspiri a diventare "iniziato", ma
esclude a priori chi non possiede i mezzi esogeni (sociali ed
economici, in primis) per praticare l’ascesa al vero sapere, e che
spesso dimostra di non curarsi sufficientemente sia dei danni e delle
criticità che inevitabilmente accompagnano la conoscenza, sia della
propria storia (fatta di errori e quindi maestra di vita), in nome
dell'instancabile corsa verso il progresso e verso il futuro. "Siamo
nani sulle spalle di giganti e possiamo vedere più cose di loro e più
lontane", scriveva Bernardo di Chartres citato a sua volta da Newton,
ma l’orizzonte a cui dobbiamo indirizzare il nostro sguardo una volta
saliti fin lassù, potrebbe non essere soltanto l’orizzonte del domani,
ma anche la frontiera delle nostre origini; Newton ne era convinto: in
silenzio, scrutava il passato.
Alessio Miglietta
Di Alessio Miglietta in Airesis, nelle sezioni I labirinti della ragione ed Ethnikà, sono ospitati i seguenti contributi:
- Alessio Miglietta, Da Zenone a Newton: la fisica stoica e i suoi influssi sulla nuova scienza
- Alessio Miglietta, Il sistema cronologico newtoniano: contesto e princìpi generali
- Alessio Miglietta, Il sistema cronologico newtoniano: le applicazioni astronomiche e antiquarie
- Alessio Miglietta, Luci nella tenebra
- Alessio Miglietta, Segni del tempo
NOTE
[1] Per non parlare di chi sommava in sé, almeno apparentemente, aspetti contradditori, come van Helmont o lo stesso Newton.
[2] Non è un caso che dal Cinquecento, e in particolare nel Seicento,
il genere dialogico in letteratura (anche scientifica) riscosse un
nuovo, straordinario successo; si pensi ad alcune delle opere di
Galileo.
[3] Sulla scia, evidentemente, delle proposte di Bacone. Cfr. M. Mersenne, La verité des sciences, Paris, 1625, p. 105.
[4] In questo senso, basti la lettura del De costantia (1575) di Giusto Lipsio e il Convito morale (1639) di Pio Rossi.
[5] Cfr. Plutarco, Iside e Osiride, 67.
[6] Cfr. F. Bacon, De Sapientia veterum, Londini, 1609.
[7] Cfr. G. Cuper, Harpocrates seu Explicatio Imagunculae Argenteae Antiquissimae, Amstelodami, 1676.
[8] Cfr. William Andrews Clark Memorial Library, Los Angeles, Ms. fN563Z.
[9] In particolare con John Thurloe, segretario particolare di Oliver Cromwell.
[10] R. Cudworth, The True Intellectual System of the Universe, London, 1678, pp. 314-315.
[11] Cioè del meccanicismo propriamente newtoniano, non del newtonianesimo successivo.
[12] Si pensi, ad esempio, a Clemente di Alessandria, Gli stromati, I, 1 e XII, 1.
[13] Nella Nuova Atlantide, se i sapienti ritenevano alcune scoperte troppo pericolose, essi non le comunicavano nemmeno al re.
[14] Per un approfondimento, su tutti, D. Arecco, Una storia sociale della verità, Roma, 2012, pp. 108 e ss.
[15] Il lungo elenco potrebbe partire da Biot, De Morgan e Brewster e arrivare a Hall, Cohen e Whiteside.
[16] Una ragione esogena che ha contribuito non poco all’occultamento
di alcuni aspetti di Newton: un argomento, questo, che si affronterà in
un articolo successivo, a ciò interamente dedicato.
[17] “Egli non sarebbe stato abbastanza previdente da imprimere al suo
orologio un moto perpetuo”; dal carteggio Leibniz-Clarke cit. in P.
Rossi, La nascita della scienza moderna,
Bari-Roma, 2000, p. 341. Un attacco simile, com’è noto, verrà
indirizzato da Leibniz ai meccanicisti cartesiani e, soprattutto, agli
occasionalisti Malebranche e Gaulincx.
[18] Cioè l'insieme dei manoscritti Yahuda Ms. Var. 1, ff. 1-10, 12-19, 24-26, a-d, 1-63; Yahuda Ms. Var. 1.1, ff. 1-31.
[19] Per la verità esisterebbe almeno una terza via, rappresentata dall’idea di Seth Ward. Cfr. D. Arecco, Una storia sociale della verità, cit., p. 112.
[20] A.R. Hall, L. Tilling, The Correspondence of Isaac Newton (1676-1687), New York, 1976, vol. II, 143.
[21] Se si escludono le significative reminiscenze presenti nel De natura acidorum e nelle Queries dell’Opticks.
[22] Ebrei, V, 12.
[23] M. Mamiani, introduzione a Isaac Newton, Trattato sull’Apocalisse, Torino, 1994, p. xxiii. V. anche Yahuda Var. 15.3, f. 46.
[24] Cioè Yahuda Ms. 1.
[25] Cfr. Yahuda Ms. 1.1, f. 18.
[26] Per un approfondimento, su tutti il magistrale lavoro di Maurizio Mamiani in Isaac Newton, Trattato sull’Apocalisse, cit., p. XII e XXIII.
[27] Burnet vedeva nel linguaggio mosaico sì una semplificazione (come
già sostenuto, peraltro, anche da Bacone che sentenziava: "come i
geroglifici sono più antichi delle lettere, così le parabole sono più
antiche delle argomentazioni"), ma nel contempo ne denunciava la falsa
descrizione del reale, priva di alcuna verità scientifica.
[28] A.R. Hall, L. Tilling, The Correspondence of Isaac Newton (1676-1687),
cit., vol. II, p. 331. Qui è evidente la vicinanza con le idee
spinoziane del Trattato filosofico-politico (1670), che però si riduce
soltanto a questo specifico aspetto.
[29] Cfr. P. Rossi, I segni del tempo. Storia della Terra e storia delle nazioni da Hooke a Vico, Milano, 2003, p. 91.
[30] Cfr. A.R. Hall, L. Tilling, The Correspondence of Isaac Newton (1676-1687), cit., vol. II, pp. 333-334.
[31] Cfr. M. Mamiani, introduzione a Isaac Newton, Trattato sull’Apocalisse, cit., p. xxxix.
[32] Cfr. Yahuda Ms. 15.3.
[33] Cfr. Porfirio, Sulle immagini, fr. 1.
[34] Cfr. P. Casini, The Classical Scolia, in «History of Science», 1984, vol. 22, p. 18.
[35] A.R. Hall, L. Tilling, The Correspondence of Isaac Newton (1676-1687), cit., vol. II, p. 437.
[36] Idem, The Correspondence of Isaac Newton (1661-1675), vol. I, New York, 1976, 12.
[37] D. Arecco, I Fatti e le Idee. Scienza, religione e società nell’Inghilterra moderna, Genova. 2007, p. 84.
[38] Cfr. N. Guicciardini, Newton, Roma, 2011, pp. 24-25.
[39] Cfr. A. Miglietta, Teoria della materia e cosmologia in Isaac Newton: tra eredità stoica e nuova scienza, Tesi di laurea in Storia, Università degli Studi di Genova, a.a. 2010/2011, pp. 64-65.
[40] Va notato, però, che il vegetarianismo di Newton è soltanto una leggenda. Cfr. R.S. Westfall, Never at Rest. A biography of Isaac Newton, Cambridge, 1980, pp. 850-851.
[41] A.R. Hall, L. Tilling, The Correspondence of Isaac Newton (1661-1675), cit., 35.
[42] Su questo v. il resoconto autobiografico in Ms. Add. 3968, f. 122.
[43] Cfr. P.A. Rossi, Metamorfosi dell’idea di natura, Genova, 1999, pp. 15, 28 e 63.
[44] Sulla “retorica della certezza” utilizzata da Newton v. M. Mamiani, La retorica della certezza, in M. Pera e W.R. Shea, L’arte della persuasione scientifica, Milano, 1992, p. 210.
[45] Cfr. A.R. Hall, L. Tilling, The Correspondence of Isaac Newton (1676-1687), cit., vol. II, 235 e 236.
[46] Cfr. supra e M. Mamiani, introduzione a Isaac Newton, Trattato sull’Apocalisse, cit., p. xxv.
[47] Cfr. Keynes Ms. 133, f. 10.
[48] Cfr. F.E. Manuel, A Portrait of Isaac Newton, Harvard, 1968, pp. 264-291.
[49] Per i dettagli della diatriba tra Flamsteed e Newton vedi, tra gli altri, R.S. Westfall, Never at Rest. A biography of Isaac Newton, cit., pp. 655-667 e 688-696.
[50] Una stima reciproca che non impedì a Newton, tra l’altro, di
propendere per le tesi in filosofia politica dell’avversario di Locke,
Robert Filmer, come testimonia il manoscritto The original of Monarchies (Keynes Ms. 146).
[51] Cfr. A.R. Hall, L. Tilling, The Correspondence of Isaac Newton (1688-1694), cit., vol. III, 420-421.
[52] Ci si riferisce alla diatriba sulla cronologia antica tra eruditi francesi e newtoniani, risalente a pochi anni dopo.
[53] Cfr. A.R. Hall, L. Tilling, The Correspondence of Isaac Newton (1676-1687), cit., vol. II, 188.
[54] Per un approfondimento v. G. Cantelli, Introduzione in La disputa Leibniz-Newton sull’analisi, Milano, 2006.
[55] Babson Ms. 420.
[56] Cfr. Yahuda Ms 27, ff. 1r e 1v.
[57] Cfr. I. Newton, Chronology of Ancient Kingdoms Amended, London, 1728, introduzione.
[58] Cfr. N. Guicciardini, Newton, cit., p. 81.
[59] R.S. Westfall, Never at Rest. A biography of Isaac Newton, cit., p. 815.
[60] Cfr. M. Mamiani, La retorica della certezza, in M. Pera e W.R. Shea, L’arte della persuasione scientifica, Milano, 1992, pp. 207-226.
[61] Cfr. M. Angelini, Dalla cultura al culto, Genova, 2012, pp. 39-46 e R. Guénon, Mélanges, Paris, 1976 tr. it. G. Cillario, La diffusione della conoscenza e lo spirito moderno, in Il Demiurgo e altri saggi, Milano, 2007, pp. 195 e ss.
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