Le ragioni del Newton più occulto

Lo sguardo e il silenzio

Alessio Miglietta - Storico della cultura


La verità è figlia del silenzio.[1]
Isaac Newton

In un secolo contraddittorio come il XVII - scenario di uno scontro tra opposte concezioni di pensiero tra i più esemplari e problematici della storia delle idee (convivevano a quell’epoca Mersenne e Fludd, La Peyrére e Ussher, Filmer e Locke, il meccanicismo puro e i diavoli di Loudun) -[1] non stupisce affatto riscontrare la convivenza di modalità assai diverse nella comunicazione del sapere, con sodalizi che propugnavano un approccio essoterico (a volte divulgativo), come conseguenza soprattutto del principio dell’eguaglianza delle intelligenze, e individui o gruppi che prediligevano una visione esoterica, più prudente ma nel contempo più elitaria. Certo, vi erano discipline la cui vocazione era necessariamente quella della condivisione, del dialogo[2] e del confronto (dispute comprese), come la filosofia naturale o la matematica, e altre che, per loro natura, si prestavano molto meno alla libera diffusione, come le scienze ermetiche, la qabbalah o la letteratura profetica. Ben lo sapeva Marin Mersenne (campione dell’approccio anti-esoterico del sapere) che, nel 1625, proprio su questo terreno, sfidava gli alchimisti suoi contemporanei (ai quali concedeva poco credito), proponendo loro la fondazione di un’accademia che si esponesse alla luce del sole, che fosse sottoposta a un controllo pubblico e dove regnasse il libero confronto tra gli associati.[3] Sfida che in parte raccoglieva, pochi anni dopo, il comeniano Hartlib Circle di Londra, votato alla didattica e alla divulgazione, che vantava un discreto numero di membri dediti allo studio dell’alchimia di derivazione paracelsiana e sperimentale; ma, si è detto, il Seicento fu un secolo di contraddizioni: anche all’interno di questo stesso circolo di dotti, infatti, convivevano uomini come Robert Boyle, convinto assertore di un’alchimia essoterica, e altri come George Starkey, alias Ireneo Filalete, autore di trattati alchemici pregni di metafore, di oscuri simbolismi e di termini esoterici.

ArpocrateLa questione dell’approccio alla trasmissione delle informazioni, in realtà, non riguardava soltanto le discipline ermetiche, ed era tema dominante nelle discussioni del tempo: in politica, ad esempio, se al suddito si raccomandava di mantenere la constantia stoica, al potente e ai suoi collaboratori si consigliava il silenzio del segreto di Stato; si additarono, in quegli anni, Seneca e Arpocrate come esempi virtuosi di un equilibrio sociale che, nei fatti, non si rivelò affatto stabile.[4] In particolare Arpocrate, dio del silenzio,[5] si trovava al centro delle attenzioni dei filosofi secenteschi, ovviamente tramite il filtro baconiano dell’allegoresi mitologica:[6] Gilbert Cuper gli dedicò una monografia;[7] il neoplatonico Ralph Cudworth (attentamente studiato da Isaac Newton)[8], anche grazie all’amicizia da lui coltivata con membri dell’intelligence inglese,[9] era ispirato da un convinto apprezzamento per il silenzio e la riservatezza, così ben rappresentati dall’indice che il dio pone davanti alla propria bocca, invitando chi l’osserva a ricordare che “gli arcani misteri della teologia”, come quelli della politica, “non devono essere comunicati promiscuamente, bensì celati al volgare profano”[10]. Il tema prettamente teologico si era tra l’altro presentato, sin dal secolo precedente, tra cristianesimo riformato, con la sua attenzione alla diffusione (anche e soprattutto di carattere divulgativo) della propria dottrina e il suo appoggio alla conoscenza diretta della Scrittura, e cattolicesimo romano, che non rinunciava alla mediazione dei propri sacerdoti tra fedeli e parola divina e che manteneva un approccio più elitario nei confronti dell’accessibilità alle verità rivelate. Il neoplatonismo, in crisi dopo Cartesio e l’empirismo e stretto tra le maglie della censura cattolica, ma ancora vivo, soprattutto nell’Inghilterra dei Platonici di Cambridge e, in parte, del nuovo meccanicismo newtoniano[11], conservava tradizionalmente il suo atteggiamento esoterico ed ermetico, riprendendo stilemi già affrontati nell’antichità, da Pitagora a Porfirio. Peraltro, la seria valutazione dei rischi che una diffusione indiscriminata del sapere avrebbe potuto comportare per la stessa incolumità del genere umano, è ancora ben presente nell’apologetica della prima cristianità,[12] studiatissima dagli eruditi secenteschi, soprattutto di area riformata (e ancor di più dall’eretico unitariano Isaac Newton), anche per la sua vicinanza temporale all’originario messaggio cristiano. I nemici di Arpocrate, insomma, non si annoveravano di certo tra gli alchimisti tradizionali e i moderni funzionari di Stato, né si ritrovavano in molte delle letture dei filosofi antichi (compresi anche molti aristotelici e averroisti) e della più risalente cristianità; erano invece presenti tra gli esponenti di quella “nuova scienza” che all'epoca, pur tra innumerevoli contraddizioni e incoerenze,[13] s’ergeva a paladina di una nuova immagine del sapere, dove non trovavano albergo né iniziati né misteri, ma soltanto uomini ugualmente intelligenti e una verità a tutti comunicabile, e che troverà l’humus più fertile nell’Inghilterra baconiana dell’Office of Address e della Royal Society.[14] Lo stesso vagheggiamento di un linguaggio universale, che non solo in Inghilterra (come testimonia il progetto leibniziano) prendeva sempre più piede, contribuiva a contrastare l’idea di elitarismo della scienza in nome dell’ecumenicità della conoscenza, anche se con scopi d’inclusione culturale che sapevano di sopraffazione: diffondere la propria conoscenza per renderla l’unica praticabile, ricorda la ratio della propaganda protestante, come anche quella, all’epoca in auge, delle missioni cattoliche (dentro e fuori i confini dei territori in cui attecchì la Controriforma). In questi termini l’esoterismo può diventare anche una forma di resistenza al sapere dominante e ufficialmente accettato, quando dominio diventa sinonimo di prevaricazione e di censura delle eventuali opinioni “eretiche”. Era infatti piuttosto comune il sentimento di diffidenza, rectius di avversione, dei cattolici tradizionalisti nei confronti dell’approccio esoterico alla conoscenza, secondo il principio, assai discutibile, che ciò che si nasconde è di per se stesso illecito: furono loro bersaglio, ad esempio, gli invisibili Rosa-Croce, apparsi misteriosamente negli anni venti di quel secolo, a Parigi.

Arpocrate

Arpocrate, Jan Harmensz. Muller, Amsterdam, 1593


In tale in-temperie culturale, s’inserisce l’opera di Isaac Newton - edita e inedita - e la sua instancabile e poliedrica attività di filosofo naturale, matematico ed erudito; un'attività che solo in minima parte era nota ai suoi contemporanei: il rigoroso matematico che in pubblico soleva non fingere ipotesi (con significative eccezioni, per la verità) e che, salvo un’unica occasione (la pubblicazione della Chronology of Ancient Kingdoms Amended, come si vedrà più avanti), dava alle stampe soltanto i suoi studi inerenti la filosofia naturale (dalla meccanica celeste dei Principia alla chimica del De natura acidorum) e la matematica pura (come nel Tractatus de quadratura curvarum), celava volontariamente ulteriori e ingenti studi che egli stesso considerava altrettanto importanti. Prendendo a prestito un cliché forse fin troppo abusato, si potrebbe paragonare l’intero lavoro di Newton alla struttura di un iceberg: se l’opera edita, dal punto di vista strettamente quantitativo, si trova al di sopra della superficie ed è di gran lunga la meno consistente, sotto, nascosta ai più, si trova la mole più ingente della sua intera produzione; non si tratta, però, soltanto dei lavori preparatori alle opere poi pubblicate o inerenti esclusivamente le discipline fisico-matematiche, bensì soprattutto di una considerevole massa di appunti, di traduzioni e commenti, di interi trattati dedicati all’alchimia, alla storia sacra, alla filosofia ermetica, alla teologia; aspetti poco noti del suo percorso intellettuale, ma affatto inusuali per un filosofo del Seicento, che suscitarono nei suoi primi biografi dapprima sincero stupore, poi colpevole disinteresse,[15] nel nome di una gerarchia di valori tra ‘scienze’ e ‘pseudoscienze’ secondo la quale le seconde dovrebbero essere sacrificate, spesso scomparendo del tutto, alle prime, e che una certa storiografia del passato (e, incredibile dictu, talvolta del presente) ha eletto come principio fondante del suo metodo d'indagine.[16] Al contrario oggi, e almeno dalla seconda metà del secolo scorso, è ormai accettato dall’unanimità dei biografi newtoniani un suo profilo dalle numerose sfaccettature; di uno studioso, cioè, che trattò con uguale rigore e competenza discipline tra le più varie, comprese le scienze ermetiche; ma da questo punto di non ritorno si dipartono due diverse visioni del nuovo Newton, a seconda dell’atteggiamento che gli attuali biografi newtoniani assumono nei confronti della caratteristica impermeabilità nell'affrontare i vari settori della conoscenza, propria del filosofo inglese. Da una parte Richard Westfall, pur tenendo in buon conto il Newton alchimista ed ermetico, lo subordina al Newton filosofo naturale e non accomuna entrambi a uno stesso metodo di lavoro; dall’altra, storici come Betty Jo Teeter Dobbs, Frank E. Manuel e Maurizio Mamiani, colgono nei due aspetti, ugualmente importanti, un comune affondare nel medesimo terreno metodologico e filosofico, sul quale il genio inglese adagia ogni suo studio, quantunque egli rimanga, ma solo superficialmente, un alchimista e nient’altro di più quando scrive di alchimia, o soltanto un matematico quando calcola, o un cronologo quando ripensa le datazioni della storia antica. Un terreno comune la cui fertilità si deve anche al superamento del tabù epistemologico meccanicista secondo cui non possono esistere azioni a distanza senza l’intervento di un mezzo corporeo e di un impatto, un limite concettuale che il Newton alchimista non fatica a scavalcare e che il Newton filosofo naturale nei fatti decide di ignorare, evitando ipotesi.

Ogni attività, sperimentale o teorica, aveva per Newton una primaria giustificazione, un principio fondante da cui ogni altra idea dipendeva e discendeva: la persistente presenza di Dio nel mondo naturale. Egli credeva in un Dio costantemente partecipe della natura e della storia, sia attraverso interventi ciclici (come nell'azione vivificante della materia altrimenti inerte), sia, anche se di rado, tramite impulsi arbitrari e sovrannaturali (come nelle rivelazioni a patriarchi e profeti): una visione che secondo alcuni detrattori ridurrebbe il ruolo divino a quello di un cattivo orologiaio che carica i meccanismi del cosmo secondo l’occasione,[17] ma che invece concepisce un demiurgo volontario dispensatore di vitalità e di Provvidenza. Qualunque sia la disciplina che Newton affronta, il vero e unico oggetto della sua ricerca è la dimostrazione di tale convinzione, dimostrazione che egli ritiene di aver ottenuto al di là di ogni ragionevole dubbio, grazie a un metodo nel quale esperimento ripetibile e descrizione matematica sono i pilastri strutturali (qualsiasi sia l'ambito disciplinare affrontato), e tramite la decifrazione del linguaggio divino, nelle sue varie forme, riportato al suo concreto e originale significato. Che si tratti, infatti, dei caratteri impressi da Dio nel libro della natura, da lui tradotti in leggi matematiche universali, o del linguaggio oscuro dei profeti, tradotto sistematicamente tramite la chiave decrittante elaborata rigorosamente nel Trattato dell'Apocalisse,[18] o della trasmissione cifrata dei testi ermetici, reinterpretata attraverso un'alchimia sperimentale e quantitativa, Newton ritiene di avere conseguito un’interpretazione rigorosa e sostanzialmente corretta del messaggio divino. Anche la terminologia ermetica e simbolica dell’alchimia (che ancora, al tempo di Newton e nonostante Casaubon, continuava a essere considerata antichissima, come il suo mitico fondatore Trismegisto), artificialmente costruita per allontanare i profani, nasconderebbe tra le sue righe la divina sapienza che sarebbe stata ottenuta dai primi uomini direttamente da Dio; quella prisca philosophia, cioè, che i maestri di Newton - Henry More e Ralph Cudworth - indicano, tra gli altri, come la radice ebraica dell'intero scibile umano. Una verità disvelata ai patriarchi e da essi trasmessa al popolo (in testa Mosè, "il più grande divulgatore di tutti i tempi"), ma col trascorrere del tempo corrotta dall'innata tendenza degli uomini all'idolatria, dalle false filosofie pagane (tra le quali la più spuria in questo quadro è l'aristotelica) e infine dal tradimento, perpetrato dai nestoriani, nei confronti del puro monoteismo cristiano delle origini (così, almeno, secondo l'eretico antitrinitario ariano, e forse in odore di socinianesimo, che era Newton in privato).

 

L’immenso danno: la scelta esoterica

Delle cause che portarono Newton, in quel periodo che si può individuare tra la seconda metà degli anni settanta del Seicento e tutto il finire del secolo, a isolarsi dall'alterità, a chiudersi tra le mura del Trinity College evitando volontariamente e pervicacemente notorietà e confronto con il resto della Repubblica delle lettere, senz'altro la più rilevante è lo stesso convincimento, la stessa lucida volontà di rendere la propria attività di ricerca, una ricerca occulta nel solco della tradizione ermetica: quella che maturò a partire dalla metà degli anni settanta fu una consapevole scelta esoterica. Egli volse lo sguardo verso il passato, nella convinzione che la Verità fosse da ricercare in un’epoca remota, nella prisca sapientia trasmessa direttamente da Dio ai primi uomini sulla Terra. Ed è proprio da questo periodo in poi che Newton si concentra maggiormente sugli studi e sugli esperimenti alchemici, su quelli di cronologia e di storia sacra, su quelli teologici e profetici, cominciati già alla fine degli anni sessanta ma intensificati nel decennio successivo. Mentre la teoria sulla luce e sui colori - in parte già resa pubblica - e la concezione generale della legge di gravitazione e il metodo delle flussioni - delle quali Newton aveva già posto le fondamenta durante l'annus mirabilis (1666) - venivano conservate gelosamente e coltivate sempre in privato (troveranno una collocazione pubblica soltanto dalla seconda metà degli anni ottanta in poi), le ore trascorse nel laboratorio alchemico e tra le innumerevoli fonti antiche, ermetiche, storiche, filosofiche, divennero preponderanti nelle giornate spesso solitarie del filosofo inglese. Se, per dirla con Kuhn, la scienza moderna è votata a distruggere il proprio passato, al contempo la scienza newtoniana optava consapevolmente, soprattutto da quel momento in poi, per una riscoperta delle sue antiche origini, le quali sarebbero state le uniche depositarie della Verità.

L'alchimia newtoniana rimarrà sempre un'alchimia sperimentale, quantitativa, anti-allegorica, ma il suo metodo razionale, che, si è detto, ha come obiettivo la decifrazione del linguaggio criptato degli antichi testi ermetici, mira a selezionare i passi più oscuri, le descrizioni di esperimenti più ricche di metafore e simboli dall'ardua interpretazione, aderenti cioè al motto obscurum per obscurius ignotum per ignotius. Se i modelli newtoniani in questa disciplina si annoverano, tra gli altri, anche in Ermete Trismegisto, Jean-Pierre Fabre, Jean Baptiste van Helmont, è sulle opere di Ireneo Filalete, da una parte, e Robert Boyle, dall'altra, che si sofferma maggiormente la riflessione sul tema dell'esoterismo in alchimia. Secondo il primo, infatti, soltanto l'iniziato, colui che possiede cioè la chiave d'interpretazione del testo ermetico, potrà accogliere l'insegnamento dei predecessori e comunicare con i contemporanei; per il secondo, invece, occorre ripensare l'alchimia come disciplina accessibile a tutti, liberandola dalla nebbia della metafora e del linguaggio codificato.[19] Newton, pur considerando l'amico Robert Boyle uno dei suoi maggiori maestri, finì per propendere, in questo àmbito, per le tesi di Filalete. Nel 1675, in piena attività di alchimista sperimentatore, Newton scrive al segretario della Royal Society di Londra, Henry Oldenburg, commentando le idee di Boyle sulla sua nuova alchimia essoterica:

Se nei testi ermetici dovesse esserci una qualsiasi verità, potrebbe forse trattarsi di un modo per accedere a qualcosa di più nobile da non comunicare al mondo se non con immenso danno; non chiedo altro, quindi, se non che la grande saggezza del nobile autore lo induca al silenzio.[20]

Coerentemente a queste parole, Newton non pubblicherà alcun suo testo di alchimia fino alla morte,[21] pur ritenendo di aver ottenuto risultati tangibili dai suoi esperimenti (come si approfondirà più avanti). Non è l’incertezza dei risultati, quindi, a frenare Newton, ma la preoccupazione che un immenso danno possa colpire il bene comune, che possa compromettere la stessa incolumità dei profani, come se alcune verità fossero un pericoloso coltello da sottrarre dalla mano inesperta di un fanciullo. E proprio tramite una metafora simile, Newton, riprendendo San Paolo,[22] definisce il linguaggio criptico delle profezie bibliche “il cibo per gli adulti”, in contrapposizione al “latte per bambini” rappresentato dal resto del messaggio veterotestamentario.[23] Ma la scelta esoterica di Newton è una scelta maturata nel tempo, è un percorso che dal giovane Newton essoterico approda al Newton maturo ormai convintamente esoterico: una metamorfosi che avrà come spartiacque la metà degli anni settanta del Seicento.

Newton, anche se già alle prese con i primi studi ermetici, conservava ancora fino ai primi anni settanta una visione schiettamente essoterica della modalità di trasmissione della conoscenza. È secondo questo principio che concepisce il primo trattato dedicato all’esegesi profetica:[24] nelle sue intenzioni lo scritto s’indirizzava a un pubblico vasto comprensivo anche di chi non aveva, o poteva avere, una cultura elevata, ma che fosse comunque in grado di accogliere la rivelazione, poiché rivelazione e natura condividono la stessa qualità - la semplicità - e la stessa causa - Dio -. E se nessuna mediazione è davvero necessaria per la dimostrazione della veridicità del contenuto biblico,[25] diversamente da quanto sostenuto dai cattolici, allora anche la stessa erudizione e i mille sofismi della filosofia verrebbero a offuscare la semplicità e l’immediatezza della natura.[26] Ma una decina di anni dopo, nei primissimi anni ottanta, la trasformazione delle idee newtoniane in senso esoterico sembrano già approdate a piena maturazione; Newton conferma a Thomas Burnet[27] l’idea, derivata da Agostino, di un “accomodamento” della parola divina per la fruibilità di tutti - operata, nel Genesi, con la mediazione del grande divulgatore Mosè che "descrisse la realtà in un linguaggio adattato artificialmente alle possibilità di comprensione dei sensi e dell'idioma [del popolo]"[28] - che consente a Newton di affidare al significato della Scrittura un valore letterale, seppur in una versione semplificata della realtà che comprende anche le leggi fisiche che regolano l'universo:[29] quando il Genesi parla dei sette giorni della Creazione, non si riferirebbe metaforicamente a un periodo di tempo che nella realtà storica fu necessariamente più lungo, ma proprio a un'effettiva durata di sette giorni: non è forse vero che Dio ha il potere di rendere un giorno lungo quanto vuole e quanto necessita?[30]

Due diversi linguaggi, dunque, si presentano al fedele, ed egli, se vuole veramente comprendere, deve operare un’interpretazione che porti, in un caso, dalla semplificazione alla complessità del messaggio, e, dall’altro, dalla metafora profetica al suo più recondito significato storico-sociale (che in alchimia, che per Newton ha valenze sacre, si traduce nella risoluzione degli esperimenti descritti in forma di enigma, traducendoli in esperimenti scientifici ripetibili); ma sono entrambe le operazioni davvero necessarie alla salvezza? La risposta ultima di Newton è negativa: se la giusta interpretazione delle profezie bibliche non è essenziale per la salvezza degli individui, se essa è prerogativa concessa solo agli iniziati, si svuota di senso la questione sul vantaggio di renderle pubbliche, di svelarle ai profani.[31] La verità profetica potrà essere comunicata agli uomini comuni soltanto in seguito all'effettiva verifica dei fatti preconizzati, oppure potrà essere svelata con cautela da quei sapienti che, avendola conosciuta attraverso una corretta esegesi, la renderanno comprensibile, ma nel grado in cui essa potrà essere accolta dalla generalità degli individui.


L’elaborazione della scelta esoterica newtoniana ebbe la sua origine documentata, oltre che dalla lettera a Oldenburg già citata, anche dalla stesura dei tre manoscritti dedicati all’interpretazione delle profezie, riuniti poi nel cosiddetto Trattato sull’Apocalisse, mentre la sua maturazione definitiva è documentata con precisione da un manoscritto databile intorno agli anni dieci del secolo xviii,[32] ma è ragionevole supporre che essa risalga almeno al decennio precedente. Una scelta che, grazie all’ulteriore intensificazione degli studi alchemici, Newton adotta con convinzione: certe verità non solo non sono necessarie al volgo, ma possono diventare pericolose se giungono all'orecchio sbagliato. Comunicare (talvolta) e occultare (più spesso) la verità, sono per il Newton più maturo due diversi livelli dell’approccio alla conoscenza che applicherà indifferentemente anche alle diverse discipline dell’alchimia, della teologia e persino della filosofia naturale: quando il sapere è adatto ai pochi, o, ancor meglio, quando esso diviene pericoloso se in mano ai tanti, Newton chiude le porte ai profani,[33] in perfetto accordo con l’idea che gli stessi interpreti della prima cristianità avevano dell’accesso alla conoscenza.

Anche l’accanito approfondimento dei testi antichi - filosofici e storici - testimoniato soprattutto dalle numerose citazioni presenti negli Scolii classici, risalenti alla prima metà degli anni novanta,[34] e dalla vastissima erudizione della Chronology, pubblicata nel 1728 ma la cui prima stesura si colloca all’inizio del secolo, instillò in lui l’idea di un esoterismo di fondo, comune a molti degli autori classici. L’attenzione di Newton si concentra in particolar modo sulle supposte allegorie dei neoplatonici e dei pitagorici nel descrivere la natura (sistema eliocentrico compreso), con il medesimo metodo di studio e obiettivi sperimentati in alchimia e in letteratura sapienziale, cioè con la decifrazione dell’oscuro linguaggio delle filosofie ermetiche, artificialmente concepito per nascondere ai più la vera conoscenza di derivazione divina. Egli, quindi, ferma restando la convinzione di una comune semplicità delle teofanie della natura, della storia, della rivelazione, con un percorso del tutto simile a quello descritto precedentemente, dapprima attribuisce agli autori antichi brandelli di vera conoscenza, seppur corrotta nel tempo, accusandoli però di una sorta di occultamento della conoscenza che egli stesso condanna, ma poi, con l’approfondimento degli stessi autori, conviene con loro sulla necessità di nascondere alcune verità pericolose per il volgo, sia esse afferiscano al mondo naturale (con le verità filosofiche, o alchemiche), sia alla sfera del divino (con le profezie).

 

Tra piccoli saccenti in matematica: misantropia e misunderstanding

 

Ad alimentare il profilo occulto della figura di Isaac Newton contribuì in maniera preponderante, soprattutto agli occhi dei contemporanei, la sua proverbiale misantropia, unita a una costante difficoltà, e discontinuità, di rapporti con tutti o quasi tutti i filosofi del tempo. Peraltro i momenti più fertili dell’intera attività newtoniana - l’annus mirabilis per gli studi fisico-matematici e il decennio 1675-1685 per gli studi di teologia, alchimia, storia sacra e per il consolidamento, poi confluito nei Principia, delle sue maggiori teorie - sono stati anche i momenti del suo maggior isolamento: è dunque evidente che Newton cercasse volontariamente la solitudine e ne ricavasse il massimo giovamento. Soltanto la fase finale della lunga vita del filosofo naturale inglese è testimone di un Newton molto più “mondano”, addirittura istituzionale, con i suoi incarichi di carattere pubblico (al parlamento, alla Zecca Reale e alla Royal Society) e la meticolosa cura per le pubblicazioni delle sue opere (le ulteriori due edizioni dei Principia e le tre dell’Opticks, su tutte), coincidente grossomodo con il suo trasferimento a Londra (1696), sotto l’ala protettrice prima degli Orange e poi degli Hannover. Esiste poi un altro periodo, molto precedente, coincidente con il ritorno da Woolsthorpe (suo paese natale), dopo l'esilio forzato per sfuggire alla peste del '66, e conclusosi nel 1672, in cui l'allora giovane professore lucasiano decise di proporsi alla litigiosa platea dei filosofi naturali inglesi, raccolti intorno alla fitta rete di comunicazione della Royal Society, il cui snodo vivente, Henry Oldenburg, ne gestiva allora il funzionamento e lo sviluppo. Un'esperienza che, sia all'analisi dei fatti, sia attraverso varie testimonianze autobiografiche, può dirsi totalmente negativa agli occhi di un Newton non in grado, per varie ragioni che approfondiremo, di sostenerne le faticose dispute, caratteristiche di una filosofia "impertinentemente litigiosa"[35] che egli dimostra di voler evitare.

Isaac NewtonGià nel 1670, Newton rispondendo a Collins, il quale lo esortava a rendere pubblica la sua teoria sulle flussioni, dichiarava di non desiderare "la pubblica stima" che avrebbe potuto aumentare la sua "cerchia di conoscenze", cosa che egli stesso in realtà non voleva procurarsi.[36] Non è ancora il Newton deluso dalle critiche dei suoi colleghi, è piuttosto ancora il Newton genuino che si affaccia sì verso il mondo essoterico della filosofia naturale del xvii secolo, ma per innato carattere non apprezza né il confronto, né tantomeno la mondanità. Certamente, tra le righe, non è difficile leggere anche una certa falsa ritrosia, un atteggiamento formale di ostentata modestia che all’epoca era quasi d’obbligo, ma è innegabile quanto sia evidente il desiderio d’isolamento. Basti pensare allo stile di vita che si autoimponeva fin dai primi anni di permanenza a Cambridge e che denota - insieme a una serie di altri convincimenti di carattere filosofico e teologico da lui professati segretamente e già felicemente isolati da Davide Arecco -[37] un'ascendenza puritana (non solo in lato sensu)[38] che accede a un vero e proprio ascetismo e che senz’altro ha punti di contatto anche con l’etica stoica.[39] L’effettiva frugalità della sua alimentazione, la personale idiosincrasia per ogni tipo di sevizia agli animali che non fosse assolutamente necessaria[40] e la sua astinenza dai rapporti sessuali, forse anche dovuta a un’inclinazione che non confessava nemmeno a se stesso, furono scelte a cui non rinunciò mai: due esempi, questi, che tratteggiano efficacemente il profilo di un Newton insofferente alla materialità dell’esistenza, cosa che però non deve affatto far pensare a una sua difficoltà a “sporcarsi le mani” con attività pratiche, quali la tecnica (si pensi alla costruzione del riflettore) e la sperimentazione sul campo (con gli infiniti esperimenti alchemici). Fu proprio la circostanza che portò Newton, giovane e sconosciuto costruttore dell’innovativo telescopio a specchi, a presentarne un prototipo al re Carlo II, ad aprirgli le porte della Royal Society, nonostante una tiepida accoglienza da parte della comunità dei filosofi inglesi (ma un notevole interesse da parte del segretario, anche per motivi legati a sentimenti nazionalistici), a cui Newton reagì tentando di aumentare la posta, salvo pentirsene di lì a poco, mettendo sul piatto altre segrete conoscenze che gelosamente celava solo per sé e già da qualche anno. Impaziente di rivelare al mondo che lo strumento proposto fosse solo uno dei risultati di una teoria molto più articolata e complessa,[41] suffragata da esperimenti e descritta matematicamente, ne comunicò una versione nelle Philosophical Transactions del febbraio 1672 e annunciò poco dopo la pubblicazione di un trattato sull’argomento (le Lectiones Opticae). Ma le critiche e confutazioni che giunsero in risposta alla sua teoria, lo indussero quasi sùbito a fare un passo indietro: una trattazione organica dovrà aspettare il 1704 con la pubblicazione dell’Opticks.[42] Ciò che fece realmente infuriare Newton, non furono soltanto le critiche in sé (va ammesso però che il suo carattere qui appena abbozzato non aiutò di certo a renderlo malleabile e aperto al confronto), ma la stessa incomunicabilità di fondo tra due diverse e inconciliabili visioni del modo di fare scienza e, in particolare, sul grado di certezza che la stessa sarebbe stata in grado di raggiungere. Le posizioni moderatamente scettiche ufficialmente caldeggiate dalla Royal Society, necessarie a respingere ogni tipo di dogmatismo, non erano compatibili con un’impostazione, quella newtoniana, che pretendeva di descrivere con certezza, e non con probabilità, la realtà delle cose, grazie agli strumenti dell’esperimento ripetibile e della dimostrazione matematica (quest’ultima la grande arma anti-scettica brandita cinquant’anni prima da Mersenne)[43]. Robert Hooke (l’odiato discepolo di Boyle con cui Newton battaglierà fino alla di lui dipartita) si ostinava a definire “ipotesi” quella che Newton presentava come “teoria” dimostrata.[44] Con questa forma mentis, Hooke contestò a Newton, tra l’altro, di non avere il diritto di asserire che la sua teoria della luce e dei colori fosse “migliore” della propria, quella cioè esposta qualche anno prima nella Micrographia: l’experimentum crucis della teoria newtoniana (il celebre doppio prisma), secondo l’opinione del rivale (che aveva un fondo di verità), poteva valere esattamente allo stesso modo per entrambe le descrizioni. Nonostante il tentativo newtoniano dell’An Hypothesis Explaining the Proprieties of Light che proponeva le teorie sulla luce con un’impostazione più vicina al modo di ragionare dei filosofi meccanicisti contemporanei, il dialogo tra queste due diverse visioni permase un discussione in cui il misunterstanding la faceva da padrone. I rapporti tra Newton e Hooke si fecero ancor più conflittuali all’epoca della pubblicazione delle leggi di gravitazione, per motivi simili; ed è probabile che la nomina che nel 1677 assegnò a Hooke il ruolo di segretario della Royal Society (in seguito alla morte di Oldenburg, che più volte cercò di mediare tra la suscettibilità del professore lucasiano e le vivaci critiche dei suoi colleghi), abbia accresciuto in Newton il desiderio di mantenersi lontano da quella comunità di dotti, isolandosi ancor più nello studio delle amate discipline esoteriche. Lo si nota dal carteggio che i due odiati colleghi si scambiarono nel 1679, nel quale Hooke lamenta il silenzio di Newton e il secondo dimostra una forte ritrosia a interromperlo.[45] Ma è doveroso segnalare come, poco dopo, i due tornarono a confrontarsi su alcune questioni legate alla gravità (fondamentali, tra l’altro, per il concepimento della teoria della gravitazione universale e nuovamente oggetto di litigio tra i due, ai tempi della pubblicazione dei Principia), com'è giusto ricordare che, in generale, i rapporti epistolari con gli altri filosofi si diradarono senza però mai interrompersi del tutto (basti pensare alle lettere sull’attrazione magnetica solare e sulle comete scritte a Flamsteed).

Anche altri membri della Repubblica delle Lettere presentarono critiche e confutazioni alle teorie newtoniane, tra le quali le più ficcanti e circostanziate furono quelle di Huygens, alle quali Newton rispose in modo spesso oltre i limiti della cortesia, giungendo anche a interrompere la corrispondenza ex abrupto. È evidente che qui il difficile carattere, insofferente a un dialogo critico, si unisce ai motivi schiettamente metodologici fin qui esposti. Una commistione di elementi che potrebbe anche aver convinto Newton a evitare qualsiasi pubblicazione del suo materiale dedicato all’esegesi biblica, decisione risalente proprio alla metà degli anni settanta del xvii secolo.[46] Nelle sue memorie, William Derham, fellow alla Royal Society all’epoca della presidenza di Newton, racconta che:


queste controversie […] resero Sir Isaac molto insofferente; egli aborriva ogni disputa, attribuendo alla pace un bene assoluto. Mi disse di aver reso deliberatamente astrusi i suoi Principia per evitare di essere infastidito da piccoli saccenti in matematica, ma non abbastanza da non essere compresi da dei buoni matematici […].[47]


Principia che, molto probabilmente, non avrebbero già visto la luce nella seconda metà degli anni ottanta, senza lo sprone e l’aiuto del giovane Edmund Halley, che dovette fare i conti direttamente con l’asprezza dei modi e, soprattutto, la ritrosia a rendere pubblici i proprio lavori del futuro padre della gravitazione universale. Newton, dopo una prima visita di Halley, prese nuovamente in mano le questioni già affrontate in passato su tale argomento e cominciò a redigere il suo capolavoro, che è poi uno dei testi più importanti di tutta la storia della scienza. Fu però Halley a sobbarcarsi ogni incombenza pratica, dalla rilegatura alla diffusione del testo finito, arrivando a contribuire anche economicamente al progetto. Si deve a lui, dunque, la prima vera pubblicazione di un trattato newtoniano organico, dopo un silenzio durato circa vent’anni.

Anche in date più tarde, le testimonianze dell’indole misantropa di Newton sono frequenti ed eterodirette: cadranno vittima delle intemperanze e dell’incostanza del filosofo inglese, tra gli altri, l’astronomo reale John Flamsteed e il padre del liberalismo John Locke. Il primo, anche grazie al nuovo strumento di precisione per le misurazioni astrometriche, il grande quadrante murale di Greenwich, fu in grado di ottenere precise coordinate delle posizioni delle stelle fisse, indispensabili per l’applicazione astronomica in cronologia antica tentata da Newton, o il percorso apparente della grande cometa del 1680, inserito peraltro nel terzo libro dei Principia, e fondamentale, insieme ad altre osservazioni planetarie e lunari, per la conferma delle teorie ivi presentate. Flamsteed diffidava di Newton, temeva infatti di essere derubato del suo lavoro a vantaggio dello scorbutico collega e nel contempo di essere oggetto di critiche nel caso le sue osservazioni fossero risultate imprecise (timori a cui Newton, in altre circostanze, non è estraneo). Newton arrivò addirittura a estorcere con la forza i risultati di Flamsteed, quando fu in potere di farlo, cioè quando, dall’alto della sua posizione di presidente della Royal Society, cominciò a comportarsi da vero e proprio “autocrate della scienza”[48]. Newton, in collaborazione con Halley, diede alle stampe una versione non autorizzata delle misurazioni dell’astronomo reale e non esitò a sfruttarle per i propri scopi, senza peraltro accreditarne il merito al legittimo autore.[49] Ma se a inasprire i rapporti tra l’astronomo reale e il presidente della Royal Society, fu in parte anche il carattere spigoloso dello stesso Flamsteed, l’amicizia con John Locke fu messa a dura prova per l’esclusiva responsabilità di Newton. Locke nutrì, per tutta la vita, una stima illimitata per colui che considerava il più grande filosofo della natura di ogni tempo, una stima non suffragata, peraltro, da un'effettiva e approfondita conoscenza della matematica necessaria a comprendere un trattato “astruso” come i Principia.[50] A dura prova fu sottoposta la paziente accondiscendenza di Locke, quando Newton, probabilmente sotto i venefici influssi dei fumi prodotti dai suoi esperimenti alchemici, che respirava ormai da più di vent’anni, gli scrisse parole offensive quanto deliranti, fino a dichiarare di desiderarlo morto.[51] In quello stesso anno, il 1693, l’attività di alchimista di Newton declinò fortemente, fino a interrompersi, come s’interruppe il rapporto con l’amico Fatio de Dullier, il giovane matematico del quale, probabilmente, Newton si era invaghito.

Tre anni dopo, essendo stato nominato Guardiano della Zecca Reale, Newton si trasferì a Londra ormai ristabilito dalla crisi, probabilmente anche per iniziare una nuova vita. Nei trent’anni successivi e fino alla morte, si dedicò, oltre che al contrasto alle falsificazioni monetarie, alla cura delle edizioni delle opere riassuntive delle sue teorie sia sull’ottica, con le tre edizioni dell’Opticks, sia delle sue teorie sulla gravitazione universale, con le due nuove edizioni dei Principia. Nei momenti liberi, come soleva dichiarare, si concentrava invece sui suoi studi di cronologia antica (studi che, in realtà, erano ben più impegnativi di un semplice passatempo, per quanto si trattasse del passatempo di un genio assoluto) di cui preparò un’opera da dare alle stampe. Più di tutto, però, Newton si curò, in questi anni, di creare un’immagine pubblica di sé - contraddicendo così le sue passate inclinazioni di studioso indifferente alla “pubblica stima” - che potesse imprimere il definitivo segno del suo passaggio terreno.

 

Idee in cassaforte

La celebre disputa sulla paternità del calcolo infinitesimale coinvolse non solo i due protagonisti - Leibniz e Newton - ma due intere scuole di matematici, contrapposte per questioni scientifiche ma anche per un crescente nazionalismo che proprio in quegli anni cominciava a dividere le scuole filosofiche. Newton subì, in larga parte, questo clima di guerra tra dotti, non nuovo per lui, come si è visto nel caso del telescopio riflettore. La disputa internazionale sul calcolo, invece, esplose a partire dagli anni dieci del XVIII secolo, e non fu, tra l’altro, l’ultima a cui Newton, suo malgrado, dovette partecipare,[52] e ha una genesi che può gettare luce sull’intendimento di Newton a occultare i propri risultati, sotto un’altra prospettiva che, in questo caso, lo accomuna a molti altri suoi contemporanei. L'esempio più solare si trova nella cosiddetta epistola posteriore, la lettera con la quale Newton, tramite Oldenburg, comunicò a Leibniz il suo metodo per risolvere i problemi inversi delle tangenti,[53] trascritto in codice anagrammando le frasi latine e occultandone la chiave, gelosamente custodita, alla stregua di una combinazione, chiudendo in un'ideale cassaforte i risultati di un lavoro che, evidentemente, egli non voleva condividere con altri; motivi diversi possono aver spinto a utilizzare questo espediente: l'idea che qualcuno potesse sfruttare i risultati delle proprie fatiche per future applicazioni o rubarne letteralmente la paternità (cosa di cui Leibniz fu accusato) o, più semplicemente, per criticarne il contenuto. A dire il vero, il procedimento dell'anagramma era di gran voga al tempo, basti pensare a quello, anch'esso risalente al 1676, tramite il quale Hooke comunicò la sua legge sui corpi elastici. Non è chiaro, comunque, se Leibniz riuscì a decrittare il messaggio o se riuscì indipendentemente a risolvere il problema matematico, sta di fatto che dieci anni dopo se ne trova traccia negli Acta eruditorum: è quello il prodromo della grande disputa anglo-tedesca sul calcolo. Essa s'interruppe con la morte del filosofo tedesco, lasciando ai newtoniani l'ultima parola (con il Commercium epistolicum del 1712) e con la convinzione, nell'isola, di averla spuntata: il tempo consacrerà alla scuola continentale il successo più duraturo.[54] Ciò non significa che la disputa specifica abbia avuto, anche a posteriori, un vincitore e un vinto: semplicemente i due giganti della matematica avevano indipendentemente raggiunto i loro risultati; sarà però la scuola continentale a proseguire e a sviluppare, nel solco delle idee di quei due primi pionieri, il calcolo così com'è oggi noto. È anche vero che entrambi non si scontrarono per motivi esclusivamente legati alla priorità e alla paternità del calcolo, ma anche, e soprattutto, fu il loro diverso punto di vista squisitamente scientifico a divergere e a generare incomprensioni. Ma non fu soltanto la diversità tra modi di concepire il procedimento matematico a porre agli estremi opposti i due matematici: lo stesso loro approccio alla comunicazione fu totalmente differente. Leibniz fu, infatti, al contrario di Newton, fautore di un linguaggio universale per una conoscenza accessibile a tutti ed era aduso pubblicare ogni suo lavoro, affinché il mondo lo potesse utilizzare e, nel contempo, lo potesse giudicare.

Lettera posterior

L’anagramma dell’Epistola posterior.



Teorie in pubblico e ipotesi in privato?

 
A questo punto occorre chiedersi se la dichiarazione di principio, quel notissimo motto “non fingo ipotesi” con cui Newton definisce nella seconda edizione dei Principia il suo approccio alla certezza delle teorie in filosofia sperimentale, sia da individuare come la ratio tramite la quale il genio di Woolsthorpe discerne ciò che è degno di pubblicazione e ciò che occorre mantenere privato perché privo di contenuti certi. Se si seguisse fino in fondo questo principio, peraltro disatteso in più di una circostanza dallo stesso Newton, si potrebbe inferire che la totale mancanza di testi alchemici tra le pubblicazioni newtoniane possa dipendere dalla personale conclusione che i decenni trascorsi in esperimenti e studi teorici non abbiano condotto ad alcun risultato affidabile e sufficientemente dimostrato attraverso una sperimentazione rigorosa. Ciò però è contraddetto, in primis, dal contenuto del manoscritto della metà degli anni novanta, dal titolo Praxis,[55] che è un resoconto, convinto ed entusiasta, dei successi sperimentali che Newton è sicuro di aver conseguito nella sua pratica alchemica. In altre circostanze egli si dimostra meno sicuro dei propri risultati, come nel caso della stesura della Short Chronicle (1716), altra opera manoscritta (questa volta dedicata alla cronologia antica) che egli aveva improntato, almeno nelle originarie intenzioni, come breve epitome da presentare, dopo esplicita richiesta, alla futura regina d’Inghilterra per un utilizzo strettamente privato. Con la complicità del patrizio veneziano Antonio Schinella Conti, il manoscritto approderà addirittura in Francia dove verrà pubblicato, corredato anche da numerose critiche e confutazioni, nonostante l’esplicito divieto dell’autore. Tali circostanze portarono l'ormai vecchio Newton (quello più “mondano” e “istituzionale”) a reagire con veemenza e giustificarono senz’altro il suo sdegno; la lettera che egli indirizzò al responsabile di tale sgarbo, l’editore della versione pirata, spiega come all’epoca il suo sistema cronologico fosse “imperfetto e confuso” e che per tale motivo quel manoscritto non doveva essere pubblicato.[56] E se anche l’attenzione di Newton si concentrò sulle numerose critiche che gli riversarono gli eruditi d’oltremanica, la sua maggior preoccupazione concerneva l’allora mancato raggiungimento di risultati certi: egli non voleva che risultati parziali e non debitamente controllati fossero divulgati e quindi accostati al suo nome, cioè al suo prestigio. Certezza che egli stesso dichiarerà di aver ottenuto negli ultimissimi anni della sua vita,[57] nella preparazione di quella che sarebbe stata poi la sua ultima opera pubblicata: la Chronology.

Da questi esempi è chiaro, come tra l’altro già dimostrato felicemente da Frank. E. Manuel e Maurizio Mamiani, che in chiave epistemologica, Newton non rileva alcuna differenza di valore, sul piano della certezza dei risultati e sul metodo per acquisirli, tra i suoi lavori editi di filosofia naturale e i suoi lavori rimasti privati e dedicati all’interpretazione delle profezie, all’alchimia e alla cronologia. Ed è ancor più lampante come Newton, in realtà, non mancò d’inserire nelle sue opere a stampa alcune proprie congetture, pur distinguendole sempre nettamente dalle teorie dimostrate. Si legge, infatti, nel terzo libro dei Principia quale fosse il ruolo delle comete nella costruzione cosmologica newtoniana, ruolo attribuito semplicemente in forma d'ipotesi o congettura. Non diversamente egli si era comportato all’epoca delle prime dispute sulla natura della luce con il saggio An Hypothesis Explaining the Proprieties of Light (1675), tramite il quale Newton tentò di parlare il linguaggio, ai suoi occhi meno rigoroso, a cui erano abituati i suoi contemporanei; né si era esentato di proporre ipotesi in calce all’Opticks, nelle celebri Queries, tra l’altro assai ricche di espliciti influssi alchemici. Nelle opere newtoniane edite di filosofia naturale sono, quindi, ben presenti e distinti i due registri: da una parte quello delle teorie certe e dall’altra quello delle ipotesi probabili.[58] Un discorso a parte merita la sua opera di cronologia antica che, pur presentandosi come contenuto di un sistema certo e dimostrato, con tanto di margine d’errore quantificato, confonde spesso i due registri, presentando come dati certi congetture a dir poco azzardate.

Per tutti questi motivi, non si può considerare il limes tra certezza e probabilità, spesso tracciato vividamente da Newton, come la barriera invalicabile che gli impedì di rendere pubblici alcuni dei suoi lavori.


Verità senza fronzoli

Al contrario, la fama di uomo esoterico del genio inglese fu senz’altro alimentata dall’oscurità del suo modo di procedere nella trattazione dei suoi testi, come anche dell’estrema aridità del suo stile di scrittura. Tra i mille aneddoti che si ritrovano nelle prime biografie, tra i più celebri v’è n’è uno che racconta di un caustico studente del Trinity che, vedendolo passare, lo apostrofò dicendo: “Ecco l’uomo che ha scritto un libro che né lui né nessun altro comprende”. L’anonimo studente di certo si riferiva alla complessità della matematica utilizzata nelle dimostrazioni presenti nei Principia (cosa che in lato sensu ha già in sé elementi esoterici) ma senz’altro denunciava anche quanto il trattato fosse poco improntato alla chiarezza e intelligibilità, con le numerose dimostrazioni saltate a piè pari e lasciate alla buona volontà - e alla necessaria ottima competenza - del lettore. Il medesimo modo di procedere era peraltro già presente nelle descrizioni degli esperimenti legati alla teoria della luce e presentati nei saggi pubblicati all’epoca della disputa risalente alla metà degli anni settanta, come d’altronde fecero notare gli allora suoi avversari Hooke e Huygens. La netta preferenza che Newton dimostrò nei confronti dell’atto della scoperta rispetto a quello della sua trasmissione all’alterità in modo discorsivo, una distinzione questa che Robert Sanderson, attentamente studiato dal giovane Newton e che influenzerà in modo determinante il suo metodo d’indagine, aveva posto alla base del suo approccio teorico nel Logicae artis compendium, non gl’impedì di concepire una versione meno oscura del suo sistema di natura, impostando dapprima un terzo libro più discorsivo e che riassumesse in termini più chiari gli altri due e, poi, addirittura un testo ripreso da questo terzo libro ancora più semplificato, con il titolo di De mundi systemate. Presto, però, abbandonò il progetto che evidentemente non sentiva interamente e intimamente come proprio, ma come indotto prevalentemente da insistenze esterne.

Anche l’ultima opera newtoniana, la Chronology, mantiene inalterato lo stile arido, del tutto incurante della forma e privo di qualsiasi compiacimento letterario - il che pone Newton agli antipodi di un suo precursore in materia scientifica come Galileo - tanto che Westfall giunse a definirla un’opera “di un tedio colossale”[59]; uno stile che indica chiaramente il poco interesse verso l’arte della persuasione tramite la struttura del discorso e la piacevolezza della lettura, a favore invece della forza che in se stessa può sprigionare la dimostrazione matematica, o semplicemente rigorosa, della realtà (che innegabilmente possiede una sua propria eleganza) e che Mamiani, felicemente, definisce la “retorica della certezza”[60].


La prudenza di un eretico


Il neostoicismo di Giusto Lipsio suggeriva al suddito le virtù della constantia e della prudentia come antidoto alle prevaricazioni della coercizione politica, sottraendolo ai rischi della persecuzione e della censura: un sorta di "vivere nascostamente" già teorizzato dagli epicurei. Le condanna di Galileo, è noto, aveva consigliato Cartesio, che avanzava in maschera poiché bene vixit qui bene latuit, al nicodemismo, già peraltro adottato da Giordano Bruno nel periodo veneziano, una scelta di discrezione che qualche anno dopo adottò lo stesso Newton, segretamente eretico, in tutte le sue attività che in qualche modo, anche del tutto indirettamente, potessero far trasparire le sue convinzioni teologiche. Egli era antitrinitario e vicino alle posizioni dell’arianesimo e del socinianesimo: nell’Inghilterra protestante della sua epoca, si trovò, in tutto il suo lungo percorso esistenziale, in territorio ostile (nonostante la costante crescita di consensi della tolleranza lockiana), se si esclude la comune avversione al cattolicesimo romano che univa sia le dottrine riformate, sia la confessione ariana. Se, infatti, le esplicite prese di posizione che Newton adottò nei confronti del filo-cattolicesimo della corona ai tempi di Giacomo II, gli valsero, dopo la vittoria della Gloriosa Rivoluzione, la nomina a membro del Convention Parliament nel 1689, aprendo così la fase più mondana della sua vita, alcuni suoi comportamenti pubblici, come ad esempio la dispensa dal giuramento dei trentanove articoli di fede della chiesa anglicana, ottenuta nel 1675, gli causarono non poche apprensioni e lo convinsero a occultare molte delle sue opere che contenessero anche soltanto indizi circa la sua adesione all’arianesimo (fu questo senz’altro il caso della tormentata decisione di rendere noto o meno il suo sistema cronologico per la storia antica, al tempo degli Hannover). E proprio mentre egli si sedeva per la prima volta in parlamento, il Toleration Act ratificato da Guglielmo d’Orange operava l’ennesimo giro di vite nei confronti dei cattolici e degli unitariani inglesi. L'Act for the Suppression of Blasphemy and Profaneness di dieci anni dopo, inasprì ulteriormente la situazione, prevedendo l’apologia dell’unitarianesimo come reato e interdicendo i suoi sostenitori dai pubblici uffici. I filosofi Samuel Clarcke e William Whiston, meno prudenti del loro amico Isaac Newton che nulla fece tra l'altro per aiutarli, si videro stroncate le rispettive carriere nella chiesa anglicana e all’università di Cambridge, proprio per la loro vicinanza all'unitarianesimo. La notizia dell’impiccagione di uno studente a Edimburgo, sostenitore delle medesime tesi, sparse il terrore per tutto il regno e indusse a più miti consigli anche i più radicali oppositori della dottrina dominante. A Newton non rimaneva altra scelta che proseguire in segreto le proprie riflessioni teologiche, in prudente silenzio, ma senza arretrare di un passo da quelle convinzioni, maturate in anni di studio e meditazione, che non rinnegò nemmeno sul letto di morte.


Lo sguardo e il silenzio


Pur tenendo in seria considerazione gli approcci essoterici e divulgativi della trasmissione del sapere, si è visto, Newton rimase per tutta la vita un vero e convinto filosofo ermetico, se si escludono quei pochi tentativi, spesso abbandonati, di rendere se stesso e la sua sterminata opera meno elitari. “La verità è figlia del silenzio”, appuntò Newton, e ne fece il suo motto, la regola di comportamento di un filosofo veramente esoterico - talvolta semplicemente prudente, in altri casi schiettamente misantropo o poco interessato alla comunicazione delle proprie idee agli altri -, tra i molti essoterici della sua epoca e del suo ambiente, che si erge in difesa di un sapere non sempre adatto alla generalità degli individui e di una conoscenza di derivazione divina e tramandata dall’inizio dei tempi in segni enigmatici e ambigui, tutti da decifrare tramite una chiave che solo il sapiente può possedere. Quella di Newton è un’idea di esoterismo della conoscenza che ancor oggi, nella confusione che una certa idea di cultura ingenera tra ciò che è schiettamente essoterico e ciò che è propriamente esoterico e, ancor più, tra ciò che è divulgativo e ciò che è mero intrattenimento,[61] pone diversi interrogativi, soprattutto quando le potenzialità della scienza presentano seri problemi circa i rischi che queste possono comportare per l’incolumità del genere umano, se non adeguatamente preparato (basti pensare alle possibili applicazioni della fisica quantistica e della genetica). Un esoterismo condivisibile che non va, però, confuso con l’autoreferenzialità di molte delle discipline scientifiche attuali che, in alcuni casi, incarnano un approccio analogo ma assai meno condivisibile che non forma, come dovrebbe, chiunque aspiri a diventare "iniziato", ma esclude a priori chi non possiede i mezzi esogeni (sociali ed economici, in primis) per praticare l’ascesa al vero sapere, e che spesso dimostra di non curarsi sufficientemente sia dei danni e delle criticità che inevitabilmente accompagnano la conoscenza, sia della propria storia (fatta di errori e quindi maestra di vita), in nome dell'instancabile corsa verso il progresso e verso il futuro. "Siamo nani sulle spalle di giganti e possiamo vedere più cose di loro e più lontane", scriveva Bernardo di Chartres citato a sua volta da Newton, ma l’orizzonte a cui dobbiamo indirizzare il nostro sguardo una volta saliti fin lassù, potrebbe non essere soltanto l’orizzonte del domani, ma anche la frontiera delle nostre origini; Newton ne era convinto: in silenzio, scrutava il passato.


Alessio Miglietta


Di Alessio Miglietta in Airesis, nelle sezioni I labirinti della ragione ed Ethnikà, sono ospitati i seguenti contributi:

NOTE

[1] Per non parlare di chi sommava in sé, almeno apparentemente, aspetti contradditori, come van Helmont o lo stesso Newton.
[2] Non è un caso che dal Cinquecento, e in particolare nel Seicento, il genere dialogico in letteratura (anche scientifica) riscosse un nuovo, straordinario successo; si pensi ad alcune delle opere di Galileo.
[3] Sulla scia, evidentemente, delle proposte di Bacone. Cfr. M. Mersenne, La verité des sciences, Paris, 1625, p. 105.
[4] In questo senso, basti la lettura del De costantia (1575) di Giusto Lipsio e il Convito morale (1639) di Pio Rossi.
[5] Cfr. Plutarco, Iside e Osiride, 67.
[6] Cfr. F. Bacon, De Sapientia veterum, Londini, 1609.
[7] Cfr. G. Cuper, Harpocrates seu Explicatio Imagunculae Argenteae Antiquissimae, Amstelodami, 1676.
[8] Cfr. William Andrews Clark Memorial Library, Los Angeles, Ms. fN563Z.
[9] In particolare con John Thurloe, segretario particolare di Oliver Cromwell.
[10] R. Cudworth, The True Intellectual System of the Universe, London, 1678, pp. 314-315.
[11] Cioè del meccanicismo propriamente newtoniano, non del newtonianesimo successivo.
[12] Si pensi, ad esempio, a Clemente di Alessandria, Gli stromati, I, 1 e XII, 1.
[13] Nella Nuova Atlantide, se i sapienti ritenevano alcune scoperte troppo pericolose, essi non le comunicavano nemmeno al re.
[14] Per un approfondimento, su tutti, D. Arecco, Una storia sociale della verità, Roma, 2012, pp. 108 e ss.
[15] Il lungo elenco potrebbe partire da Biot, De Morgan e Brewster e arrivare a Hall, Cohen e Whiteside.
[16] Una ragione esogena che ha contribuito non poco all’occultamento di alcuni aspetti di Newton: un argomento, questo, che si affronterà in un articolo successivo, a ciò interamente dedicato.
[17] “Egli non sarebbe stato abbastanza previdente da imprimere al suo orologio un moto perpetuo”; dal carteggio Leibniz-Clarke cit. in P. Rossi, La nascita della scienza moderna, Bari-Roma, 2000, p. 341. Un attacco simile, com’è noto, verrà indirizzato da Leibniz ai meccanicisti cartesiani e, soprattutto, agli occasionalisti Malebranche e Gaulincx.
[18] Cioè l'insieme dei manoscritti Yahuda Ms. Var. 1, ff. 1-10, 12-19, 24-26, a-d, 1-63; Yahuda Ms. Var. 1.1, ff. 1-31.
[19] Per la verità esisterebbe almeno una terza via, rappresentata dall’idea di Seth Ward. Cfr. D. Arecco, Una storia sociale della verità, cit., p. 112.
[20] A.R. Hall, L. Tilling, The Correspondence of Isaac Newton (1676-1687), New York, 1976, vol. II, 143.
[21] Se si escludono le significative reminiscenze presenti nel De natura acidorum e nelle Queries dell’Opticks.
[22] Ebrei, V, 12.
[23] M. Mamiani, introduzione a Isaac Newton, Trattato sull’Apocalisse, Torino, 1994, p. xxiii. V. anche Yahuda Var. 15.3, f. 46.
[24] Cioè Yahuda Ms. 1.
[25] Cfr. Yahuda Ms. 1.1, f. 18.
[26] Per un approfondimento, su tutti il magistrale lavoro di Maurizio Mamiani in Isaac Newton, Trattato sull’Apocalisse, cit., p. XII e XXIII.
[27] Burnet vedeva nel linguaggio mosaico sì una semplificazione (come già sostenuto, peraltro, anche da Bacone che sentenziava: "come i geroglifici sono più antichi delle lettere, così le parabole sono più antiche delle argomentazioni"), ma nel contempo ne denunciava la falsa descrizione del reale, priva di alcuna verità scientifica.
[28] A.R. Hall, L. Tilling, The Correspondence of Isaac Newton (1676-1687), cit., vol. II, p. 331. Qui è evidente la vicinanza con le idee spinoziane del Trattato filosofico-politico (1670), che però si riduce soltanto a questo specifico aspetto.
[29] Cfr. P. Rossi, I segni del tempo. Storia della Terra e storia delle nazioni da Hooke a Vico, Milano, 2003, p. 91.
[30] Cfr. A.R. Hall, L. Tilling, The Correspondence of Isaac Newton (1676-1687), cit., vol. II, pp. 333-334.
[31] Cfr. M. Mamiani, introduzione a Isaac Newton, Trattato sull’Apocalisse, cit., p. xxxix.
[32] Cfr. Yahuda Ms. 15.3.
[33] Cfr. Porfirio, Sulle immagini, fr. 1.
[34] Cfr. P. Casini, The Classical Scolia, in «History of Science», 1984, vol. 22, p. 18.
[35] A.R. Hall, L. Tilling, The Correspondence of Isaac Newton (1676-1687), cit., vol. II, p. 437.
[36] Idem, The Correspondence of Isaac Newton (1661-1675), vol. I, New York, 1976, 12.
[37] D. Arecco, I Fatti e le Idee. Scienza, religione e società nell’Inghilterra moderna, Genova. 2007, p. 84.
[38] Cfr. N. Guicciardini, Newton, Roma, 2011, pp. 24-25.
[39] Cfr. A. Miglietta, Teoria della materia e cosmologia in Isaac Newton: tra eredità stoica e nuova scienza, Tesi di laurea in Storia, Università degli Studi di Genova, a.a. 2010/2011, pp. 64-65.
[40] Va notato, però, che il vegetarianismo di Newton è soltanto una leggenda. Cfr. R.S. Westfall, Never at Rest. A biography of Isaac Newton, Cambridge, 1980, pp. 850-851.
[41] A.R. Hall, L. Tilling, The Correspondence of Isaac Newton (1661-1675), cit., 35.
[42] Su questo v. il resoconto autobiografico in Ms. Add. 3968, f. 122.
[43] Cfr. P.A. Rossi, Metamorfosi dell’idea di natura, Genova, 1999, pp. 15, 28 e 63.
[44] Sulla “retorica della certezza” utilizzata da Newton v. M. Mamiani, La retorica della certezza, in M. Pera e W.R. Shea, L’arte della persuasione scientifica, Milano, 1992, p. 210.
[45] Cfr. A.R. Hall, L. Tilling, The Correspondence of Isaac Newton (1676-1687), cit., vol. II, 235 e 236.
[46] Cfr. supra e M. Mamiani, introduzione a Isaac Newton, Trattato sull’Apocalisse, cit., p. xxv.
[47] Cfr. Keynes Ms. 133, f. 10.
[48] Cfr. F.E. Manuel, A Portrait of Isaac Newton, Harvard, 1968, pp. 264-291.
[49] Per i dettagli della diatriba tra Flamsteed e Newton vedi, tra gli altri, R.S. Westfall, Never at Rest. A biography of Isaac Newton, cit., pp. 655-667 e 688-696.
[50] Una stima reciproca che non impedì a Newton, tra l’altro, di propendere per le tesi in filosofia politica dell’avversario di Locke, Robert Filmer, come testimonia il manoscritto The original of Monarchies (Keynes Ms. 146).
[51] Cfr. A.R. Hall, L. Tilling, The Correspondence of Isaac Newton (1688-1694), cit., vol. III, 420-421.
[52] Ci si riferisce alla diatriba sulla cronologia antica tra eruditi francesi e newtoniani, risalente a pochi anni dopo.
[53] Cfr. A.R. Hall, L. Tilling, The Correspondence of Isaac Newton (1676-1687), cit., vol. II, 188.
[54] Per un approfondimento v. G. Cantelli, Introduzione in La disputa Leibniz-Newton sull’analisi, Milano, 2006.
[55] Babson Ms. 420.
[56] Cfr. Yahuda Ms 27, ff. 1r e 1v.
[57] Cfr. I. Newton, Chronology of Ancient Kingdoms Amended, London, 1728, introduzione.
[58] Cfr. N. Guicciardini, Newton, cit., p. 81.
[59] R.S. Westfall, Never at Rest. A biography of Isaac Newton, cit., p. 815.
[60] Cfr. M. Mamiani, La retorica della certezza, in M. Pera e W.R. Shea, L’arte della persuasione scientifica, Milano, 1992, pp. 207-226.
[61] Cfr. M. Angelini, Dalla cultura al culto, Genova, 2012, pp. 39-46 e R. Guénon, Mélanges, Paris, 1976 tr. it. G. Cillario, La diffusione della conoscenza e lo spirito moderno, in Il Demiurgo e altri saggi, Milano, 2007, pp. 195 e ss.


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